Proponiamo alcune riflessioni del cardinale Angelo Scola sugli ultimi due capitoli dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco. Il testo può anche essere scaricato in formato PDF a questo link.


Intervento del cardinale Scola
ad un gruppo di riflessione sulla “Fratelli tutti”*

Prima di commentare, come mi è stato chiesto, gli ultimi due capitoli della “Fratelli tutti”, voglio fare un’osservazione di carattere generale sul tema dell’enciclica, cioè sulla fratellanza. È un concetto che va fondato e capito bene perché, come spesso succede con i fattori costitutivi dell’esperienza cristiana, il rischio di una sua riduzione moralistica è molto forte. Si dice fratellanza e uno pensa immediatamente a cosa deve fare perché questa fratellanza accada, spostando subito il discorso sul piano del dovere. Invece, prima che al dover essere dobbiamo guardare all’essere, cioè al senso oggettivo del concetto di fratellanza, alla sua realtà.  Il cristianesimo infatti è una visione del mondo realista, la più realista che esiste, ed il realismo è convergenza tra l’intelletto e la realtà.

Qual è la realtà che fonda la fratellanza? Leggendo la “Fratelli tutti” notiamo che il Papa, quando cerca di darne una definizione, mette sempre in correlazione il termine fratellanza con il termine appartenenza. Ad esempio, dice che “abbiamo bisogno di costituirci in un noi che abita la Casa comune” (par. 17), parla della necessità di fermare la tendenza “nel mondo attuale” a indebolire “i sentimenti di appartenenza” (30) e di recuperare la passione “per una comunità di appartenenza” (36). Guardate che non è così semplice e scontato. Una delle obiezioni che ho incontrato più di frequente nel mio trentennale ministero episcopale è che non si deve parlare di appartenenza perché altrimenti ci si chiude, è un concetto che esclude gli altri. Invece, secondo il Papa, l’appartenenza è costituiva della fratellanza. Quindi l’essere fratelli non è riducibile ad un impegno etico, che certamente dovrà essere conseguente ma non può fondare il concetto di fratellanza, che ha invece bisogno di un nesso oggettivo con la realtà e che viene individuato nell’esperienza dell’appartenere.

Che cosa sia l’appartenenza lo spiega bene von Balthasar, secondo cui possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza (un tema ripreso da Karol Wojtyla nel suo libro “Persona e atto”). Non esiste un’antropologia adeguata al di fuori di questa convinzione. Se noi allora guardiamo all’esperienza in atto cogliamo la relazione dell’io con la realtà, o per dirla con un termine suggestivo, l’io è in grado di “ospitare” in sé la realtà. Mi ricordo che una volta, quand’ero a Venegono, mi trovavo con monsignor Giovanni Moioli, un grande maestro di spiritualità, sulla grande terrazza del seminario, ed insieme contemplavamo la bellezza del monte Rosa reso ancor più splendido dalla giornata ventosa. “Ecco – mi disse monsignor Moioli – io posso dire che il monte Rosa è mio perché lo posso ospitare in me, nella mia mente”.

Allora, se noi guardiamo alla realtà, possiamo vedere che l’io si presenta sempre come un’unità duale. È una riflessione che troviamo in filosofi e teologi come Gaston Fessard, Romano Guardini, Hans Urs von Balthasar, ed anche nel magistero di San Giovanni Paolo II. L’io è unità di due polarità. La prima è quella di anima e corpo, strutturalmente collegate fra loro (se ho il mal di testa faccio fatica a pensare bene e se provo una grande emozione o dolore anche il mio fisico ne risente). Una seconda polarità è quella di uomo e donna: la differenza sessuale è ineliminabile, nell’esperienza del reale mi trovo di fronte ad una modalità d’incarnare la sessualità che io non posso fare mia e solo la follia di una certa cultura contemporanea la ritiene possibile tramite artifici tecnocratici. Una terza polarità, ed è quella che qui c’interessa, è tra individuo e società. Ognuno di noi è sempre strutturalmente in relazione ed è questo il punto di partenza per giungere alla fratellanza. Noi viviamo l’unità attraverso le polarità che generano le dimensioni costitutive dell’io, per questo la nostra unità è sempre in tensione. Ogni individuo è in relazione, e quindi in tensione con gli altri, ed è in questo rapporto che s’inserisce la libertà per costruire la fratellanza.

È la natura della nostra appartenenza che fonda la fratellanza: non è prima di tutto un dovere ma un dato costitutivo del nostro essere. Dobbiamo sempre tenerlo presente, altrimenti parlare di fratellanza è come cercare di trattenere l’acqua con le mani: non ci si riesce, ci sfugge via. È questo il criterio che fa da cornice, in parte esplicita ed in parte implicita, a tutta l’enciclica.

 

Ed ora vorrei fare alcune osservazioni relative al capitolo VII “Percorsi di un nuovo incontro” ed al capitolo VIII “Le religioni al servizio della fraternità nel mondo”. Il settimo capitolo è dedicato quasi interamente a due temi cruciali che vengono giudicati impraticabili: la guerra e la pena di morte. Qui le cose sono dette con una tale chiarezza che non vedo cosa potrei aggiungere o spiegare, è sufficiente leggere attentamente il testo. Voglio invece soffermarmi su quel che il Papa chiama “L’architettura e l’artigianato della pace”, due termini che mi piacciono molto. Cito: “L’impegno arduo per superare ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza” (230). E poi un’affermazione che trovo bellissima ed espressa in modo molto convincente: “I processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana” (231). E aggiunge che le grandi trasformazioni non si costruiscono a tavolino. Il Papa dunque va oltre la solita affermazione un po’ generica che dobbiamo essere uomini di pace e pone in termini molto precisi la questione della modalità con cui possiamo concretamente costruire la pace. Un altro passaggio importante è il seguente: “Non c’è un punto finale nella costruzione della pace sociale di un Paese – e la storia, aggiungo io, è lì a dimostrarlo – bensì si tratta di un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti” (232).  Un impegno che si rivolge soprattutto agli ultimi, in quanto “l’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i poveri” (234).  Un altro elemento che troviamo nell’enciclica, un segno anch’esso di grande realismo, è la ripresa di un’affermazione fatta da San Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: “la Chiesa non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale” (240). Questo è molto importante perché il conflitto esiste a livello personale e a livello comunitario. Esiste già dentro ognuno di noi, pensate alla dualità di anima e corpo che con la morte diventa radicale conflittualità. O pensate al conflitto tra uomo e donna che mette a prova la famiglia. Ed il conflitto a livello sociale entra in tutti i settori, lo vediamo in questi giorni con il conflitto fra la tragedia sanitaria da un lato e la tragedia economica che ne è derivata. Ogni scelta che a questo proposito viene fatta dalle autorità comporta un rischio molto elevato proprio perché il conflitto fra i due aspetti non è eliminabile. Ma sono moltissimi gli esempi di quello che il Papa chiama “il conflitto inevitabile”, pensiamo al caso dell’ex Ilva di Taranto dove il conflitto tra salute ed economia mette in crisi la difesa del posto di lavoro. “La Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra i diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prendere posizione con decisione e coerenza” (240). Ecco dunque che la fratellanza basata sull’appartenenza rende evidente la natura dell’io in relazione con gli altri, una natura che implica quel che Guardini chiamava opposizioni, Fessard chiamava tensioni e Balthasar polarizzazioni. Quando la Chiesa parla di pace non lo fa in modo ingenuo, riconosce il dato conflittuale in cui siamo immersi. Però aggiunge un criterio: la pace “si può realizzare soltanto superando il male con il bene” (243), dice citando la lettera di San Paolo ai Romani. O, come diceva San Giovanni Paolo II, per vincere il male bisogna circondarlo con il bene”.

C’è una precisazione metodologica e questa è tipica di Papa Francesco: l’unità è superiore al conflitto, una precisazione che troviamo ribadita anche nelle altre sue encicliche. Ciò significa che l’impegno per superare i conflitti è basato sulla fiducia che il modo “artigianale” di costruire la pace è la carta vincente.

Dire che l’unità è superiore al conflitto “non significa puntare al sincretismo” (245), tutto ciò che è potuto nascere come tensione e opposizione può risorgere come unità, ma non a scapito della propria identità. Il Papa dà poi molto peso al tema della memoria e fa una difesa della storia in un tempo in cui siamo tentati di giocare tutto nell’ottica del presente. In questo contesto richiama la Shoah e sottolinea il dovere della memoria nella storia delle persone e dei popoli.

La sottolineatura del tema della pace è indispensabile per affrontare la condanna della guerra e della pena di morte che ne segue. Voglio solo ricordare che sulla pena di morte c’è stata un’evoluzione della dottrina che ha portato alla riscrittura del paragrafo 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica. La questione era stata posta da Giovanni Paolo II, me lo ricordo bene perché all’epoca io ero consultore presso la Congregazione per la dottrina della fede. Giovanni Paolo II sollevò la questione facendo notare che diventava difficile condannare l’aborto come male intrinseco se si accettava la pena di morte. L’argomento è stato poi ripreso da Papa Francesco che ha inviato una lettera a tutti i vescovi della Chiesa cattolica per spiegare la riscrittura del paragrafo del Catechismo.

Sul capitolo ottavo dell’enciclica, dedicato al dialogo fra le religioni, faccio due brevi osservazioni. Anche qui va tenuto presente un antefatto ed è la “Dignitatis humanae”, la Dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa che ha affrontato il problema a partire dalla libertà di coscienza come diritto fondamentale. Poi ovviamente si sottolinea che la libertà di coscienza non va intesa come indifferenza generalizzata ma si esercita in un continuo paragone con la verità. Questo consente di affrontare correttamente il tema della conversione ad un’altra religione, una realtà accettata dai cristiani ma rifiutata decisamente dai musulmani, anche dai più aperti al dialogo. Mi ricordo che in una riunione del comitato scientifico di Oasis che si era tenuta ad Amman, la capitale della Giordania che notoriamente è una terra rispettosa e accogliente della realtà cristiana, venne affrontata la questione della conversione. Ne discutemmo un’intera giornata con gli esponenti islamici ma non si riuscì a trovare il minimo accordo: erano inamovibili sul fatto che un musulmano non può lasciare la sua religione per un’altra. È un’esperienza che ho visto con i miei occhi anche qui da noi: i musulmani che si sono convertiti al cristianesimo hanno dovuto espatriare, cambiare nome e lavoro, fuggire anche dalla propria famiglia. Sul fronte opposto il principio della libertà religiosa è contestato dagli ultra-tradizionalisti. Che cosa aggiunge a tutto questo l’enciclica “Fratelli tutti”? Il capitolo ottavo ci dice che l’appello alla fratellanza esige il rispetto della libertà religiosa che deve produrre un confronto continuo. Quindi il dialogo fra le religioni è decisivo per far crescere la fratellanza, in quanto il rapporto con la trascendenza è un principio di garanzia dell’autenticità dell’esperienza umana. E qui Papa Francesco riprende un testo, che definisce “memorabile”, della Centesimus Annus: “Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisce giusti rapporti tra gli uomini”. (273). Quindi la libertà religiosa non è qualcosa di estrinseco al nostro essere cristiani. Questo noi l’abbiamo sperimentato solo negli ultimi anni, da quanto siamo diventati terra d’immigrazione, in particolare con l’arrivo di migranti di religione musulmana e di cristiani ortodossi dall’Est Europa. Abbiamo iniziato a capire che il dialogo inter-religioso, così come il dialogo ecumenico, sono parti essenziali della vita di fede.

La seconda osservazione riguarda il rapporto tra religione e violenza. A questo proposito quando discutiamo del Corano dobbiamo lasciare la parola a coloro che conoscono bene la materia, prima di giudicare l’islam e il suo rapporto con la violenza sulla base di una singola sura o versetto. Vi ricordo che anche nell’Antico Testamento troviamo uccisioni e stragi dettate dalla religione e noi possiamo leggere e comprendere anche quelle narrazioni alla luce di Cristo e a partire dal Nuovo Testamento. Io sono convinto che la religione si unisce alla violenza quando si lascia afferrare da un parassita che è l’ideologia. Questo è molto evidente se guardiamo all’estremismo islamista ma anche se consideriamo la storia della Chiesa. La religione come tale non può andare d’accordo con la violenza, anzi la combatte perché Dio non parteggia per nessuno ma è vicino ad ogni persona, ad ogni popolo. Quindi la violenza non può trovare appiglio nelle convinzioni religiose bensì nelle sue deformazioni. Queste osservazioni ci consentono di affrontare in termini realisti il dramma dell’immigrazione e la tragedia dell’estremismo islamista in ogni sua forma, anche recente. Pensiamo a quanto sta succedendo in Africa e alla sostanziale disattenzione e incomprensione di noi europei nei riguardi di questi fenomeni.

 

Domanda: Leggendo l’enciclica mi ha molto colpito il cammino di conversione davvero radicale che il Papa ci chiede per quanto riguarda il tema dell’economia. Veniamo da una società che pensavamo cristiana per cui certe cose le abbiamo accettate in modo tutto sommato acritico senza accorgerci che contenevano un veleno che è entrato in noi. C’è un altro modo non solo di vedere ma anche di vivere l’economia?

È un cambiamento che deve avvenire non solo nella concezione dell’economia ma dello stile di vita. A questo proposito il Papa entra nel merito di una questione cruciale che riguarda il rapporto tra il diritto alla proprietà privata e la destinazione universale dei beni. Ognuno di noi, quando prende decisioni che riguardano l’economia, dovrebbe porsi sempre la domanda se la scelta che compie rispetta uno dei principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, e cioè la destinazione universale dei beni. Ricordo che quando nelle nostre comunità abbiamo iniziato l’esperienza del versare la decima in un fondo comune era molto chiaro il riferimento a questo principio. Certamente la proprietà privata è un diritto fondamentale ma non è un valore assoluto, deve fare i conti con Dio che ha destinato i beni a tutti. E dovremmo sempre tenerlo presente nel modo con cui rispondiamo ai desideri e ai bisogni personali e familiari. Per quanto riguarda la concezione dell’economia è evidente a tutti ormai che il distacco della finanza dalla produzione ha prodotto effetti deleteri ma credo che purtroppo siamo ancora molto lontani dall’intravedere una soluzione.

 

Domanda: Nell’enciclica si parla di perdono, un tema che il Papa con il suo recente viaggio in Iraq ci ha messo davanti agli occhi in tutta la sua drammaticità, incontrando dei cristiani perseguitati che il perdono l’hanno praticato non le sembra?

Sono stato in Iraq nel giugno del 2015, dopo che l’Isis si era impadronito di Mosul e della piana di Ninive. Ci ero andato con il Patriarca della Chiesa maronita, Béchara Boutros Rai, su invito del Patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako, e tutti insieme ci recammo a far visita agli sfollati nel Kurdistan del nord. Per me è stato un vero e proprio choc: decine di migliaia di persone erano state costrette ad abbandonare nel giro di poche ore la loro casa, i loro averi, le loro attività e a fuggire lasciandosi dietro tanti morti. Erano quasi tutti cittadini che avevano goduto di un relativo benessere, gente di classe media, insegnanti, professionisti, e si sono ritrovati di colpo senza più nulla, obbligati a vivere ammassati dentro dei container a 50 gradi all’ombra. Mi ha impressionato il clima di festa e gratitudine con cui ci hanno accolto, non come persone ma come rappresentanti della Chiesa cui sono rimasti attaccati con fedeltà commovente. Non avevano perso la fede, anzi l’avevano rafforzata nell’esperienza del perdono verso coloro che li avevano perseguitati in modo barbaro e feroce. Il credente non può fare a meno di chiedere e concedere perdono, sempre, in ogni circostanza. E dobbiamo ammettere che noi, cristiani d’Occidente, siamo molto lontani da questo. Non pratichiamo più il perdono, basta vedere quel che succede in tante famiglie che si sfasciano con estrema facilità non tanto per gli errori, i litigi o i tradimenti ma perché non si è capaci di perdonare.

 

Domanda: non Le sembra che in Occidente ci sia molta disattenzione nei riguardi dei cristiani del Medio Oriente dai quali invece avremmo tanto da imparare?

Certamente, ed è per questo che quando abbiamo dato vita ad Oasis abbiamo voluto prima di tutto metterci in ascolto dei nostri fratelli cristiani delle Chiese orientali per poi avanzare proposte e iniziative di dialogo con il mondo islamico. Non possiamo prescindere da quel che vivono, pensano e soffrono quando affrontiamo la realtà del Medio Oriente, ad esempio la tragedia della Siria.  Abbiamo molto da imparare da loro ma per farlo dobbiamo avere l’umiltà di mettere da parte le nostre analisi, fatte a distanza stando comodamente seduti sulle nostre poltrone.

 

Domanda: L’enciclica “Fratelli tutti” è piena di riferimenti al magistero dei predecessori di Papa Francesco, in particolare vi si trovano molte citazioni dei documenti e dei discorsi di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Eppure è abbastanza diffusa l’idea che l’insegnamento di Papa Francesco sia diverso, anzi su alcuni punti in contrasto, rispetto a quello di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Come è possibile?

A questo proposito è interessante il riferimento che troviamo più volte in quest’enciclica alla “Centesimus annus” di San Giovanni Paolo II che è stata utilizzata come cavallo di battaglia dai cosiddetti teocon, i cattolici neo-liberisti, ed è ancora utilizzata da forti gruppi di resistenza a Papa Francesco soprattutto negli Stati Uniti. Secondo costoro la “Centesimus annus” avrebbe legittimato la dottrina e la prassi del capitalismo neo-liberale ricacciando nel pauperismo ogni tentativo di riprendere il principio cristiano dell’opzione preferenziale per i poveri e dell’attenzione agli ultimi.  Invece nel poliedro di cui parla spesso Papa Francesco i poveri, coloro che stanno alla periferia e non al centro del mondo, sono coloro che ti permettono di vedere meglio il tutto. Questo è un tema molto importante che viene ribadito nella “Fratelli tutti” e che è stato ampiamente criticato da alcuni e malamente utilizzato da altri. Invece devo dire che questa enciclica mostra la grande continuità degli ultimi tre pontificati, nella diversità ovviamente degli stili di ciascuno. Che questo non sia riconosciuto da tutti è un’ulteriore conferma del fatto che stiamo vivendo un momento molto delicato della vita della Chiesa.

 

Domanda: Mi ha colpito una frase dell’enciclica, al paragrafo 274: “Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi un’umanità radicalmente impoverita perché priva di speranza”. Il Papa lega la speranza alla libertà religiosa e al fatto che uno deve stare davanti al Mistero. Questo vuol dire che oggi la maggioranza delle persone al mondo, vivendo senza riferimento a Dio, non può sperimentare la speranza?

No, tutti la possono sperimentare perché la domanda sul senso della vita è al fondo del cuore di ognuno, anche di chi lo nega o non se ne rende conto. La speranza c’è per tutti, indipendentemente dal fatto di chiamarla così oppure no. Certamente, più è vaga la domanda sul senso e più uno si perde e s’indebolisce nel rapporto con la realtà. In ogni caso la domanda sul significato del vivere mostra l’insopprimibilità del senso religioso. Mi spiego con un esempio. Un giorno, quando stavo a Parigi, uscendo da casa mi è capitato di attraversare quel che i francesi chiamano un “terrain vague”, un terreno ricoperto di macerie e detriti dopo che è stato distrutto un caseggiato. Era aprile e ho notato che in mezzo a questa devastazione spuntavano ciuffi d’erba fresca. Il senso religioso è così: tu lo puoi sotterrare e coprire di zavorra ma non puoi impedire che salti fuori. È a questo sentimento, o a quel che ne rimane nel cuore di ognuno, che si rivolge la proposta di fede cristiana. È l’inizio di un cammino, poi uno deve accettare e riconoscere che la risposta adeguata alla domanda di senso viene da un Altro.  L’esperienza cristiana è tesa a testimoniare e ad annunciare la speranza per tutti. E qui arriviamo alla missionarietà, dimensione essenziale del credente. Il riferimento che troviamo nella “Fratelli tutti” all’incontro di san Francesco con il sultano è molto impressionante. Leggendolo mi è venuto subito in mente quel che stanno facendo i nostri missionari, preti, suore e laici, che sono presenti nei posti più sperduti del mondo per annunciare il Vangelo. Il loro lavoro, la loro presenza nelle situazioni più difficili e povere del pianeta, ci ricordano ogni giorno il legame profondo tra appartenenza e fratellanza. E mi domando se la questione della missione non sia diventato il punto debole della nostra realtà di Chiesa, il tallone d’Achille del cristianesimo occidentale.

* Trascrizione dal parlato – Testo non rivisto dall’autore