DSCN7770Riportiamo di seguito, come spunto di riflessione, uno stralcio del cap. 4 del libro del card. Angelo Scola “Come nasce e come vive una comunità cristiana” (Venezia, 2007, Marcianum Press editore).

Missione e rigenerazione del popolo di Dio

L’azione missionaria può tendere alla rigenerazione del popolo di Dio se documenta come l’incontro con Cristo nella comunità cristiana investa, attraverso il testimone, tutti gli ambiti dell’umana esistenza (famiglia, quartiere, scuola, variegato mondo del lavoro, società civile politica, economia, mass media…). Non si può parlare della vita eterna senza mostrare che la vita eterna è già in atto qui; che cambia il nostro modo di vivere adesso; che cambia il nostro modo di lavorare, di amare, di riposare, di usare i soldi, di partecipare al dolore della fame, della guerra.

Incide subito: qui ed ora. Allora la missione ha la sua verifica nel fatto che il cristiano testimonia la pertinenza – l’incidenza – dell’incontro con Cristo nella comunità, in tutti gli ambiti dell’umana esistenza. Tutti, nessuno escluso. «Nell’esperienza di un grande amore tutto diventa avvenimento nel suo ambito» dice Romano Guardini, riscrivendo in un linguaggio suggestivo la grande affermazione di Paolo: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatte tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10, 31). Ciò che affascina e convince è l’unità dell’io. Un uomo diviso non affascina nessuno. Certo, ognuno è testimone col proprio stile: uno può essere un testimone silenzioso che in tutta una vita, per quarant’anni sullo stesso posto di lavoro, non dice mai una volta Gesù Cristo; ma lo vive.

E uno può avere un temperamento per cui gli viene naturale dire all’amico: “Senti, io vedo che tu hai una grande sete di imparare ad amare; se partecipassi all’Eucaristia domenicale forse potresti trovare un inizio di risposta alla tua domanda”. Dipende da come siamo fatti. Ognuno sia se stesso. Purché si sia coscienti che l’incontro fatto deve tendere a manifestarsi in tutti gli ambiti dell’umana esistenza. L’annuncio e la testimonianza di cui parla il Papa non ha nulla a che fare con il proselitismo. È la semplice e in un certo senso inevitabile comunicazione di una vita in atto in noi, della novità che ci ha toccato. Come quando uno si innamora o decide di sposarsi: è impossibile che taccia a lungo questa novità a quelli che ha intorno. Presto o tardi, verrà fuori perché è decisiva per la sua vita. È un’esperienza di verità e di bellezza della sua vita, per sua natura incontenibile. Uno comunica se in prima persona è “coinvolto in” qualcosa. Quindi – a partire dagli affetti, dal lavoro, dal riposo – l’incontro con Cristo genera una vita nuova che anticipa eucaristicamente, su questa terra, in modo germinale, il destino di pienezza che la risurrezione della carne garantita da Gesù Cristo, ci assicura. La vita eterna o incomincia qui, o si vede che è incominciata qui o non interessa. È la grande sfida di Nietzsche: «Canti migliori dovrebbero cantarmi, perché io impari a credere al loro redentore: più redenti dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli!». La vita nella comunione ecclesiale è un anticipo, la caparra della vita eterna: «Chi mi segue, avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù» (cfr. Mc 10, 28- 31). Cento volte tanto il modo naturale di vivere gli affetti, il modo di vivere il lavoro, il modo di vivere il riposo, il modo di affrontare la realtà, il modo di gustare tutto ciò che ci viene dato, il modo di portare il dolore, la prova… La vita eterna si anticipa già qui. È il «se dunque siete risorti con Cristo» (Col 3, 1), non “se risorgerete”. È un processo di trasfigurazione che colui che si è lasciato incorporare da Cristo, nel Battesimo, dentro la comunità, già incomincia a vivere ed entro il quale la morte non è più una rottura radicale, pur nella sua laidezza, che ci fa paura e ci angoscia. La morte è il passaggio alla pienezza di questa eternità che già viene anticipata qui. Non la possiamo rimandare nel futuro.

In concreto l’azione missionaria coincide con il vivere e comunicare le implicazioni antropologiche, cosmologiche e sociali dei misteri della vita cristiana. Questo è il punto critico nella missione cristiana di oggi. Non mostriamo la rilevanza di Cristo nella vita quotidiana della gente e allora la gente – a partire da noi stessi – non capisce perché deve seguire Cristo. Non si vede come tutti i misteri della vita di Cristo e i misteri che Cristo ci ha rivelato, incidono sul modo concreto di vivere. Invece la comunione di cui parliamo consiste proprio nel vivere la logica di questi misteri; è portare questi misteri fin nella concretezza della giornata. Possiamo concludere con tre corollari.

• L’orizzonte universale della Chiesa è l’orizzonte normale della vita del cristiano. La passione missionaria che mi anima, quindi, è un test della verità e della vitalità di una comunità cristiana. La missione ad gentes di una Chiesa è un test decisivo. Se una Chiesa è missionaria nascono vocazioni missionarie – quindi religiosi, religiose, sacerdoti, laici –, sia definitive che temporanee. La missione ad gentes è un test di questa normale apertura missionaria.

• Dal punto di vista del cammino concreto di ciascuno di noi è importante riconoscere un dato di esperienza: quanto più si afferma e si ama la totalità tanto più si è fedeli al particolare, ma liberi dall’attaccamento gretto e soffocante ad esso. Nel respiro della totalità della missione il particolare viene vissuto con una fedeltà, con una creatività mille volte maggiore. Il gesto oggettivamente più potente per educare a questa feconda dialogicità tra universale e particolare è la liturgia: a Nuova Delhi, piuttosto che a Bangkok, piuttosto che a Santiago del Cile, piuttosto che a New York, piuttosto che a Madrid, piuttosto che a Ca’ Cottoni… si celebra la stessa Eucaristia. Così l’Eucaristia domenicale ci educa a questa apertura missionaria.

• Infine, bisogna sottolineare l’importanza educativa, per le nostre comunità, di gesti che aiutino a non sentire nulla di sé – tempo, soldi, risorse, beni materiali e spirituali – come proprio, ma tutto come destinato al mondo intero. Noi abbiamo tutto in uso. Il concetto cristiano di povertà è la coscienza che ben esprime san Paolo: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1Cor 4, 7). Tutto abbiamo in uso. È molto educativo porre dei gesti che aiutino questa consapevolezza – i gruppi missionari, le adozioni a distanza, la condivisione attiva dei problemi della pace, della giustizia, della fame, della libertà… – a partire dal pagare di persona.