In occasione della festa del Redentore del 17 Luglio 2005 il discorso del Patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, propone una nuova visione di laicità che parte dalla speranza del Cristo Redentore, di cui Venezia e tutto il nordest possono essere parte attiva.
1. «Io stesso… ne avrò cura» (Ez 34, 11)
«Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura… le radunerò… le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare… là riposeranno… Andrò in cerca della pecora perduta… fascerò quella ferita… le pascerò con giustizia» (Ez 34, 11-16). Le parole del profeta Ezechiele sono risuonate, ancora una volta, in questo fulgido tempio palladiano, facendo riecheggiare nei nostri cuori di uomini e donne, affamati di compimento, la dolcezza di una promessa. Fedeli alla memoria dei nostri padri, in questa splendida serata lagunare, abbiamo attraversato il ponte guidati dalla promessa fattaci dal Redentore. Con potente capacità evocativa Ezechiele scolpisce nella nostra mente il volto di questa formidabile promessa: cercherò, riposeranno, le pascerò… Il susseguirsi dei verbi al futuro fa crescere con ritmo progressivo la certezza del suo compimento. La nostra vita, personale e comunitaria, non è in balìa dell’ignoto, ma possiede un futuro certo perché poggia sulla misericordia di un Padre. Egli con grande amorevolezza ci ha permesso anche quest’anno di convenire, insieme alle nostre autorità civili e militari, che di tutto cuore ringrazio per la loro presenza, per celebrare l’Eucaristia e benedire la nostra amata città e le terre del Nord Est.
2. «La speranza poi non delude» (Rm 5, 5)
Qual è il nome della serena fiducia con cui guardiamo il nostro futuro? Essa non è certo un ottimismo ingenuo né una giovanilistica spensieratezza. È il nome che Paolo, nella Seconda Lettura, ripropone con forza: si chiama speranza e speranza che non delude (Rm 5, 5).
La speranza è il dono che lo Spirito del Signore riversa nei nostri cuori, che ci consente di guardare al futuro come ad un positivo perché è custodito, in ogni caso, dalla Sua misericordia. Questa speranza vogliamo comunicare con la Visita pastorale. Testimoni di Cristo Risorto, caparra della nostra personale risurrezione, siamo convenuti a San Marco il 10 aprile scorso in occasione dell’Assemblea Ecclesiale per dare consapevole espressione alla voglia di vita che abita i nostri cuori. Le cinquecentocinquanta testimonianze provenienti da parrocchie, gruppi e movimenti e gli articolati momenti dell’Assemblea stessa hanno ormai messo in moto la Visita Pastorale come evento diocesano di reciproca edificazione. Un incontro tra il Patriarca e i suoi più immediati collaboratori – il Vicario Generale, i Vicari Episcopali, i responsabili degli uffici – e tutti i membri del popolo di Dio. Che essi siano seriamente impegnati nella vita di fede o debbano vivificare il loro battesimo, la Visita Pastorale si rivolge a tutti e il suo scopo è quello di rigenerare le nostre comunità attraverso l’approfondimento del legame di comunione con Gesù Cristo a favore di tutti i nostri fratelli uomini.
3. Alle fonti della speranza
Qual è l’origine di questa indomabile positività che caratterizza la vita di un uomo capace di speranza? Il Santo Vangelo che abbiamo ascoltato ne è prezioso documento, col mostrarci il realismo con cui la misericordia di Dio opera nella storia, nella nostra storia personale e in quella mondiale: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17). La speranza nasce dalla consapevolezza che la promessa fatta da Dio per bocca del profeta Ezechiele («Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» Ez 34, 11) si è realizzata compiutamente in Gesù Cristo.
L’amore di Cristo si è preso veramente a cuore ognuno di noi, mostrando nei fatti la stoffa della realtà: l’amore con cui la tenacia di Dio Padre guida la storia in pieno rispetto della nostra libertà, per quanto fragile e ferita. Paolo, nel brano della Lettera ai Romani appena ascoltato, ci dice in che cosa consista questo amore: non lo definisce, lo narra! «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8). Ed insiste: «quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio» (Rm 5, 10). Su questo concreto, singolare e insuperabile evento storico – la vita di Gesù Figlio di Dio fattosi uomo che culmina con la Sua morte e salvifica risurrezione – è fondata la nostra speranza. Sulla vicenda di una Persona viva e concreta – Gesù di Nazaret che per noi si consegna alla morte – poggia la nostra redenzione. L’amore di Dio non è una gnostica cifra interpretativa dell’umana avventura: l’amore di Dio si identifica con la vicenda storica vissuta da Gesù Cristo in nostro favore, la cui evidenza si propone anche oggi all’accoglienza “critica” del credente. Per questo parliamo, a ragione veduta, di speranza!
4. Il rischio della speranza
Proprio perché godono del dono gioioso ed inestimabile della speranza, i cristiani si riconoscono fratelli di tutti gli uomini di buona volontà e prendono su di sé il compito dell’edificazione personale e sociale. Lo fanno anzitutto nella Chiesa. Ma, con le dovute distinzioni, si sforzano anche di contribuire alla vita buona della società civile fin nella sua dimensione istituzionale.
Con il drammatico acume che caratterizza tutta la sua produzione letteraria, Georges Bernanos osserva: «La speranza è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi» .
Mossi dall’indicibile letizia che la speranza dona loro, i cristiani se ne assumono anche tutto il rischio. E così, pieni di speranza, vogliamo domandarci questa sera: qual è il rischio che oggi la festa del Redentore ci chiede di correre? Stante il noto risvolto civile di questa festa, mi assumo il rischio che penso essere di una qualche utilità di riflettere su un aspetto decisivo del nostro civile convivere in società.
5. Una contrapposizione vecchia e insoddisfacente
Le recenti vicende referendarie nel nostro paese hanno dato nuovo vigore al dibattito sulla cosiddetta “laicità”.
Senza voler entrare, in questa sede, in valutazioni relative alle varie posizioni che non cessano, più o meno costruttivamente, di confrontarsi non si può evitare un sentimento di amara insoddisfazione. Forse negli ultimi anni sono mancati interpreti della materia, laici e cattolici, così autorevoli da essere riconosciuti da tutte le realtà in campo. In ogni caso è necessario un ripensamento e, soprattutto, una pratica radicalmente rinnovata della laicità in riferimento sia alla società civile, sia allo stato. Ad imporlo, soprattutto ai paesi europei, è la rapida transizione che stiamo vivendo nel passaggio epocale dalla modernità al cosiddetto post-moderno, che ha nella globalizzazione, nella civiltà delle reti, nell’imponenza delle scoperte biotecnologiche e nel processo, spesso tragico, di “meticciato di civiltà” le espressioni più clamorose.
6. Per una rinnovata idea di laicità
I pensatori più avveduti, riconoscono che le società europee attuali si trovano in una situazione di post-secolarizzazione, conseguente al crollo delle utopie che, di fatto, sono state religioni politiche sostitutive. Di recente Habermas ha affermato che «la consapevolezza pubblica di una società post-secolare (…) coinvolge e rende riflessive mentalità, religiose e laiche, asincroniche. Entrambe le parti possono dunque prendere sul serio i reciproci contributi su terreni controversi nell’opinione pubblica (…) se intendono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare» . Su questa affermazione del celebre filosofo tedesco conveniva sostanzialmente l’allora cardinale Ratzinger. Dopo aver constatato che, con la fine di un'”idea assoluta” della storia, l’Occidente deve non solo fare i conti con l’esistenza di una pluralità di grandi aree culturali – Islam, Induismo-buddismo, culture tribali africane e culture latino-americane – ma anche con l’esistenza, all’interno di ognuna di esse, di conflitti talora assai profondi, il Cardinale giungeva alla conclusione che, di fatto, parlare di etica globale è astratto. L’unica strada aperta per la pacifica convivenza in una società post-secolare è piuttosto la «disponibilità ad apprendere e l’autolimitazione da entrambe le parti (religiosa e laica)» .
Sul terreno di queste linee di pensiero mi sembra possa fiorire il necessario rinnovamento della categoria e della pratica della laicità anche nel nostro Paese. Si tratta di un’urgenza resa ancor più improcrastinabile in considerazione dei recenti antiumani attentati terroristici che hanno colpito ancora una volta l’Occidente, perché di tutto l’Occidente si tratta. Senza società e stati europei plurali, ma coesi al loro interno in forza di una sana laicità, è facile che intere fasce di popolazione si convincano che non esista alternativa reale al conflitto di civiltà, finendo in tal modo con lo sperperare la speranza dell’inizio del terzo millennio e regredendo alla tragica logica moderna dello scontro estremo tra ideologie nemiche.
In questa sede vorrei offrire qualche spunto, benché, per forza di cose, non adeguatamente argomentato.
7. L’insuperabile relazione di identità e differenza: la radice antropologica del potere
Alla genesi della società civile e della istituzione statale autenticamente laica sta il delicato problema di come comporre equamente, in ultima analisi in termini di diritti e di doveri fondamentali, le identità e le differenze . Una relazione dinamica, sempre aperta, di queste due dimensioni vitali dell’umana convivenza è esigita dallo statuto stesso dell'”individuo”, che non esiste mai come atomo separato, autosufficiente e quindi contrapposto (secondo la tipica visione individualistica moderna), ma che esiste sempre anche come “alterità differente”. È sempre in relazione: ciascuno è insieme “se stesso” (identità) e “altro” per “qualcun altro” (differenza). In altri termini, non esiste individualità che sia solo se stessa e che non sia in relazione con altri individui. Per questo, se ciascuno si pone come soggetto di dignità e di diritti originari ed inalienabili deve riconoscere l’altro da sé come soggetto differente e dotato di pari dignità e diritti. Questo dinamismo proprio dell’esperienza elementare di ogni uomo mostra la radice antropologica della societas: l’individuo non è mai pensabile se non in relazione sociale con altri soggetti di pari dignità.
Se dunque il nesso di identità e differenza è insuperabile ed è produttore di società, il modo concreto con cui gli uomini vivono questo loro essere in essenziale relazione è (quello che una certa tradizione filosofica chiama) il riconoscimento. Gli uomini chiedono di essere identificati ed accettati nella loro irriducibile dignità di soggetti, di essere riconosciuti per il volto umano che li contraddistingue ed insieme li mette in relazione tra loro: in questo senso, nel dire io affermo il tu e gli chiedo, di fatto, di riconoscermi come io.
Qui sta, a ben vedere, la genesi primaria del potere su cui converrebbe tornare a pensare (riprendendo anche le riflessioni di Foucault). In ultima analisi che cos’è il potere, se non il potere di riconoscimento dall’uno dato all’altro, sulla base del reciproco bisogno?
Dai legami primari fino al necessario potere statuale, con l’inevitabile forza coercitiva di cui è dotato, in diverso grado e con differenti modalità il potere vive di questa logica di riconoscimento. Ognuno di noi, di fatto, esercita un potere ed è oggetto di potere. Si tratta di un vincolo tra soggetti, che non può essere in alcun modo aggirato, perché costitutivo del dinamismo vitale in cui è inserita la persona umana. Una madre che sorride al figlio, lo “riconosce”, esercita un potere su di lui. È un potere di cui il figlio ha necessità e che a sua volta egli esercita (da subito) sui suoi genitori.
Non solo, ma nella misura in cui si è nella condizione di esercitare un potere di riconoscimento, si esercita di fatto anche un potere di autorità. Così, l”autorità, oggi troppo spesso sentita solo come un giogo esteriore, è invece esigita come vincolo interno al dinamismo della stessa libertà che non perde per questo la sua sovranità.
Il costitutivo essere in relazione di riconoscimento del soggetto individuale con altri, che mantiene in dialogica tensione unità e differenza, dà vita alla società civile. La società non è dunque una somma di individui, perché la relazione è costitutiva della persona. Lo si vede dal fatto che nella società si esprimono i preziosi corpi intermedi primari come la famiglia e le comunità di prossimità, tra le quali spiccano quelle suscitate dall’appartenenza religiosa cui si possono equiparare oggi anche forme di solidarietà primaria concretamente agnostiche. A queste si mescolano poi i corpi intermedi, per così dire, secondari o derivati, ma anch’essi decisivi, quali le forme svariate di associazione fondate sul gratuito o su scopi (interessi) condivisi quali i partiti, i sindacati, le intraprese economiche e finanziarie. Da questo variegato insieme, amalgamato dalla lingua come radice di cultura e storia, nasce un popolo ed una nazione. Categorie ancora vitali, anche se bisognose di un coraggioso ripensamento a partire dalla violenta transizione di cui si è parlato. Società civile significa quindi essenzialmente dialogo, reciproca narrazione della propria soggettività ad un tempo personale e sociale, a partire da ciò che inevitabilmente si ha in comune come beni di carattere materiale e spirituale. Lo vediamo tutti i giorni nelle assemblee di condominio piuttosto che in quelle di quartiere, discorrendo di manutenzione degli stabili o dei bisogni degli anziani.
8. Laicità dello Stato
La vita della società civile, quindi, richiede un continuo e progressivo reciproco riconoscimento delle differenze da parte delle identità sempre in relazione. Relazione, riconoscimento e potere sono le dimensioni strutturali e costitutive della società civile, che come tali non si originano e non dipendono da nessun potere superiore. Perciò esse esigono che la società civile possa vivere e svolgere la libera dialettica dei suoi rapporti tra identità differenti, sia individuali, sia associate, che hanno appartenenze, tradizioni culturali, interessi materiali e ideali diversi; oggi, sempre più, anche etnie e religioni diverse.
D’altra parte, la relazione di riconoscimento è anche un potere ambiguo, che si presta sia alla promozione, sia alla manipolazione, sia alla custodia, sia alla cattura dell’altro. A questo livello perciò la società civile ha sempre bisogno di darsi un’istanza superiore, mai sostitutiva, ma regolativa (difensiva e promozionale) della sua vita relazionale, del suo fisiologico pluralismo, della sua dialettica storica. Tale istanza regolativa è modernamente lo stato.
In quanto istanza superiore lo stato deve essere – secondo la terminologia ormai d’uso – “laico”. Ma è chiaro, a questo punto, che cosa debba significare laicità: la non identificazione con nessuna delle parti in causa, cioè dei loro interessi e delle loro identità culturali, siano esse religiose o laiche. Tuttavia in forza della sua stessa funzione, stato laico non è sinonimo di stato “indifferente” alle identità ed alle loro culture. Soprattutto non può essere e, di fatto, non è mai indifferente ai valori della tradizione nazionale prevalente cui esso fa storicamente riferimento, come dimostrano le diverse “storie costituzionali” degli stati.
In ogni caso uno stato democratico non può essere indifferente ai grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica, quali quelli delle libertà civili e politiche, della convivenza dialogica, del rispetto delle procedure per il consenso, ecc. A questi ed ad altri valori e beni comuni fa riferimento lo stato di diritto e lo stesso potere pubblico statale. Dunque lo stato democratico è laico per la sua non-identificazione con qualsivoglia “visione del mondo”, ma non è affatto “neutrale” nei confronti dei suoi valori fondanti.
Laicità dello stato in tutte le sue istituzioni (fino al consiglio di quartiere) è dunque esercizio costitutivo e reciproco di promozione e tutela (tuitio) del diritto e di positiva valorizzazione di tutti i soggetti in campo, mediante il coinvolgimento nella relazione di riconoscimento. Solo il riconoscimento rigenera continuamente le identità ponendole al riparo da ogni integralismo, mentre impedisce che le differenze portino ad esclusioni conflittuali.
Una tale laicità domanda poi agli organi statuali l’esercizio equo dei poteri di garanzia tesi a perseguire instancabilmente il “com-promesso nobile”, cuore dell’azione politica, che ha nel popolo il suo arbitro insindacabile e mai surrogabile da alcuna auctoritas che si pretenda interprete avanguardistica dei bisogni della gente.
9. Un’ipotesi di lavoro
A questo punto la società post-secolare e post-moderna deve porsi con coraggio una seconda questione centrale. Non la introdurrò a partire dalla troppo discussa categoria di verità, perché voglio accogliere, sia pur come ipotesi di lavoro, l’istanza, oggi cara a molti, che «la costituzione dello stato liberale sappia provvedere al proprio bisogno di legittimazione in modo autosufficiente» senza dover far ricorso a premesse unificanti di tipo metafisico, religioso o etico.
In questa ipotesi che cosa diventa un esercizio concreto della laicità, rispettoso della relazione costitutiva ed insuperabile di identità-differenza nella quotidiana convivenza di persone e soggettività religiose e agnostiche di vario genere e grado? Quali prerogative debbono essere conseguentemente assegnate alle istituzioni costituzionalmente normate?
Un quadro di adeguata laicità deve consentire a me credente di operare nella convinzione che Dio regge ultimamente la storia, con decisive implicazioni sul vivere civile, e deve riconoscere pari diritti e doveri a chi nega questa ipotesi con tutte le fibre del suo essere. Mi sembra allora che, in una società pluralistica, una piena laicità richieda le migliori condizioni possibili per promuovere soggetti personali e sociali tesi al dialogo e al reciproco riconoscimento, in vista della più ampia ed armonica intesa richiesta dal bisogno primario della condivisione dei beni comuni (materiali e spirituali).
Ma come si potrà perseguire tale complessa armonia se non c’è accordo di concezione soprattutto su quali siano i beni spirituali? Sarà anzitutto necessario che le istituzioni promuovano il valore pratico dello stesso essere in società, che non richiede come tale nessun accordo preventivo sulla fondazione ultima di tale valore. All’interno di questo spazio garantito a tutti potrà vivere il dinamismo del riconoscimento dialogico tra tutti i soggetti in campo sui singoli contenuti di valore. Questo avverrà attraverso un confronto sempre aperto tra ermeneutiche diverse. Per chi reputa decisivo riconoscere Gesù Cristo come la verità cui riferire i criteri per vivere affetti e lavoro, tale confronto significherà che la sua visione di questi ed altri fattori del vivere civile dovrà essere sempre e solo proposta alla libertà dell’altro, nel rigoroso rispetto dei diritti di tutti e nella convinzione che egli, nel dialogo, potrà imparare meglio che cosa sia bene comune. E significherà anche attendersi uguale rispetto e interesse dialogico da parte degli altri soggetti sociali.
Del resto Cristo stesso, verità assoluta ma vivente e personale, non ha temuto di proporsi alla libertà dell’uomo fino a lasciarsi crocifiggere. Afferma sant’Ambrogio: «Dilata il tuo cuore. Va incontro al sole dell’eterna luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9). Per certo quella luce vera splende su tutti (…) Allora se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole» . Per il cristiano la verità chiede di essere testimoniata. Se io testimonio la verità, tutta la verità, non ledo il diritto di nessuno. Al contrario lo promuovo. Ad esempio, se io giudico sana una società basata su famiglie concepite come unioni stabili tra uomo e donna aperte alla vita, proporrò nel pubblico agone questa visione della società, accettando lealmente il confronto con altre visioni, nel rispetto dei diritti di tutti e utilizzando tutte le procedure costituzionalmente previste. Se mi sottraessi ad una doverosa e propositiva testimonianza di questo genere, non darei un contributo dialogico alla società civile.
10. Logica democratica e superamento del vietato vietare
A quali condizioni questo atteggiamento rispetta fino in fondo il diritto di chi, per limitarsi alla famiglia, pensa invece che questa visione sia totalmente superata? Una tendenza attuale è di interpretare la laicità dello stato come in contraddizione con una legislazione familiare che contenga la tutela di valori propri di una tradizione particolare, come quella dell’umanesimo cattolico. Se lo stato è laico – si ragiona – anche la sua legislazione deve essere laica, cioè assiologicamente neutrale. Di qui il criterio politico del vietato vietare: “il cattolico non rispetta la laicità dello stato, se propone come istituto giuridico un modello che risponda alla sua ermeneutica di famiglia perché ne esclude un’altra e confessionalizza lo stato”.
A nostro avviso, questo modo di argomentare finisce per essere acritico sotto un duplice profilo. Anzitutto suppone che una legislazione ispirata a criteri diversi dall’umanesimo personalista di ispirazione religiosa sia di per sé neutrale. Mentre, chiaramente, tale non è, ma semplicemente si ispira a valori diversi. In secondo luogo, e più ampiamente, si interpreta in modo errato la laicità dello stato, perché si confonde (contro la distinzione che abbiamo già fatto) la “non confessionalità” dello stato con la sua “neutralità” nei confronti dei soggetti civili e della loro identità culturale. Invece queste identità diventano statualmente rilevanti in virtù della loro espressione democratica. Lo stato protegge il libero dibattito delle idee e delle proposte legislative, ma non è indifferente al risultato del confronto democratico tra le parti. Al contrario, è tenuto ad assumerlo. In altri termini, a discernere è il popolo, con la sua storia e la sua sensibilità, direttamente o attraverso i suoi legittimi rappresentanti, nel rispetto dei diritti ma anche dei doveri sanciti dalla costituzione.
Questo deve mettere in moto la virtuosa ricerca del modo migliore (compromesso nobile) di salvare il diritto di ogni minoranza, ma con il realismo di chi sa che non si dà convivenza civile senza sacrifici e che, in ogni caso, il prevalere di un certo tipo di legislazione, essendo le materie di interesse generale, limita gli interessi materiali e/o ideali di una parte. In questa logica come è adeguato esigere dai musulmani, che sono minoranza in Italia, il rispetto della costituzione, anche là dove potesse chiedere loro un ‘sacrificio’ dal punto di vista della loro ermeneutica del bene comune (ad esempio, a proposito della poligamia), così, in base a questo sano concetto di laicità, non mi pare contraddittorio chiedere qualche sacrificio ad una minoranza che pretenda un riconoscimento giuridico-legislativo rigettato dalla maggioranza, sempre fatto salvo il riconoscimento e l’esercizio dei diritti fondamentali personali.
11. Venezia e il rinnovamento della laicità
Se in questa splendida festa, ad un tempo carica di storia e di slancio verso il futuro, poniamo ora mente a Venezia e alla sua peculiare vocazione di città dell’umanità, sorge spontaneo un invito.
Venezia, in se stessa e nel suo essere simbolo universale del dinamismo innovativo di tutto il Nord-Est, diventi sempre più un luogo privilegiato e paradigmatico in cui praticare ed approfondire i risvolti di questa rinnovata fisionomia di laicità in grado di farsi carico della natura post-secolare e post-moderna del mondo attuale. La singolare attrattiva della città lagunare che la rende quotidianamente crocevia di etnie, popoli, religioni e culture, non la urge ad assumere una responsabilità creativa nell’interpretare la rinnovata fase della laicità sociale e politica così necessaria almeno in Occidente? Poche città come la nostra, infatti, concentrano in sé i fattori portanti dell’esperienza umana elementare e sono in grado di esprimerla nella sua universale fisionomia postmoderna. Mi riferisco tra l’altro alla sua straordinaria bellezza naturale, all’arte e alla cultura del passato e dell’oggi.
Questo compito è attuale anche perché emerge come un dovere nei confronti della secolare storia di Venezia. Siamo infatti debitori della presenza secolare in laguna di seguaci di altre religioni: come non ricordare il peso oggettivo della comunità ebraica nella società veneziana o i rapporti commerciali e, non solo, con i popoli del vicino e dell’estremo Oriente? I confini della nostra società, in forza di una visione universalistica e cosmopolita dell’attività marinara e mercantile, hanno raggiunto, lungo la storia, gli estremi del mondo conosciuto: come non, ad esempio, intravedere il filo rosso che unisce la vicenda di Marco Polo con le attuali sfide economiche? Infine la storia della Serenissima è attraversata dall’acuta percezione della propria autonomia anche rispetto allo Stato pontificio, autonomia difesa senza per questo mettere in dubbio la ferma adesione della Repubblica alla fede cattolica, anche nei momenti di maggior difficoltà politica o di emergenza sociale come l’origine dell’attuale Festa può ben documentare. Questi fattori segnano la nostra storia ed il nostro presente ed urgono la nostra città e la nostra regione a diventare protagonista di una rinnovata laicità a beneficio dell’intero paese e dell’Europa.
12. Il contributo della comunità ecclesiale
A questo compito siamo chiamati tutti. Sicuramente lo sono le legittime autorità che esprimono la sovranità del popolo. Ma anche e innanzitutto i diversi corpi intermedi educativi, culturali, economici, politici… di cui vive la società civile.
La Chiesa che è in Venezia intende interagire rispettosamente con tutti per assolvere questo compito comune.
Continuerà a farlo innanzitutto mediante la presenza capillare delle comunità parrocchiali e delle aggregazioni di fedeli operanti in tutti gli ambienti dell’umana esistenza. Nella quotidiana condivisione della vita i cristiani imparano ad amare e lavorare in modo rinnovato, fanno personale esperienza del gusto di vita nuova che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e, in questo modo, si sforzano di contribuire all’edificazione personale e sociale, aperti all’incontro e al riconoscimento degli altri.
Ne è prova la fitta rete di opere caritative, assistenziali e ospedaliere promosse dal Patriarcato. Si tratta di opere che, oltre a rispondere a precisi bisogni, costituiscono un’occasione privilegiata di educazione al gratuito, motore profondo di ogni “riconoscimento” civile. Mi sembra che si possa dire, senza timore di smentita, che le opere di carità del Patriarcato sono un preclaro esempio di cosa significhi la collaborazione dei cristiani all’edificazione di una sana società civile.
Forse qualche pregiudizio impedisce di cogliere con chiarezza l’apporto che, nella stessa direzione, la Chiesa offre attraverso le proprie opere educative. Il fatto che siano ultimamente mosse dall’intento di educare al «pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16), non significa che non siano laiche. Esse infatti operano rispettando statuto e metodi delle scienze di cui si occupano e considerano la fede come vertice critico della ragione. Sono pertanto aperte a tutti e si confrontano a tutto raggio sul comune terreno del libero incontro delle ermeneutiche di cui abbiamo parlato. In quest’ottica lo Studium Generale Marcianum, il polo pedagogico-accademico del Patriarcato, vuol essere uno strumento a disposizione di tutti i fedeli del Patriarcato e di tutti gli uomini di buona volontà.
L’erezione, avvenuta lo scorso 20 giugno, della Facoltà Teologica del Triveneto da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica, frutto di un lavoro ventennale, dota la nostra regione ecclesiastica, che comprende Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige, di un’istituzione accademica concepita a rete che offre la possibilità di studi universitari teologici in tutto il nostro territorio. La novità della proposta è legata alla convinzione che la teologia può costituire una risorsa di primo ordine per affrontare, anche professionalmente, ambiti fondamentali della vita sociale. Si pensi, ad esempio, all’ambito dei beni culturali, della bioetica o della cosiddetta business ethics.
Infine mi preme ricordare che la dimensione missionaria della nostra Chiesa – si pensi ai nostri missionari sparsi per il mondo ed in particolare al nostro impegno con la Chiesa di Nyahururu in Kenya – risponde ad una precisa vocazione internazionale della realtà veneziana. Questa poi è stata, di recente, rafforzata dalla nascita del Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis con l’omonima rivista e la nuova sede del Convitto Internazionale Giovanni XXIII riservato a giovani sacerdoti provenienti da vari continenti ed ospitati a Venezia per gli studi specialistici.
13. «Dio ha infatti tanto amato il mondo…» (Gv 3, 16)
Un simile lavoro quotidiano, capace di dar vita ad una virtuosa, creativa e critica convivenza tra credenti e non credenti alla ricerca di una rinnovata nuova laicità, è veramente possibile? A crederlo tale noi cristiani siamo spinti non tanto dalla nostra capacità, ma dalla «speranza che non delude» (Rm 5, 5). Noi per primi facciamo l’esperienza del gratuito potere di riconoscimento che è al cuore della festa di oggi. Infatti, «mentre noi eravamo ancora peccatori» (Rm 5, 6) Dio ha mostrato il Suo amore per noi. Quando eravamo «ancora nemici» (Rm 5, 10) si è preso cura di noi ed ha inviato il Suo Figlio per la nostra salvezza.
Il Padre ha voluto così mostrare il vertice del riconoscimento, l’autentico volto del Suo potere di cui, senza alcuna pretesa, noi cristiani vorremmo testimoniare i benefici frutti anche per la costruzione della vita sociale e politica. Questo potere ha il volto tenero e forte della misericordia del Padre. Non a caso il nome di Gesù è Redentore. E oggi, commossi, noi veneziani e veneti siamo qui a celebrarlo solennemente.
La misericordia, lungi dall’essere un’astratta utopia, è la forma piena della gratuità che dà sapore ad ogni diritto e giustizia. Il Padre l’ha donata al mondo in Gesù Cristo e lo Spirito la riversa ogni giorno nei nostri cuori. La misericordia è il motore concreto della passione costruttiva della comunità cristiana e del contributo che, con semplicità forse ingenua ma tenace, vogliamo offrire a tutti i nostri fratelli uomini. Ci aiuti in questo la Mater misericordiae. Amen.