Continua la collaborazione del cardinale Angelo Scola, con il «Messaggero di sant’Antonio». Ogni mese si rivolge ai lettori della rivista parlando di vita buona, riallacciandosi all’omonimo libro-intervista con il giornalista Aldo Cazzullo.
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«La conversazione di oggi, cari lettori, ha il sapore di un invito o, se volete, di un aperitivo in attesa che possiate gustare personalmente tutte le portate di quel grande convito che sarà il VII Incontro mondiale delle Famiglie».
Nel villaggio totale che oggi è il mondo le distanze, grazie ai prodigi di internet e alla globalizzazione economica, sono azzerate. Inoltre, sulla spinta del miraggio di un benessere spesso più sognato che reale, non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli centri di provincia si diffonde in misura esponenziale il processo del meticciato di civiltà, creando scenari inediti per la vita di ciascuno di noi. E molti davanti a essi indietreggiano scettici e impauriti: «Dove andremo a finire?». Da parte mia io continuo a scommettere sul fatto che questo processo possa costituire un’occasione di incontro più che di scontro. E la fede mi dà due buone ragioni, semplici ma inaffondabili, per sostenere questa convinzione.
Primo. I fili che muovono la storia non sono nelle mani di un caso maligno o capriccioso, ma in quelle sicure di un Padre (i teologi lo chiamano «disegno di Dio»). Per questo possiamo guardare anche alle inedite trasformazioni in atto con attesa/speranza e non con ostilità.
Secondo. Tutti gli uomini sono figli dello stesso Padre che ha impresso in ognuno, a lettere di fuoco, i tratti del suo Volto trinitario. Perciò se, da una parte, ogni diversità non è ostacolo ma risorsa, dall’altra c’è un nucleo incandescente e irriducibile comune a ogni uomo. Non sono ingenuo. So bene che in ogni epoca della storia ogni uomo e tutta la famiglia umana devono fare i conti con il Maligno e con il male. Ma so anche che la vittoria è nelle mani del Crocifisso risorto.
«Eppure – scriveva il Beato Giovanni Paolo II – esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune ad ogni uomo». Affetti, lavoro e riposo ne sono gli elementi costitutivi. Si può anche dire: «La famiglia, il lavoro e la festa», cioè il titolo del VII Incontro mondiale delle Famiglie che si svolgerà dal 30 maggio al 3 giugno a Milano, su questi temi, e avrà un ospite d’onore d’eccezione, papa Benedetto XVI. Ma facciamo una rapida carrellata sulle tre parole messe a tema dell’Incontro. La famiglia, lo abbiamo già visto, è il grembo in cui l’io viene generato, custodito e fatto crescere. Essa non si definisce soltanto in riferimento ai soggetti che la compongono (lo sposo, la sposa e i loro figli), ma mette contemporaneamente in campo il legame di appartenenza che si instaura tra di loro. È la specifica forma di «società primaria» che tiene insieme e di fatto permette un armonico sviluppo delle differenze costitutive dell’umano, quella sessuale tra l’uomo e la donna e quella tra le generazioni (figli, padri, nonni). Per questo è la prima e insostituibile «scuola di comunione», in cui ciascuno può imparare l’amore oggettivo ed effettivo.
Il lavoro, altra dimensione fondamentale dell’esperienza umana, è il luogo della costruzione, l’ambito in cui ognuno mette a frutto i talenti ricevuti e, nella misura delle sue capacità e possibilità, collabora attraverso l’opera delle proprie mani all’azione creatrice del Padre e a quella redentrice di Gesù. Ma se il lavoro è vissuto in maniera separata dagli affetti, può anche assumere una fisionomia parossistica e diventare elemento di distruzione invece che di edificazione dell’io e delle relazioni.
Il riposo è il fattore di equilibrio tra gli affetti e il lavoro, spazio di rigenerazione e di unità per ogni componente della famiglia e della società. Il riposo è veramente tale, quando diventa festa: l’esperienza di scoprire che c’è risposta al nostro desiderio più profondo, amare ed essere amati per sempre. «Facciamo festa – dice il padre della parabola – perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,21-22). Per questo la sapienza della Chiesa chiede la fedeltà alla messa domenicale. «Sine dominico non possumus» (non possiamo vivere senza l’Eucaristia della domenica) dicevano i fratelli cristiani dei primi secoli, arrivando ad affermarlo con il sacrificio della vita.