In occasione della solennità dell’Assunzione della B.V. Maria proponiamo un capitolo del libro Maria, la donna. I misteri della Sua vita del cardinale Angelo Scola (ed. Cantagalli, 2009).


Maria e il corpo

Assunzione al cielo

 

Partecipe del destino del Figlio e caparra del nostro

In lei Dio ha «fatto risplendere un segno di consolazione e di sicura speranza». Così recita il  Prefazio della Messa dell’Assunta. C’è qualcuno che, anche oggi, non senta la dolcezza di questa promessa? Perché miliardi di uomini di tutti i popoli guardano a lei come a un’inesauribile sorgente di speranza (“sei di speranza fontana vivace”, Paradiso XXXIII, 12), sicuri di partecipare al suo sguardo positivo su tutto? Perché «Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Egli vive ora, col Suo vero corpo, nel Mistero della Trinità, e di questa pienezza di vita ha fatto partecipe Sua Madre.

Nel reciproco affidamento tra il Figlio e la Madre – come possiamo intravedere in ogni autentica relazione d’amore – si verifica un singolare scambio di doni. Ce lo ricorda genialmente Germano di Costantinopoli in una celebre omelia sull’Assunzione: “Affidami il tuo corpo; anch`io diedi in custodia la mia divinità al tuo utero. … La morte non avrà nulla da gloriarsi su di te, poiché tu hai portato nel tuo grembo la Vita. Sei stata il mio recipiente; nessuna cosa lo spezzerà, nessuna caligine ti porterà nel buio”[1].

Maria ci precede con il suo vero corpo nella gloria del Paradiso, il “regno celesto, che compie onne festo che ’l core ha bramato” – per dirlo con il potente verso di una Lauda di Jacopone [2] -, caparra per noi del grande mistero della risurrezione della carne. Infatti, come insegna il Catechismo, “l’Assunzione della Santa Vergine non rappresenta solo una singolare partecipazione alla resurrezione del Suo Figlio, ma un’anticipazione della resurrezione degli altri cristiani”[3]. La nozione di risurrezione della carne è ben più ampia di quella di immortalità dell’anima: nulla dell’uomo va perduto, ma tutto di lui è salvato per sempre. È adombrata qui anche un’altra preziosa nozione della saggezza cristiana, oggi trascurata se non addirittura dimenticata, quella di merito. Il merito è il sigillo dell’Eterno che Cristo imprime ad ogni azione dell’uomo – anche alle più umili e nascoste – se compiuta in rapporto consapevole e voluto con Lui, che ha donato la Sua vita per noi. Immergendo la nostra piccola offerta nell’abisso della Sua, noi partecipiamo agli infiniti meriti che dalla Croce, attraverso il sacrificio eucaristico, il Signore continua ad effondere su di noi (cfr.Col 1,24).

 

Ogni relazione passa dal corpo

Il corpo – ebbe a ribadire in più occasioni Giovanni Paolo II[4] – è il sacramento di tutta la persona. Dal corpo passa, inesorabilmente, ogni relazione con gli uomini e con le cose, cioè con ogni aspetto del reale. Come è impossibile una relazione umana senza il corpo, così è impossibile un atto di amore, anche quello più intimo e segreto, senza il corpo. È questa, infatti, la strada con cui l’io lentamente viene educato ad essere per l’altro, a quella pienezza di libertà che tutti, almeno nell’atto supremo della nostra morte, impareremo.

Così è avvenuto, come per ogni figlio d’uomo, anche per Gesù anzitutto nella relazione con Sua Madre. Il corpo di Maria accoglie il corpo di Cristo, prima amorevolmente accompagnandolo nel compiersi maturo della sua missione, poi ricevendone il dulce pondus dal legno della Croce. Infine, abbandonandosi alle forti braccia del Risorto, il corpo della Madre si lascia ricevere dal Corpo glorioso del Figlio nella gloria. Lo narra con intensità ineguagliabile un altro antico Padre della Chiesa: “Il bambino che ora porti tra le braccia, lo vedrai fra non molto con le mani inchiodate, perché ama la sua stirpe. Colui che tu nutristi, altri l’abbevereranno di fiele; colui che stringi fra le braccia altri lo copriranno di sputi; colui che tu chiami vita, dovrai tu vederlo appeso alla croce, di lui piangerai la morte . Ma tu mi stringerai in un abbraccio allorché sarò risuscitato, o Piena di grazia!”[5]

Guardando a Maria, segno di consolazione e di sicura speranza, ogni concepimento ed ogni nascita diventano un dono. Ogni madre è salutata con le parole a lei rivolte dalla cugina Elisabetta: «Benedetta tu … e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42). I sacri vincoli familiari – tra lo sposo e la sposa, tra i genitori e i figli -, illuminati dall’albore della resurrezione, fioriscono nel bell’amore. Con l’assunzione in cielo della Vergine anche la morte, ad imitazione di quella del Suo Figlio benedetto, diventa l’atto supremo di abbandono tra le braccia del Padre. E tutte le sofferenze, i dolori, i mali – persino il male del nostro volontario peccato, quando ne domandiamo perdono – non riescono a strapparci questa consolante speranza. Con Lei anzi diventano misteriosa sorgente di fecondità. Per Lei il corpo riceve – ben oltre ogni ossessione salutistica e giovanilistica, ultimamente frustranti perché inesorabilmente illusorie – la sua autentica glorificazione.

 

La “strana” necessità del sacrificio

Avendo avuto la fortuna di celebrare più di un’azione eucaristica nella millenaria Basilica di Maria Assunta a Torcello non ho potuto evitare il contraccolpo della potente scena del Giudizio universale rappresentata nel mosaico del retro-facciata proprio di fronte all’altare. Gesù, vittorioso sul male e sulla morte, calpesta il diavolo e le porte spezzate degli inferi. Con la sinistra brandisce la croce, strumento di vittoria, e con la destra afferra Adamo, trascinandolo fuori dal regno dei morti.

È la liberazione definitiva da ogni male, fino alla morte, l’«ultimo nemico che sarà annientato» (1Cor 15,26), come scrive san Paolo ai cristiani di Corinto. Ma la liberazione della nostra libertà non si attua senza la nostra libertà. Non ci è risparmiata, ogni giorno, la lotta che l’Apocalisse descrive con un’immagine dalle tinte forti e dai tratti vigorosi: una donna incinta grida per le doglie e il travaglio del parto. Un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna che con la coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra si mette davanti alla donna che sta per partorire, per divorare il bambino appena nato (cfr. Ap 12,1-6).

Secondo l’esegesi, nella figura della donna-madre è certo adombrata Maria, madre di Gesù; ma lo è nel senso più profondo ed intero: la Vergine è madre fisica di Gesù, ma anche del suo Corpo mistico, della Chiesa. La maternità della Chiesa che porterà Cristo negli spazi della storia prolunga la maternità di Maria e si salda con essa. Tutto quello che la Chiesa faticosamente avrà dato alla luce favorirà la crescita e il raggiungimento della statura completa di Cristo (cfr. Ef 4,13). Proprio Paolo aveva fatto l’esperienza di quanto sia duro e difficile generare a Cristo i fratelli a lui affidati: «Figli miei – così si era rivolto ai Galati – che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,19).

Ogni autentica esperienza cristiana, che – come abbiamo avuto modo più volte di ribadire –non è altro che l’esperienza umana compiuta, non si realizza senza passare attraverso il dolore, senza la “strana” necessità del sacrificio[6].

 

Per la Sua gloria e la nostra gioia

Cristo, risorgendo dai morti, ci ha liberato dall’ultimo nemico e, per renderci certi della nostra personale resurrezione, ce ne ha dato la caparra con l’assunzione al cielo di Sua Madre. Nella terra dell’umana esistenza è posto il seme della novità. Le opere e i giorni dell’uomo non sono più avvelenati dal terrore della morte, “abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia”.[7] Possiamo, ragionevolmente, “correre il rischio della speranza”, come diceva Bernanos, perché certi del destino buono che attende i Suoi figli e l’intera creazione (cfr. Rm 8,20ss). Possiamo vivere gli affetti nella prospettiva del “per sempre”, costruire una famiglia, mettere al mondo dei figli ed aiutarli a diventare uomini; possiamo  affrontare il lavoro, lo strumento fondamentale di edificazione della nostra civiltà, e spenderci nell’azione sociale o l’azione politica, con tenace, indomabile gratuità.

Il Magnificat, l’inno di esultanza che esplode dal cuore della Vergine Maria, ci parla dell’azione di Dio in favore della sua persona e di tutto il popolo. «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. … Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1,49-50.54). Anche il compito che il mistero dell’Assunzione ci domanda è, nello stesso tempo, per ciascuno di noi e per tutto il nostro popolo. A partire da quanti, a tutti i livelli, hanno responsabilità ecclesiali, politiche e civili. Sul piano personale domanda la pratica della fede, della speranza e della carità oltre che della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza. Virtù da esercitare sempre nel quadro imperituro dei Dieci Comandamenti. E sul piano sociale ci chiede una forte “amicizia civile”. Dobbiamo apprezzare di più il valore concreto del vivere insieme. Proprio perché diversi (e destinati ad esserlo sempre più) dobbiamo perseguire un reciproco riconoscimento tesi a costruire una società civile solidale e rispettosa di tutti, sicura ma aperta.

In questo senso la festa dell’Assunta si fa criterio non solo per il fedele cristiano, ma per qualunque cittadino, in modo particolare per quanti hanno la responsabilità del buon governo. Persino chi non ha fede o chi non la pratica più può imparare dalla Vergine Assunta. Ad una condizione: che, con la Chiesa, riesca in qualche modo a far sua questa antichissima invocazione: “O Vergine commuovi con la tua preghiera Colui che è nato da Dio e purifica dal peccato[8].


[1] Germano di Costantinopoli, Hom. In Assumpt, n° 1824-1826.

[2] Jacopone da Todi, Lauda LXIV, in Le laude, Firenze 1989, p. 218.

[3] Cfr CCC, n°996.

[4] Cfr Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1985.

[5]Cfr. Romano il Melode, dal I e II inno del Natale in Testi Mariani del Primo Millennio, vol. I, ed Città Nuova.

[6] L’espressione è ancora di L. Giussani in L’attrattiva Gesù, Milano 1999, p 29.

[7] G. Leopardi, Canto notturno di una pastore errante dell’Asia, vv 35-36.

[8] È l’iscrizione che circonda la lunetta con il mosaico della Vergine orante, posta sopra la porta d’ingresso della Basilica dell’Assunta (sec. XI) a Torcello.