“Morire tra ragione e fede”: su questo tema si è tenuto il 20 marzo 2009 a Padova, presso il Palazzo del Bo, un dialogo tra il card. Angelo Scola e il filosofo Emanuele Severino, promosso dall’Università di Padova in collaborazione con la Facoltà Teologica del Triveneto.
E’ stato un incontro schietto tra due ex-allievi dello stesso maestro dell’Università Cattolica di Milano, il filosofo Bontadini, che ha posto in evidenza anche la distanza radicale tra il filosofo anticristiano e il cardinale.

emanuele severino

Il Corriere della Sera di sabato 21 marzo ha pubblicato un ampio estratto del primo intervento del card. Scola che qui si ripropone. Un’interessante ripresa del dibattito è stata proposta anche da Avvenire.

Ecco l’estratto del Corriere della Sera

1. Morte e durata
Misurarsi con la morte come dimensione decisiva dell’esperienza umana originaria (sommariamente concepita nella sua dimensione trascendentale – rapporto dell’io col reale fondato sulla capacità dell’umana ragione di ospitarlo – e in quella categoriale – affetti, lavoro e riposo) rappresenta un’insopprimibile condizione dell’uomo di ogni tempo. Anche oggi, epoca in cui l’uomo è tentato di considerarsi “solo come il suo proprio esperimento”, gli strabilianti tentativi della tecnoscienza di allungare la vita occultando la morte non riescono a liberare l’uomo dal rumore di fondo che questa imprime a tutto l’arco della sua esistenza.
Rumore che dice di una condizione strutturale su cui grava un destino di totale spossessamento, che chiede a sua volta di essere interpretato in rapporto all’ “unità dell’esperienza” e alla sua domanda di senso: spossessamento significa con Heidegger impossibilità ultima di tutte le possibilità oppure spazio “vuoto” per una possibilità ulteriore e nuova? Possibilità che nella condizione dello spossessamento non potrebbe essere che “donata”. Si capisce pertanto che il morire, proprio investendo la struttura antropologica originaria, chiami in causa l’intreccio di ragione e di fede. E la ragione adeguatamente intesa non può negare a priori cittadinanza all’esperienza cristiana, considerata nell’elemento di continuità/discontinuità con l’esperienza umano/religiosa.
Domandiamoci allora: che cosa chiede l’uomo (il paziente) quando chiede la salute? La risposta a questa domanda, consapevole o meno, determina il modo concreto di affrontare la malattia e la morte. Con la sensibilità di Rilke che invoca per ciascuno dal Signore «la sua morte. La morte che fiorì da quella vita in cui ciascuno amò, pensò e sofferse» o lo scetticismo disincantato di Adorno quando afferma che nella società contemporanea «gli uomini crepano e basta» , con un’infinita gamma di diverse sfumature la domanda che il malato fa al medico è sempre la stessa: “fammi vivere”, cioè “fammi durare”.
Bisogna però riconoscere, come ha ben notato Jonas, la vera natura di questo desiderio di durata. Esso è molto più profondo di quello che l’utopia salutista può prefigurare. «Se la durata permanente fosse l’obiettivo allora la vita non avrebbe dovuto neanche iniziare, perché essa non si può misurare in nessuna forma possibile con la durabilità dei corpi inorganici» . La durata di cui è questione deve in qualche modo attraversare la morte vincendola. In breve possiamo dire che sempre la domanda di salute è domanda di salvezza.
Su questa premessa, perché la morte? Da dove la morte? In una parola: cos’è la morte? Non possiamo in questa sede percorrere i molti tentativi di risposta che, per stare all’Occidente, vanno dall’idea di morte come colpa per il distacco dall’indeterminato (apeiron) fino ai temi cari alla sensibilità contemporanea che via via definisce la morte come destino (Ionesco: «una cosa insieme certa e incerta»), come interprete della vita o come atto supremo e onnicomprensivo del significato di tutta l’esistenza. In ogni caso non si riesce a togliere all’esperienza che l’uomo fa della “Straniera” (così Eliot chiama la morte) un carattere angosciante, quello che ogni morte implichi un “essere messo a morte”. Vale la pena citare le parole di Lévinas: «La mia morte non si deduce, per analogia, dalla morte degli altri… Il suo carattere imprevedibile dipende dal fatto che essa non si situa in nessun orizzonte. Non si lascia prendere. Mi prende senza lasciarmi la possibilità che lascia la lotta. Infatti nella lotta io riesco ad afferrare chi mi prende. Nella morte sono esposto alla violenza assoluta, all’omicidio nella notte» .
La morte, come un fiume carsico che attraversa in profondità ogni vivere, presenta sempre – anche nel caso del più lucido suicidio – un carattere di “condanna a morte”. Anche nel caso più elevato della morte come libero atto sostitutivo – penso a Massimiliano Kolbe – permane un aspetto di condanna capitale imposta dal di fuori. E non mi riferisco solo al fatto che il Kolbe aveva preso su di sé la condanna all’esecuzione capitale comminata all’altro protagonista, ma al fatto ben più decisivo che sia Kolbe, sia colui di cui egli prese il posto, dovevano comunque prima o poi morire. Perfino in questa luminosa pagina, consumatasi all’interno dell’orrenda tragedia della Shoah, in cui, in uno straordinario atto di offerta, un uomo assume liberamente il morire di un altro, non si può eliminare il dato che l’uomo non riesce a dominare radicalmente il suo morire. Anche in questo caso è la morte a dominare: in qualche modo è, per finire, omicida. Come non vedere qui il pungiglione velenoso di cui parla Paolo?
Lo stesso Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 6, 23) offre poi una spiegazione ultimamente legata alla storia della salvezza: vi è un nesso misterioso ma reale tra il peccato e la morte: «Il salario del peccato è la morte» (Rm 6, 23). La morte, così come noi storicamente la sperimentiamo in tutta la sua laidezza, non sarebbe stata tale senza il peccato di origine. Essa mantiene sempre pertanto un aspetto di castigo, anzi se la morte non fosse definitivamente vinta da qualcuno, questo aspetto finirebbe per definirla in modo esauriente.
La fede cristiana, basandosi sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione, ci insegna che: «Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio creatore ed entrò nel mondo come conseguenza del peccato. La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, è pertanto l’ultimo nemico dell’uomo a dover essere vinto (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1008)».

2. La singolare morte di Gesù Cristo
Ci tocca allora, come afferma la Lettera agli Ebrei, essere tenuti in schiavitù per timore della morte lungo tutta la vita (cfr Eb 2, 15)? La morte è dunque una condanna capitale?
Un grido irrompe nella storia dell’umanità e la attraversa per sorprendere la storia personale di ognuno di noi. Lo raccoglie la Chiesa nella Veglia pasquale dalla bocca del profeta. È il grido del Crocifisso risorto: «Mors ero mors tua/Morte sarò la tua morte» . Nella vittoria del Crocifisso l’elemento di condanna, di castigo per il peccato è assunto dentro un’inedita prospettiva di compimento: «Allora il castigo è solo una tappa verso la santificazione e la morte è un accesso alla vita eterna. La sofferenza sotto tutte le sue forme, la pena e l’invecchiamento, la società dei peccatori si trasformano, nel segno della risurrezione del figlio, nell’invito alla vita eterna. Cristo non è un’idea, Egli è il risorto che fa entrare i suoi fratelli dentro la risurrezione» .
Proviamo ad addentrarci, per quanto a tentoni, nell’esperienza di Colui che ha svelenito definitivamente il pungiglione della morte.
Uno dei momenti più drammatici dell’esperienza umana del Figlio di Dio è la notte del Giovedì santo. Gesù ha appena consegnato ai suoi il dono eucaristico e, afferrato dalla morsa dell’angoscia di fronte alla lucida consapevolezza di ciò che sta per avvenire, si è diretto verso il Monte degli Ulivi. Resta solo. E, dopo aver umanissimamente invocato dal Padre che gli allontanasse l’amaro calice, riafferma: «Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua volontà» (Lc 29, 32). Egli si avvia quindi al processo e poi si lascia illividire sul palo ignominioso della croce. Entra in tal modo con la sua morte estrema in una morte qualitativamente singolare. La sua è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella nostra, della morte. Perché? Non solo perché, come ha affermato Sant’Anselmo, che ha profondamente riflettuto su questa questione, la morte del Nazareno è la morte immeritata del perfetto innocente, e neppure solo perché, come genialmente insiste il pensatore di Aosta, Gesù assume la morte “sponte” (cioè per libera elezione). Per comprendere l’unicità singolare della morte di Cristo è necessario aggiungere un altro dato fondamentale. Gesù sconfigge la morte mediante l’atto di obbedienza umana di una persona divina . Nel libero “Sì” di Gesù agonizzante al Getsemani il destino di condanna capitale che accompagna ogni morire è abbracciato ed assunto in un più radicale morire, così che la morte è ingoiata dal di sotto (katapíno), «la morte è stata ingoiata per la vittoria» (1Cor 15, 54). Possiamo quindi avere l’audacia di pensare che la ragione profonda della vittoria sulla morte sta nella kénosi del Figlio di Dio che è diventato uomo proprio per vincere con il suo singolare morire in libera obbedienza la morte comune. La morte di Gesù Cristo è perciò l’espressione della sua eterna vitalità trinitaria. Per questo: «Valutata in termini umani la morte è semplicemente una fine, un puro e semplice passivo venir portato via. La follia del cristianesimo consiste nel fare di questo confine una specie di centro» . Nel libero “Sì” di colui che poteva non morire viene spezzato il giogo della condanna capitale. La morte è definitivamente sconfitta. Il di più di mortalità contenuto nella scelta sovrana di colui che ha deciso di lasciarsi mandare nel corpo per morire e risorgere, libera tutti gli uomini dalla morte trascinandoli con sé, se Lo accolgono, nel destino di gloria. Su questa base la Chiesa non annuncia semplicemente la possibilità di una morte serena, ma la fede nella risurrezione di tra i morti: la risurrezione della carne .

3. Libertà, morte e risurrezione
È fuori dubbio che questa visione della morte, che scaturisce dalla fede della Chiesa nel Crocifisso risorto, continua a segnare da 2000 anni la famiglia umana, soprattutto l’Occidente. Certo, essa presenta una radicale discontinuità rispetto all’esperienza costitutiva di ogni uomo, ivi compresa quella religiosa. E tuttavia, senza ovviamente eliminare la differenza antropologica cui la scelta di fede chiama in ultima analisi, non mancano gli elementi di continuità con tale esperienza costitutiva. In altre parole, si possono rintracciare nella struttura antropologica originaria segni convincenti della ragionevolezza di questa fede. Così da mantenere quest’ultima – pur nella sua indeducibile gratuità e nella salvaguardia della specificità ed autonomia di ragione e di fede – nell’orizzonte della ragione criticamente intesa. «La fede infatti si autocomprende nel riferimento alla rivelazione, non in contrapposizione alla ragione» . E «la fede sa di potersi giustificare in sede critica» proprio recuperando alla rivelazione la sua qualificazione cristologica di Verità trascendente e storica che la ragione non può non riconoscere.
Vorrei soffermarmi brevemente su un segno della ragionevolezza della vittoria di Cristo sulla morte, speranza della resurrezione nel nostro vero corpo. Mi riferisco al rapporto, a prima vista contraddittorio, fra libertà e morte. Se abbiamo parlato del sapore di condanna a morte proprio di ogni morte, anche di quella di chi sceglie di togliersi la vita, anche di quella di Kolbe, quale spazio sarà mai possibile per la libertà nell’atto del mio morire?
Una considerazione dell’esercizio quotidiano della nostra personale libertà può suggerirci la pista per sciogliere questo nodo decisivo e per mostrare come morte e libertà ultimamente non si autoescludano, ma si possano e si debbano coniugare. Se consideriamo anche il più banale degli innumerevoli atti di libertà che ognuno di noi pone lungo l’arco della giornata ci rendiamo conto che esso non può mai essere dedotto. L’atto di libertà si può definire solo quando lo si performa. Mi sedessi a tavolino a discutere con gli interlocutori più accreditati, le condizioni ideali per porre un qualsivoglia atto di libertà – per esempio uscire da quella porta – non potrei in ultima analisi dominare questo semplice atto prima di averlo posto. E questo perché all’interno del mio atto di libertà sono sempre compresenti due elementi:un volere illimitato e un potere limitato. In un certo senso sono in grado di voler tutto, ma in mio potere ho solo ciò che riesco in concreto ad attuare. La libertà pertanto non procede come una facoltà che applica un concetto astratto (per esempio, una teoria rigorosa di come uscire al meglio da quella porta) alla realtà concreta (l’atto del mio uscire). La libertà, invece, si compie, e perciò viene definita, solo nel per-formarsi dell’atto. Dire che le cose stanno in questo modo per via dell’umana finitudine è improprio.
Più oggettivo è riconoscere che la libertà non si riduce alla sua semplice capacità di scelta. Anzitutto è conveniente accettare che questa stessa capacità di scelta fiorisca in un certo senso dal mio essere nella carne (corpo). Anche quando l’uomo diventasse il prodotto del suo proprio esperimento la libertà non potrebbe non muovere da una qualche datità: non esiste autogenerazione. L’esistenza stessa della medicina e della cura è legata a questo essere nella carne dell’umana libertà di ogni singolo. Ma il fatto che il singolo atto di libertà non sia deducibile prima che io lo compia rivela un altro elemento importante. Per performare ragionevolmente uno specifico atto di libertà devo disporre del significato ultimo della libertà stessa che mi consente tale atto. Tale significato non è un’idea, ma è l’evento dell’essere-amore che viene incontro alla mia libertà dall’interno di ogni suo singolo atto e permette alla libertà di esserci come adesione a e come intervento nella realtà ? La libertà si definisce solo nell’atto perché il senso ultimo e l’orizzonte finale della mia stessa libertà, che mi permette di attuare questa determinata scelta, è un evento che si dona solo nell’atto. E posso performare tale scelta perché in essa e solo in essa si offre il senso ultimo e vitale della mia libertà. La libertà di scelta insomma non può mai prescindere, da una parte, dall’assecondare la datità che essa stessa include e dall’altra dal rispondere all’assoluto vivente (verità-bene) che nella stessa scelta le si offre, e perciò non può ridursi al potere della scelta.
Non dobbiamo quindi lasciarci ingannare dalla dimensione di non-dominabilità della morte per presentarla come luogo estraneo alla libertภessendone piuttosto il luogo della permanente pro-vocazione.
Libertà e morte non si escludono reciprocamente. La morte piuttosto, fin dalla nascita, rappresenta un permanente fattore educativo dell’umana libertà, a partire dalla richiesta che l’elemento “scelta” sia sempre intrinsecamente connesso agli altri due elementi in causa nell’identificare la libertà stessa: la datità delle sue condizioni e l’evento assoluto. Lungo tutta la vita la libertà è chiamata a confrontarsi con la datità delle sue condizioni e l’evento verità-amore, in rapporto ai quali si definisce. Nell’atto della mia morte il tempo della scelta si chiude e mi viene domandato un ab-bandono totale al dono della verità-bene assoluto che a ben vedere attraverso la datità delle condizioni della libertà già mi inclinava a sé. La libertà si lascia alle spalle l’imperfetta libertà di scelta per inoltrarsi verso il suo compimento. Nella morte la libertà viene liberata definitivamente. Libero in senso pieno è infatti sinonimo di soddisfatto, di compiuto, di realizzato, di perfetto. La verità-bene assoluto che incontro nella morte compie la libertà soddisfacendo finalmente il mio desiderio di piena durata. Quel desiderio che si esprime nell’invocazione di salute-salvezza di ogni uomo, che urge verso un aldilà della morte.
La singolare morte di Cristo, diversa dalla morte comune perché in essa entra direttamente in gioco l’elemento “scelta”, ma entra in gioco come puro, obbediente abbandono al Padre (Verità-Bene assoluto), è l’unico atto di libertà umana compiuto in senso pieno. È “conveniente” allora abbracciare nella fede la speranza certa della Risurrezione, perché è ragionevole che la morte gloriosa di Gesù sia considerata come garanzia che la nostra comune morte non sia un cadere nel nulla.
In questa prospettiva la morte appare proprio come la mia morte personale, dal momento che la mia singolare libertà è da sempre al lavoro di fronte alla mia propria morte. Si può dire che la mia morte. nella sua radicalità, provoca la mia libertà a compiersi. La tende al massimo delle sue possibilità perché mette in campo il suo articolato organismo. In un certo senso non esiste un evento che chiami in causa la mia libertà lungo tutto l’arco dell’esistenza come la mia morte. Come ci insegna la tradizione cristiana e come mi testimoniano decine di malati estremi che ho il dono di incontrare nella Visita pastorale, quell’angosciante rumore di fondo tendenzialmente rimosso che è la morte chiede di trasformarsi nella libera, vigile capacità di stare di fronte alla propria morte.
Certo, molti tratti propri della società attuale possono far pensare alla morte come un puro “crepare”. Ma, se guardiamo in faccia la realtà, proprio perché la morte investe tutto l’orizzonte della mia libertà, nessuno me la può sottrarre, neanche l’uomo-bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre al bar sorseggio il caffè. Così nell’ottica della ragionevole fede cristiana la morte non potrà ghermire l’io a se stesso. Al contrario, per la risurrezione, lo invererà nel “suo vero corpo” . Allora nell’atto del mio morire in Cristo darà il mio dies natalis.

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Un’interessante ripresa dell’articolato dibattito è stata proposta dal quotidiano Avvenire sabato 21 marzo 2009, che qui si può leggere.

Fede e ragione, violenza e libertà: dopo il caso Eluana faccia a faccia a Padova fra il cardinale Scola e il filosofo Severino Se è vero, come ha scritto Adorno, che dopo Auschwitz non ha più senso scrivere poesie, potremmo dire che in Italia, dopo il caso di Eluana Englaro, tutti siamo costretti a parlare della morte in modo diverso da prima. Forse è finita la stagione moderna che ha voluto rimuovere quel che Eliot chiamava «La Straniera», ma il guaio è che il dibattito è diventato sempre più confuso. A riportare la questione nell’ambito strettamente filosofico e teologico ci ha pensato l’università di Padova con il convegno «Morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto», apertosi ieri con una tavola rotonda in cui si sono confrontati il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ed il filosofo Emanuele Severino. Un incontro culturale d’altissimo livello tra un porporato che ha molto a cuore la questione antropologica ed un pensatore radicalmente anti­cristiano che però cita spesso il Vangelo. Per il cardinale Scola il problema centrale è dato dal «rapporto, a prima vista contraddittorio, tra libertà e morte». La sua riflessione parte dalla domanda che solitamente il malato fa al medico: «fammi vivere, cioè fammi durare». Ma la durata non è solo quello che intende l’utopia salutista, in realtà «la domanda di salute è domanda di salvezza». In questo senso la morte, ogni morte, suona sempre come «una condanna a morte». Per Severino non ha senso il gran discutere di queste settimane sull’inizio e sulla fine della vita, «un dibattito dove ci si dimentica che l’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano». Secondo il filosofo che ha legato il proprio nome alla serrata critica dell’intera tradizione metafisica occidentale non ha senso voler stabilire quando finisce la vita altrui perché non sappiamo chi sia «l’altro» (ed anche per chi lo considera evangelicamente «il nostro prossimo» è qualcosa di creduto, di voluto, e quindi di discutibile). Ed ancor meno possiamo parlare della morte come annientamento, perché di questo non facciamo esperienza. Chi conosce gli scritti di questo pensatore, complesso e paradossale, non si stupirà di simili affermazioni. Perentoria la sua conclusione: la ragione e la fede si trovano entrambe accomunate nella visione pessimistica della morte come annientamento. Il concetto cristiano di resurrezione della carne è una metafora del «destino della verità» dell’uomo, ma è una metafora sviante perché afferma una seconda creazione e così nega «l’incontrovertibile eternità dell’essere». Così parlò il Parmenide del XXI secolo che proprio pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni. Nei confronti dell’anziano professore, di cui è stato giovane allievo alla Cattolica di Milano, Scola si mostra molto deferente. Ma preferisce seguire un’altra strada, quella indicata dal suo vero e grande maestro, il teologo svizzero von Balthasar, per il quale la resurrezione non è certo una metafora. «Valutata in termini umani la morte è un puro e semplice passivo venir portato via. La follia del cristianesimo consiste nel fare di questo confine una specie di centro». Commenta il patriarca di Venezia: «Quella di Gesù Cristo è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella della nostra morte». Ne deriva che «libertà e morte non si escludono più reciprocamente». Concetto provocatorio, in quanto l’esperienza del morire sembra coincidere con l’assoluta impossibilità di scegliere qualcosa d’altro. Ma, spiega il cardinale Scola, «la libertà non si riduce alla semplice capacità di scelta. Ci sono altri due elementi essenziali: la datità delle sue condizioni e l’evento assoluto. Nell’atto della morte la libertà si lascia alle spalle l’imperfetta libertà di scelta per inoltrarsi verso il suo compimento. Nulla più della mia morte chiama in causa la mia libertà. Nessuno me la può sottrarre, neanche l’uomo­bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre bevo un caffè al bar». E’ chiaro allora che tutte le dispute sul fine-vita (eufemismo per non guardare in faccia la morte) ruotano attorno al concetto di libertà. Se viene ridotta a pura e semplice auto­determinazione allora posso anche decidere della disponibilità o meno della vita. La lotta che si sta ingaggiando su questo terreno, secondo Emanuele Severino, non è altro che «uno scontro tra due forme di violenza», quella che si definisce laica e quella cattolica. Vincerà il più forte, non chi ha ragione. Anche perché, per il filosofo parmenideo, non ce l’ha nessuno dei due. Pronta la risposta del cardinale: nessuna violenza, solo una posizione di tranquilla e serena ragionevolezza, quella che «in caso di dubbio, privilegia il favor vitae ». Invece gran parte del dibattito sul fine vita si può ricondurre al concetto, già espresso da Nietzsche, del «risentimento», cioè l’insopportabilità di fronte a situazioni di terribile limitazione e gravità. Un turbamento che, confessa il patriarca di Venezia, ha provato lui stesso pochi giorni fa visitando un giovane padre di tre bambini, malato di Sla e accudito amorevolmente dalla moglie. Può muovere solo le palpebre superiori degli occhi coi quali comunica tramite un computer. «Eminenza, io sono contento di vivere», ha scritto sullo schermo. Terribile violenza o straordinaria manifestazione di libertà?

 

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Guarda qui il servizio che Telechiara ha dedicato al dibattito

httpvh://www.youtube.com/watch?v=9hgsOyZdEOY