E’ ora disponibile l’intervista che il settimanale diocesano Gente Veneta ha realizzato al Patriarca di Venezia in occasione della Pasqua 2009.

Per vivere con intensità la prossima Pasqua, siamo invitati ad un esercizio di immedesimazione: È immedesimandoci in profondità con i fatti che la Scrittura e la liturgia ci propongono – dice il Patriarca – che noi possiamo intravedere, con gli occhi della fede, qualcosa di questo grande mistero che, nonostante tutto, ci spalanca nella pace verso il futuro.

L’esercizio di immedesimazione aiuta la comprensione e l’esperienza – con gli occhi della fede – di quel fatto eccezionale e per tanti versi così misterioso che è la risurrezione di Gesù.Un fatto eccezionale e inusitato, così come fa capire lo stesso Vangelo. È nel testo di Giovanni (14,28) che Gesù dice “Vado e tornerò da voi”, annunciando la sua morte e risurrezione. Ma per quale motivo, e con quale vantaggio, noi uomini del Duemila dovremmo credere allo straordinario passare di Cristo per la morte e al suo non andarsene per sempre?

Già, “Vado e tornerò da voi” è il morire crocifisso per tornare a noi in un nuovo legame di vita eterna. Ma come comprendere tutto ciò?
Per comprendere in profondità l’affermazione di Giovanni – spiega il Patriarca – bisogna stare davanti fino in fondo al racconto che i quattro evangelisti ci fanno dell’ultima cena, dell’arresto, della passione, della croce e della risurrezione di Gesù.
Quel che noi vediamo, continua il card. Scola, è un avvenimento assolutamente eccezionale. Si tratta dell’amore personificato. E cioè: Dio, che è in se stesso amore, manda Suo Figlio in mezzo a noi per salvarci. Ed Egli liberamente obbedisce al Padre. Lo hanno detto molto bene anche i giovani della nostra diocesi, nella Via Crucis di sabato scorso, utilizzando il linguaggio informatico “salva con nome”.
Prosegue il Patriarca: Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, è l’amore che afferra ciascuno di noi, soprattutto nella contraddizione, nel dolore, nel peccato e nella morte. Così che, se noi ci affidiamo a Lui, per quanto sia grande il nostro dolore, devastante la prova che ci tocca (pensiamo al terribile terremoto che ha colpito i nostri fratelli in Abruzzo) o la nostra contraddizione, Gesù ci trascina a sé: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32).
La fede ci apre la strada di questo ritorno, che è il ritorno alla casa del Padre: La Trinità, come diceva il grande von Balthasar, è una casa con le porte aperte: è il luogo dell’amore che attende ogni uomo che nella sua vita abbia scelto il bene. E, se ha incontrato Cristo, che l’abbia seguito.
In questo senso vivere la Pasqua è scoprire che Gesù è realmente il principio-speranza. E a partire dalla Sua esperienza – Lui non ha definito il dolore per spiegarlo, ma l’ha condiviso; non ha definito la morte la morte per spiegarla: l’ha condivisa – la fede diventa il ragionevole abbandonarsi a questo abbraccio di Gesù che sempre ci aspetta.
Eppure la grande fatica che sembra attardare tante persone sulla soglia della fede ha proprio a che fare con la comprensione del fatto centrale della risurrezione. Anche una recente indagine dell’Osret (Osservatorio socio-religioso del Triveneto) lo attesta. Cosa augurare, per Pasqua, a chi indugia nel dubbio? Cosa proporre a chi è perplesso?
La partecipazione feconda alla liturgia pasquale, risponde il Patriarca: Da duemila anni la Santa Messa è il grande anticipo, il primo germe della risurrezione. Il genio del cattolicesimo si vede proprio qui. Gesù ha anticipato gli eventi della Pasqua, nell’offerta di sé, cambiando il pane nel Corpo e il vino nel Sangue, perché noi potessimo viverli dopo la Sua morte e risurrezione. Come i Suoi discepoli li hanno intravisti nell’ultima Cena, così noi li possiamo intravedere nell’eucaristia. Abbiamo soprattutto bisogno – lo ripeto – di imparare ad immedesimarci.
Poi – continua il nostro vescovo – si tratta di ascoltare i segni della risurrezione: Tra questi, secondo me, il più imponente è il fatto che quegli uomini, i Suoi discepoli, che si erano rinchiusi, atterriti e pieni di angoscia, nella stanza del cenacolo, improvvisamente trovano il coraggio (lo raccontano gli Atti degli Apostoli) di andare in piazza ad annunciare a tutti il Regno fino a dare la propria vita. Dev’essere successo qualcosa di grande per spiegare tutto ciò. E cosa? Che Lo hanno rivisto, che hanno nuovamente incontrato Gesù.
Altra questione è quella relativa al vero corpo di Gesù: Gesù è risorto, come ci fa dire la liturgia nella notte di Pasqua, nel Suo vero corpo. Ma per poter capire cos’è il vero corpo, noi dobbiamo passare attraverso la nostra morte.
Anche in questo caso la via per cercare di comprendere è il Vangelo: Mentre noi siamo costretti a stare nel tempo e nello spazio, Gesù – dice la Scrittura – può entrare, col suo vero corpo, nel tempo e nello spazio, ma non è obbligato a restarci. Le grandi apparizioni di Gesù ci documentano che Egli può mangiare, ma non è obbligato a mangiare. In ciò si può intravedere qualcosa del Suo vero corpo, ma non si tratta certo di una evidenza sperimental-scientifica. Per avere l’evidenza incontrovertibile del dato della risurrezione dobbiamo accettare che la nostra libertà passi per la cruna dell’ago della morte, così come Lui, il Venerdì Santo, ci è passato. Ma noi, in questo passaggio, siamo anticipati dal Risorto che ci attende con Sua Madre. Non andiamo incontro all’ignoto. La Pasqua ci dà la speranza certa della risurrezione se noi guardiamo il Crocifisso, e guardiamo la modalità con cui Lui, che era l’unico che poteva non morire, ha deciso di morire per nostro amore.
E in questa riflessione è anche l’augurio di Pasqua del Patriarca Angelo: L’augurio è quello di guardare il crocifisso, di prenderlo in mano in questi giorni, se lo abbiamo in casa; nonché di andare con umiltà a confessarci, perché la confessione è il luogo in cui la nostra libertà tocca il vertice, riconoscendo il proprio limite e chiedendo all’amore di Cristo di sanarci. E poi auguro a tutti di partecipare alla Veglia pasquale e alla santa messa di Pasqua, perché è la liturgia che ci accompagna con naturalezza dentro il ritmo della bellissima affermazione giovannea “Vado e ritornerò da voi”.

La persona al primo posto. E la comunità con essa, nel segno della solidarietà. È ritarando la gerarchia dei valori che l’economia e la finanza sapranno uscire dalla crisi che da alcuni mesi attanaglia il globo.
Eminenza, in che senso la Pasqua ha qualcosa da dire all’umanità morsa dalla crisi?
Nel senso che l’evento della Pasqua è un dato storico, preciso, che noi viviamo nella liturgia non come una sacra rappresentazione, ma come un’azione della nostra libertà sempre situata nella storia. E perciò si lega anche alla condizione storica della grave crisi attuale.

E che messaggio ne viene?
La speranza a cui Gesù ci spalanca nella Pasqua è una speranza solidale. È l’espressione della solidarietà del Figlio di Dio con l’uomo: il Figlio di Dio, nel Suo incarnarsi, si fa carico di tutte le dimensioni della vita dell’uomo, e l’economia è una di queste. Perciò per noi cristiani, ma anche per chi riflette con ragionevolezza sulla presente situazione, questa prospettiva di Cristo come principio-speranza solidale può aiutare ad uscire da questa crisi che è anzitutto crisi di mentalità e di cultura.

Come uscirne, appunto?
Credo sia necessario riequilibrare l’economia di mercato nella direzione di subordinare l’uso dei beni al valore e alla dignità del soggetto personale e comunitario. In questo senso, nella crisi è contenuto un invito profondo a mutare i nostri stili di vita.

Si tratta di ridurre i consumi, di “decrescere”, come afferma qualcuno?
Si tratta piuttosto di interrogarci su come consumare per poi decidersi magari a consumare di meno. Dobbiamo in primo luogo chiederci a quali condizioni il consumo rende dignitosa e dilata la vita del soggetto e della comunità. In questo senso vedo un’analogia con il tema degli affetti: in che modo, infatti, gli affetti esaltano e compiono la persona e la comunità? Solo se sono vissuti nella ragionevolezza di un amore ordinato.

E i consumi?
Occupano un posto decisivo nella nostra vita. Se se ne fa un ragionevole uso, favoriscono la dignità dell’uomo. Altrimenti producono squilibrio.

Lei, eminenza, sta cioè invitando a riconoscere meglio i fini e i mezzi nell’economia?
Esattamente. Se si riporta il soggetto al cuore dell’economia di mercato, allora inesorabilmente si saprà equilibrare il rapporto fra il soggetto stesso e l’uso dei beni. In ciò basta ricordare il grande e antico insegnamento della Chiesa – lo diceva già San Tommaso – secondo cui tutto ci è dato in uso. Il senso cristiano della proprietà privata è proprio questo: tutto ci è dato in uso, ma la destinazione dei beni è universale. E qui si innesta un altro basilare elemento: si esce dalla crisi ritrovando speranza non solo a partire dal primato del soggetto, ma anche dal fatto che la speranza che qui abbiamo cercato di delineare è per sua natura solidale.

Il che, tradotto nel concreto delle scelte economiche, cosa significa?
Che noi non usciremo dalla crisi se non sapremo andare incontro alle situazioni estreme di povertà – cominciando dalle persone che qui da noi, in Italia, perdono il lavoro, immigrati compresi – per andare – come ha detto il Papa nella sua recente, bellissima lettera al primo ministro inglese Gordon Brown – ai bisogni dell’Africa. Bisogna cioè guardare alla povertà e alla miseria africane non solo come a problemi da affrontare per un dovere di giustizia e in un impeto di carità, ma come a opportunità per riequilibrare il mercato.

All’incirca com’è accaduto in questi ultimi anni con la Cina?
Certamente. Nel rispetto, però, di tutti i diritti dell’uomo e della società. Noi occidentali, così come siamo troppo ignavi verso l’Africa, siamo colpevoli circa la modalità con cui la Cina non sta affrontando il problema dei diritti dell’uomo.

Aldilà del dettaglio delle soluzioni tecniche, cosa intende fare la diocesi di Venezia per aiutare chi la crisi ha messo in difficoltà?
Noi abbiamo voluto riflettere con un po’ di calma e di pazienza per non prendere iniziative generose ma alla fine inefficaci. Ci muoveremo in più direzioni. La prima, e per noi la principale, è quella educativa: vogliamo educare alla speranza solidale che è Cristo risorto. Il che significa educare a stili di vita integrali, che vanno dalla dimensione personale ed affettiva fino alla dimensione sociale e di uso virtuoso dei beni.

In secondo luogo?
Anzitutto la nostra Caritas ha già promosso una raccolta di fondi destinata alle popolazioni terremotate dell’Abruzzo. Seguendo l’invito della C.E.I. indiremo per loro una colletta straordinaria la Domenica dopo Pasqua (19 aprile). Poi parteciperemo con molta generosità – e i sacerdoti già lo hanno fatto con il gesto di solidarietà durante la Messa Crismale del Giovedì Santo – alla grande colletta che la C.E.I. ha lanciato per il 31 maggio, per costituire il fondo di garanzia a favore delle famiglie in difficoltà. Potenzieremo il microcredito, un’esperienza già in atto nella nostra diocesi, infine incrementeremo il fondo per il pronto intervento sui bisogni urgenti e immediati. Ma soprattutto seguiremo con intensità e maggiore energia quanto già stiamo facendo da anni, attraverso le varie opere della carità capillarmente presenti nel Patriarcato ed in molte parrocchie. Aiuteremo cioè le persone a venire incontro ai bisogni primari di tutti: il mangiare, il vestirsi, il pagare la bolletta che non si riesce più a pagare… La carità infatti rende “creativa” la giustizia.

Lo straordinario dell’ordinario?
Sì, vorremmo stare il più possibile dentro la normalità, operando con il potenziamento dell’azione caritativa ordinaria che la nostra Chiesa vive da tempo. Faremo, certo, i passi straordinari che ho ricordato, ma vorremmo che il tutto si potesse iscrivere il più possibile nella norma, perché lo stile di vita cui puntiamo ha bisogno di stabilità e di fedeltà nel quotidiano. E neppure nei provvedimenti straordinari trascureremo la dimensione solidale della speranza, in particolare l’attenzione al Sud del pianeta.