In occasione della Festa del Santissimo Redentore del 2003 l’omelia di S.E. Monsignor Angelo Scola. Da un modello veneto di sviluppo ad un modello veneto di civiltà.

1. Non solo folklore
«Custodisci, o Padre, l’opera della tua misericordia perché il popolo che Tu ami attinga i doni della salvezza alla fonte viva del Redentore». Così, con l’impareggiabile forza sintetica della liturgia, la Preghiera di Colletta ci ricorda lo scopo del gesto che, ancora oggi da più di quattrocento anni, noi veneziani abbiamo voluto adempiere. Per questo, nel solco di generazioni e generazioni di nostri concittadini, abbiamo attraversato il ponte votivo insieme agli ospiti, con le Autorità ed il Patriarca.
Quella fine estate del 1576 non era certo la prima volta che una grave pestilenza minacciava la vita della città. La peculiarità dell’ambiente lagunare favoriva i contagi e metteva in pericolo la salute dei più. Quella volta però l’attacco del morbo era stato particolarmente virulento: la morte non aveva risparmiato nessuna famiglia e la disperazione, rotto ormai ogni argine, dilagava paurosamente nel cuore dei nostri padri. Di fronte alla terribile prova, nel nostro popolo si fece strada l’evidenza che la salvezza cui anelava con tutte le sue forze – poter essere liberato «dal contagio del male» (Preghiera di Colletta) – non era alla sua portata. E con naturalezza si rivolse all’Unico che aveva il potere di donargliela. «Il Senato – narra la storia – persa ogni fiducia nei mezzi umani il 4 settembre 1576, decise con 84 voti favorevoli e appena 3 contrari, di erigere un tempio a Gesù Redentore del mondo, se la morìa fosse finita» .
Anche noi, con maggiore o minore consapevolezza, siamo arrivati a questo splendido tempio votivo mossi dallo stesso desiderio di salvezza. Come allora il nostro Redentore se ne fece carico, anche oggi continua a farsene carico. Per questo facciamo festa. Senza questa ragione esplicita la festa di questa sera ci lascerebbe l’amaro sapore di tanto folklore che, al massimo, riesce ad offrire una breve boccata d’aria salubre al nostro presente, ma non ha la forza di ristorarlo fino in fondo e di rigenerarlo.

2. Una speranza che non delude
Nella vita, ogni prova – ed ognuno di noi, anche questa sera, fa i conti con le prove che segnano la sua persona – mette sempre allo scoperto la nostra impotenza a salvarci con le nostre mani e il bisogno impellente che qualcuno si prenda cura di noi. A questa urgenza Dio risponde in prima persona, secondo un’indomita iniziativa di bene. La Prima Lettura documenta lo straordinario coinvolgimento della Sua libertà con la nostra: «Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34, 11). «Io passerò in rassegna le mie pecore» (Ez 34, 12): Egli si china personalmente su ogni singolo uomo affrontandone il concreto bisogno: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ez 34,16).
L’inarrivabile premura di Gesù per noi, che sfonda da ogni parte le strette maglie dell’umana equità, è la giustizia dell’amore. Con essa fa irruzione nella storia la gratuità assoluta, come ci dirà tra poco il Prefazio: «Egli, che era senza peccato, accettò la passione per noi peccatori e, consegnandosi a un’ingiusta condanna, portò il peso dei nostri peccati. Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua resurrezione ci acquistò la salvezza». E da quel momento un’irriducibile volontà di bene accompagna l’umana avventura. Non l’abbattersi della meritata ira di Dio sul nostro peccato, ma la dolcezza insperata della Sua misericordia. Essa ha un nome: Gesù Cristo giusto, il nostro redentore. «Dio – infatti – non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17) (Vangelo).
Quest’opera di riconciliazione dell’uomo con se stesso, con gli altri e con Dio, compiuta dall’«effusione redentrice del Suo Sangue» (Preghiera sulle offerte), è il solido fondamento di quella «speranza che non delude» (Rm 5, 5) di cui ci ha parlato San Paolo nella Seconda Lettura.
Una speranza che non delude: difficilmente si potrebbe trovare un’espressione più adeguata per descrivere il motivo che da sempre suscita e sostiene la creatività di uomini e di popoli. Anzi, a ben vedere, è questa speranza il motore di ogni autentica civiltà. Se sono sospinti da una speranza che non delude, allora gli uomini possono guardare con franco realismo al loro presente, senza rimuovere il passato e senza temere il futuro.
Forse questa speranza che non delude può rappresentare il criterio-guida anche per formulare qualche considerazione sull’attuale situazione di Venezia e della società veneta. Il marcato carattere civile della festa cristiana del Redentore, ben espresso dalla presenza, alla guida del popolo, di tutte le autorità costituite, invita – con una certa naturalezza – il Patriarca a volgere lo sguardo in questa direzione.

3. Modello veneto di sviluppo?
Quasi ogni settimana, dalle pagine dei mass-media, autorevoli analisti ci propongono una radiografia, più o meno corretta, della situazione in cui versa il popolo veneto. Per segnalare l’imponente sviluppo economico nelle nostre terre in questi ultimi decenni si fa ricorso all’espressione “modello veneto di sviluppo”. Un progresso paradigmatico, portato ad esempio per le altre regioni di Italia e della stessa Europa.
L’impressionante cambiamento, verificatosi nella nostra regione a partire dagli ultimi trent’anni, è sotto gli occhi di tutti. In poco tempo popolazioni povere, prevalentemente dedite all’agricoltura, spesso in situazioni palesemente penose, costrette a subire un’emigrazione di massa, grazie alla solidità dei legami familiari, ad una straordinaria capacità di lavoro, alla non poca genialità, alla frugalità e alla parsimonia, hanno bruciato le tappe di un’evoluzione che le ha condotte ai primi posti dello sviluppo economico europeo. E, a dire degli esperti, ancora oggi, in un contesto di recessione, la crescita economica del Nord Est, sia pure rallentata, continua, situando la nostra regione in testa all’economia italiana.
I vantaggi materiali che il cosiddetto “modello veneto di sviluppo” ha portato con sé sono ben noti. Alla crescita economica si sono intrecciati un marcato benessere, una più acuta consapevolezza della dignità del lavoro, l’esigenza di più decorose condizioni di abitazione, una diversa attenzione alla qualità della vita, una più avvertita sensibilità del decisivo e delicato rapporto con l’ambiente, e così via.
Sono, però, ben note anche le non poche contraddizioni presenti in tale modello. A tal punto che per taluni degli stessi osservatori esso sarebbe ormai arrivato “al capolinea”. Sempre più spesso infatti si sente parlare di crisi dei fattori che hanno assicurato al modello veneto il suo successo: il decremento della natalità ha infragilito la famiglia, pilastro portante delle piccole e medie imprese; la disponibilità dei lavoratori – oggi meno in balìa del fluttuare del mercato perché possiedono più alti gradi di formazione e maggiori risorse economiche – è sempre meno flessibile; la presenza degli immigrati, richiesta dallo stesso mondo del lavoro, si accompagna ad una grave fatica della popolazione ad accogliere il diverso e alla conseguente lentezza nel costruire una ormai imprescindibile società multiculturale e multietnica; la microcriminalità organizzata inquieta le nostre dimore; nuove forme di povertà e di emarginazione vanno affiorando, mentre la televisione non cessa di ricordare alle nostre esistenze pasciute la miseria endemica di larghissimi strati di popolazioni del Sud del pianeta, soprattutto dell’Africa. Infine, a segnalare che anche il progresso economico non segue una linea retta sempre ascendente, sta il dato, assai significativo, che lo stesso territorio è talmente saturo da faticare ad accogliere insediamenti di nuove imprese.
Su queste basi, a quali condizioni si può guardare con speranza certa al futuro?

4. Da modello di sviluppo a modello di civiltà
Non tocca ai pastori della Chiesa far previsioni sui risvolti per così dire “tecnici” della questione. Tuttavia, in forza della fede cristiana, frutto prezioso della redenzione e patrimonio comune alla quasi totalità del popolo veneto, attinge dal Cuore squarciato del Crocifisso Risorto, quell’«amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito» (Rm 5, 5) (Seconda Lettura). L’amore è il seme e il frutto della speranza che non delude, e quindi di quella salvezza che Dio ha offerto agli uomini. In forza di questo dono prezioso, che suscita una responsabilità assai onerosa, il Patriarca nell’odierna festa del Redentore sente il dovere di affermare con chiarezza che, per avere futuro, il modello veneto di sviluppo deve evolversi fino ad assumere la forma compiuta di un modello di civiltà. Ogni autentica civiltà implica un intreccio creativo di dimensioni materiali e spirituali che consentano ai singoli ed al popolo di praticare un’integrale vita buona. Non basta produrre maggior benessere economico a vantaggio di tutti. Né, d’altra parte, si tratta di demonizzare il denaro o di condannare il mercato. Secondo un articolato sviluppo – dalla Rerum novarum alla Centesimus annus – l’insegnamento sociale della Chiesa ha chiarito i principi evangelici di giustizia che debbono presiedere al corretto rapporto tra lavoro, economia e politica ai fini di edificare una civiltà in cui tutti vivano, per quanto possibile, in pace e concordia . Proprio in questo quadro si impone l’evidenza che non si dà sviluppo senza civiltà. Ed è civile una società nella quale, di fatto e non solo in linea di principio, il valore di ogni singolo, sempre radicato nella comunità, è riconosciuto e perseguito in tutte le umane espressioni dall’individuo, dalle famiglie, dai corpi intermedi, in una parola da tutta la società civile al cui servizio sono chiamate le autorità istituzionali di ogni ordine e grado.
Tutti i fattori costitutivi di una civiltà saranno garantiti e – per quanto è possibile – posti al riparo da contraddizioni, solo se verranno custodite con sapiente cura le qualità della persona e della comunità. Individuo e società, persona e comunità sono infatti gli inseparabili soggetti adeguati di civiltà.

5. Esperienza, cultura e civiltà
Una civiltà ha futuro quando in essa viene promossa l’esperienza integrale della persona. Pertanto la cartina al tornasole di una vera civiltà è la modalità con cui un popolo vive, in se stessi e nella loro stretta interconnessione, gli affetti, il lavoro ed il riposo, che sono le manifestazioni essenziali dell’universale umana esperienza.
Con acuto senso della miglior tradizione occidentale Giovanni Paolo II, in un celebre discorso all’Unesco (1980), ha mostrato come da un’autentica esperienza umana nasca sempre una cultura e fiorisca una civiltà. Affermò allora il Papa: «Genus humanum arte et ratione vivit (cfr. S. Thomae “In Aristotelis ‘Post. Analyt.’, 1) […] Il significato essenziale della cultura consiste, secondo queste parole di san Tommaso d’Aquino, nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale […] l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell’ “esistere” e dell’ “essere” dell’uomo» . Le parole del Papa esprimono l’irrinunciabile nesso tra esperienza elementare e cultura. Il binomio tomano ars et ratio fa con naturalezza riferimento alla multiforme capacità creativa insita nella natura razionale del genere umano per sottolineare il fatto che ogni sapére , anche il più rigoroso, nasce sempre da un gusto della vita, da un sápere. Il cristianesimo, strappando la cultura ad ogni utopico intellettualismo avanguardista – di marca liberista o collettivista – per ancorarla all’esperienza elementare del singolo immerso nel popolo, l’ha resa matrice di autentica civiltà.
Conviene in proposito aggiungere qualche notazione che può riguardare da vicino anche noi veneti. Troppo spesso dimentichiamo che il termine cultura è correlato, se non derivato, da coltura ed ha la stessa radice di culto.

6. Cultura da coltura
Coltura fa pensare alla nostra tradizione contadina, oggi significativamente evoluta e all’avanguardia perché è stata capace di coniugare il nuovo con l’antico. È questo un dato che ci costringe a riconoscere come non ci sia frattura tra la nostra attuale società e la lunga storia della nostra terra veneta. Un autentico modello di civiltà domanda pertanto il coraggio di un sapiente innesto, così che tutto il meglio dell’antico alimenti il nuovo, come ci insegna la nostra identità europea nella sua primaria matrice romano-cristiana. In questa sede è appena il caso di accennare al grave equivoco che conduce molti a liquidare come passatista l’autorevole richiamo della Chiesa alla tradizione. La tradizione autentica non è mai nostalgica riproposizione di forme passate, perché è in se stessa un fatto di esperienza e quindi sempre in trasformazione. La tradizione non è pura conservazione. Al contrario è apertura al futuro carica di speranza perché garantisce e verifica l’autenticità del nuovo annodandolo all’antico.

7. Cultura e culto
In secondo luogo cultura ha la stessa radice di culto. Questo ci aiuta a capire come la fede dei nostri padri – che ha saputo dar vita ad un fitto tessuto di opere di ogni genere: dalle congregazioni religiose alle cooperative di lavoro – sia non solo attuale ma assolutamente decisiva. Anzi, oggi è più che mai necessaria una fede integrale e consapevole che giunga fino a dar vita ad espressioni civili e comunitarie, autonome e pubbliche, beneficamente incontrabili da chiunque. Sempre e ad ogni latitudine il culto ed i riti religiosi sono primaria espressione del carattere veramente popolare di una civiltà. Così, solo se saldamente radicata nel culto, cioè nella regolare vita liturgica e sacramentale, essenziale espressione religiosa e sociale della fede del nostro popolo, la pluriformità culturale dei veneti saprà compiere il modello di sviluppo economico in modello di civiltà.
I risultati di recenti statistiche sulla religiosità degli italiani e dei veneti hanno sorpreso molti. Contro le non poche cassandre, che spesso condizionano anche l’opinione di molti cristiani, ci hanno rivelato un dato sorprendente: in Italia è ancora vivo e vitale un cattolicesimo di popolo. Tuttavia, anche di fronte a dati inoppugnabili, non pochi interpreti, soprattutto facendo leva sulle contraddizioni di carattere etico degli intervistati, si sono spinti a parlare, in maniera equivoca, del benefico effetto della privatizzazione della fede cristiana. Lasciando affiorare nelle loro analisi un luogo comune duro a morire, costoro ripropongono la tesi della necessità per l’Italia di una certa “protestantizzazione” della fede cattolica. Per il nostro come per altri paesi latini, il cattolicesimo sarebbe stato e sarebbe un fattore frenante lo sviluppo socio-culturale. Essi pertanto salutano con soddisfazione il manifestarsi di una certa privatizzazione dell’esperienza religiosa e la presentano come la forma veramente moderna della fede cristiana. Invece, dall’opera del Redentore – il festeggiato di questa sera – scaturisce l’indistruttibile unità del popolo di Dio. «Ci hai riscattati, Signore, con il tuo Sangue da ogni tribù, lingua, popolo e nazione» così abbiamo pregato con l’Antifona all’ingresso. Noi ci apparteniamo reciprocamente perché Tu «ci hai costituiti un regno» (Antifona di ingresso). Una fede ridotta a fatto privato ed unicamente coincidente con un insieme di scelte frammentarie e soggettive finisce di fatto con il provocare l’affievolirsi dei vincoli di appartenenza. Non c’è autentico cristianesimo senza il nuovo popolo di Dio, senza quel soggetto personale e comunitario che è la Chiesa di Dio. Condizione decisiva perché la nostra società veneta diventi modello di civiltà è dunque il fatto che i cristiani vivano fino in fondo la propria appartenenza a comunità ben identificabili sempre aperte a chiunque. Uomini e donne, afferrati nel santo Battesimo dalla misericordia del Redentore, sono chiamati a coinvolgere quotidianamente la loro libertà con la speranza che non delude, con l’amore riversato nei loro cuori. Una fede viva, cioè capace di rendere i fedeli protagonisti anzitutto nella Chiesa e poi, insieme ad ogni uomo di buona volontà, nella costruzione di una società dal volto umano.

8. Lo Studium Generale Marcianum
La Chiesa di Dio che è in Venezia, pur con tutti i limiti dei suoi membri, attraverso la sua capillare presenza desidera sostenere quotidianamente l’esperienza integrale, personale e sociale dell’uomo illuminata dalla fede. Per questo ha a cuore il concreto attuarsi del rapporto tra esperienza, cultura e civiltà. A tal fine, per approfondire le ragioni della fede, il nostro Patriarcato, nel solco di una solida tradizione, darà ufficialmente vita, il prossimo mese di settembre, allo Studium Generale Marcianum. In esso convergeranno istituzioni pedagogiche, scolastiche ed universitarie con lo scopo di assicurare la comunicazione di taluni saperi rivolti a tutte le fasce di età, dalla scuola materna all’eccellenza post-universitaria. La visione cristiana della vita sarà proposta – nel rigoroso rispetto dello statuto e del metodo delle scienze oggetto di ricerca, di insegnamento e di studio – a tutti indistintamente: credenti e non credenti, cristiani o uomini di altre religioni, in conformità al carattere multiculturale della nostra realtà. Si tratta di una proposta pubblica e libera, in continuo e serrato paragone con le istituzioni scolastiche, universitarie e di Alta Scuola che già arricchiscono la realtà veneziana.

9. Maturare negli affetti
Una condizione fondamentale perché non si affievolisca il nesso tra esperienza e cultura come garanzia di autentica civiltà è la cura della maturazione affettiva della persona. Anche a questo proposito la Chiesa, madre e maestra, intende farsi carico della delicata opera di innesto tra antico e nuovo. Infatti i radicali mutamenti di sensibilità e costume che stanno caratterizzando la sfera affettiva accentuano l’elementare bisogno di ogni uomo di essere accompagnato a maturare negli affetti, cioè nella capacità di amare e di essere amato. Solo nell’esperienza di un’affezione compiuta, infatti, l’uomo impara le due leggi che guidano ogni rapporto: il peso insostituibile dall’altro che educa al necessario distacco da sé e l’imprescindibile positività dei legami. In vista di questo delicato compito nessuna realtà è paragonabile alla famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra un uomo e una donna aperto alla procreazione. Le autorità legittimamente costituite hanno pertanto il dovere di custodire e promuovere, attraverso politiche adeguate, la famiglia, senza cedere alla tentazione di equipararla ad altri tipi di convivenze.
In questo contesto desidero rinnovare con forza il mio appello a tutte le autorità costituite perché si facciano carico dell’urgenza antropologica che travaglia la città lagunare. Solo una politica organica della casa, del lavoro compatibile e dei trasporti può consentire ai giovani sposi di non abbandonare il centro della città.
Tra le nostre preoccupazioni l’emergenza antropologica di Venezia – il cui risvolto demografico è sotto gli occhi di tutti – dovrebbe avere la priorità. Per questo il Patriarcato darà vita ad una Commissione composta dai responsabili di istituzioni ecclesiastiche dipendenti direttamente dalla Diocesi ai fini di esaminare l’attuale stato di locazione degli immobili di loro pertinenza e favorire, nella destinazione e nell’ammontare degli affitti, i giovani che intendono sposarsi.

10. La comunità dimora delle famiglie
Sono, però, ben consapevole che la solidità della famiglia non dipende semplicemente da alcune scelte politiche in suo favore. Tocca a noi come comunità cristiana l’affascinante ed impegnativo compito di educare il nostro popolo a riconoscere la bellezza e la convenienza della famiglia cristiana per proporla a tutti. Una famiglia che si alimenta sulla fedeltà degli sposi. La fedeltà, infatti, è il fondamento su cui l’amore quotidianamente viene edificato e rinnovato. Una fedeltà che non ha paura di passare attraverso la gratuità vertiginosa del perdono e della misericordia perché, nell’esperienza del perdono donatoci dal Redentore, sa portare, anche con grave sacrificio, la fragilità propria e altrui.
Una famiglia aperta alla vita, anzi generosa, che sa ricevere i figli che Dio vorrà donarle ed accogliere – anche attraverso l’affido e l’adozione – figli senza dimora. Sempre i bambini sono segno privilegiato di speranza. Una famiglia, infine, intesa come appassionato ambito educativo che, garantendo un’armonica catena generazionale, edifichi civiltà.
La vita della comunità cristiana – nelle nostre parrocchie, nei gruppi e nei movimenti – è chiamata ad avere particolare cura di questa realtà della famiglia. E quest’ultima sarà tanto più se stessa quanto più troverà nella vita della comunità la sua dimora: un ambito in cui gli affetti possano essere vissuti ed educati secondo l’integrale verità dell’umana esperienza.

11. Lavoro: creatività ed equilibrio
Da tale dimora l’uomo potrà attingere le risorse necessarie per vivere creativamente il lavoro, in tutta la sua complessità e fino alle sue più pesanti contraddizioni. Il senso del lavoro e del dovere compiuto si riveleranno non più come un peso fastidioso, ma come un’espressione privilegiata dell’uomo maturo, che ha imparato ad amare perché si sa custodito nell’amore.
Il lavoro, insieme agli affetti, stabilisce la strada per la piena edificazione della persona e della società. Esso è partecipazione diretta, creativa anche se faticosa, al disegno di Dio sulla storia.
In questo senso è opera primaria di giustizia e di carità provvedere ad una adeguata offerta di impiego per tutti, avendo particolare cura dei disoccupati, dei giovani e degli immigrati. Parlando del lavoro non possiamo tacere il fatto che nelle nostre terre esso rischia talvolta di essere assolutizzato. Viene ridotto ad esasperata ricerca di guadagno e di successo. Allora impedisce quella necessaria attenzione alla vita di famiglia e al riposo rigenerativo che contribuiscono in modo essenziale ad un modello di autentica civiltà.

12. Il riposo: un diverso uso del tempo e dello spazio
Dal modo con cui trascorriamo il tempo libero si vede ciò a cui veramente teniamo. A questo proposito, per assecondare il nuovo che necessariamente accompagna ogni crescita di civiltà, le Chiese nel Veneto possiedono uno strumento prezioso: i Patronati. Essi si stanno giustamente trasformando da luoghi dell’educazione e di svago dei bambini, dei fanciulli e dei giovani in luoghi di autentico riposo per tutti: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare» abbiamo ascoltato nella Prima lettura. Così i patronati possono diventare strumenti privilegiati di rigenerazione delle persone in cui, per esempio, le famiglie si possano riunire il sabato e la domenica dopo la celebrazione eucaristica, nell’affascinante riscoperta delle relazioni primarie, del pasto comune, dell’ importanza dell’ascolto e del dialogo come condivisione di gioie e sofferenze, del divertirsi insieme, nel gioco o nell’approfondimento attraverso un libro, un film, il teatro, il canto e la musica. E questo facendo ricorso agli straordinari mezzi oggi offerti dalla tecnologia. Condividere con semplicità il tempo e lo spazio, secondo questi modi e ritmi elementari, rigenera l’io perché rinsalda gli affetti e consolida l’energia lavorativa.

13. Politica: il dovere di governare il presente
Da modello di sviluppo a modello di civiltà: questo è il cammino che indichiamo al popolo veneto in vista di un futuro che non deluda le attese perché si radica nel dono del Redentore. Un dono che rende lieti e perciò consente una speranza che non viene meno, come testimonia il nostro odierno convenire in questa splendida basilica palladiana.
In forza di questa speranza che non delude debbono operare quanti si impegnano quotidianamente nella cosa pubblica. Mentre manifestiamo loro la nostra sincera gratitudine rivolgiamo un pressante appello alle nuove generazioni perché si impegnino direttamente in campo politico. Non solo prendendo parte a qualche manifestazione, ma coinvolgendosi in prima persona nella quotidiana edificazione della polis.
Forse un particolare ostacolo all’ingresso diretto dei giovani nell’agone politico è rappresentato dalla eccessiva litigiosità che sta caratterizzando, in questa lunga fase di transizione, i rapporti tra i partiti e le forze in campo nel nostro paese. Essa ha poco a che fare con l’autentico e sempre necessario dibattito politico. Dimenticando che la politica è l’arte del compromesso nobile si toglie stima all’arbitro di tale compromesso che è il popolo sovrano. Di volta in volta lo si blandisce demagogicamente o lo si spaventa con calcolate manipolazioni e, in tal modo, si genera e si radicalizza la divisone. Anziché costruire ponti che consentano una sana, pluriforme unità si finisce per scavare fossati. Così nel nostro paese il popolo si presenta, su non poche questioni decisive, spezzato in due tronconi che sembrano incapaci di comunicare. A patirne è proprio quel bisogno di civiltà di cui abbiamo parlato.
Da questo rischio di paralizzante litigiosità anche noi veneti non siamo immuni. E forse ancor meno lo siamo noi veneziani. Certo, Venezia presenta problemi di complessità elevatissima, quasi esclusivi: dall’acqua alta al moto ondoso, dalla bonifica ambientale alla riconversione industriale, dalla necessità di una amministrazione pluriforme nell’unità all’organizzazione efficace della sanità in una città che sorge sulle acque… e così via. È quindi naturale che il dibattito politico sia puntiglioso ed agguerrito, che la dialettica sia tenace. Tuttavia, a maggior ragione nella nostra città il bene comune esige che si sappia esercitare l’arte del compromesso nobile. Nessuna opinione, per quanto ritenuta valida, può giustificare una esasperazione dialettica che blocchi indefinitamente la realizzazione di alcune mete indilazionabili. La politica è dovere di governare il presente e, quindi, il compito delle Istituzioni in una società civile è primariamente quello della realizzazione sapiente ed ordinata di quegli obiettivi organici che risolvano il prima possibile i reali bisogni dei cittadini. Durante le campagne elettorali tali obiettivi sono tradotti in programmi che rivelano larghe convergenze tra gran parte delle forze in campo anche di diversi schieramenti. Chi è stato scelto dal popolo per governare il presente deve attuarli con decisione e coraggio, ben sapendo che nessun atto di governo è esente da rischi, compreso quello dell’impopolarità.
Insieme, quindi, al di là degli schieramenti, le autorità costituite debbono instancabilmente cercare la strada per rispondere efficacemente a quei bisogni che delineano i tratti dell’inconfondibile identità di Venezia e del Veneto. Anche così si potrà dare al modello di sviluppo il volto del modello di civiltà.

14. Il sapore dell’eterno nell’oggi
«Proteggi sempre il tuo popolo, perché libero da ogni pericolo viva nella concordia e nella pace» (Preghiera dopo la Comunione). Così pregheremo alla fine della Santa Messa. La Chiesa di Dio che vive in Venezia desidera offrire a tutti – credenti e non credenti – il suo contributo alla concordia e alla pace. E lo vuol fare compiendo la missione affidatagli dal Suo divin Redentore. Attraverso le parrocchie e le varie aggregazioni di fedeli la Chiesa intende accompagnare i suoi figli, rigenerati dalla grazia sacramentale, in famiglia, sul lavoro e nel riposo per contribuire all’edificazione di un modello di autentica civiltà. Le comunità cristiane vogliono attuare su tutto il territorio una presenza che dia al tempo e allo spazio il sapore dell’eterno, perché mantiene viva ed operante la memoria del Redentore.
Incontrando i cristiani, chiunque potrà scoprire quanto Dio ci ama, perché, come ci ha ricordato oggi il santo Vangelo «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17). Amen.

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