UNA NUOVA LAICITA’ – Per il periodo estivo questo sito propone di ripercorrere alcuni ambiti affrontati dal card. Scola: Famiglia, Maria, Sacerdozio, Educazione, “Caritas in Veritate“. In particolare, sull’acceso dibattito sulla laicità dello stato, viene pubblicato qui di seguito uno stralcio del capitolo I del libro del card. Angelo Scola, “Una nuova laicità. Temi per una società plurale” (Marsilio, 2007):

Valore della laicità dello stato e valori fondanti della società

In quanto istanza superiore lo stato deve essere – secondo la terminologia ormai d’uso – «laico». Ma è chiaro, a questo punto, che cosa debba significare laicità: la non identificazione con nessuna delle parti in causa, cioè dei loro interessi e delle loro identità culturali, siano esse religiose o laiche. Tuttavia, in forza della sua stessa funzione, stato laico non è sinonimo di stato «indifferente» alle identità e alle loro culture. Soprattutto non può essere e, di fatto, non è mai indifferente ai valori della tradizione nazionale prevalente cui esso fa storicamente riferimento, come di mostrano le diverse «storie costituzionali» degli stati.

In ogni caso, uno stato democratico non può essere indifferente ai grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica, quali quelli delle libertà civili e politiche, della convivenza dialogica, del rispetto delle procedure per il consenso ecc. A questi e ad altri valori e beni comuni fa riferimento lo stato di diritto e lo stesso potere pubblico statale. Dunque lo stato democratico è laico per la sua non-identificazione con qualsivoglia «visione del mondo», ma non è affatto «neutrale» nei confronti dei suoi valori fondanti. Laicità dello stato in tutte le sue istituzioni (fino al consiglio di quartiere) è dunque esercizio costitutivo e reciproco di promozione e tutela (tuitio) del diritto e di positiva valorizzazione di tutti i soggetti in campo, mediante il coinvolgimento nella relazione di riconoscimento. Solo il riconoscimento rigenera continuamente le identità ponendole al riparo da ogni integralismo, mentre impedisce che le differenze portino a esclusioni conflittuali. Una tale laicità domanda poi agli organi statuali l’esercizio equo dei poteri di garanzia tesi a perseguire instancabilmente il «com-promesso nobile», cuore dell’azione politica, che ha nel popolo il suo arbitro insindacabile e mai surrogabile da alcuna auctoritas che si pretenda interprete avanguardistica dei bisogni della gente. A questo punto la società post-secolare e post-moderna deve porsi con coraggio una seconda questione centrale. Non la introdurrò a partire dalla troppo discussa categoria di verità, perché voglio accogliere, sia pure come ipotesi di lavoro, l’istanza, oggi cara a molti, che «la costituzione dello stato liberale sappia provvedere al proprio bisogno di legittimazione in modo autosufficiente» senza dover far ricorso a premesse unificanti di tipo metafisico, religioso o etico. In questa ipotesi, che cosa diventa un esercizio concreto della laicità, rispettoso della relazione costitutiva e insuperabile di identità-differenza nella quotidiana convivenza di persone e soggettività religiose e agnostiche di vario genere e grado? Quali prerogative debbono essere conseguentemente assegnate alle istituzioni costituzionalmente normate?