In occasione della Festa del santissimo redentore del 18 Luglio 2004, il discorso del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia.
Pluriformità nell’unità

1. Uno si prende cura di noi
Fedele ad una tradizione tenace e vitale, ancora una volta questa sera il popolo cristiano di Venezia guidato dal Patriarca, dalle Autorità civili e militari – che ringrazio di cuore -, dal presbiterio cittadino e, in modo particolare, dai rappresentanti del Capitolo di San Marco e delle nove Congregazioni del clero, si raduna per sciogliere il voto al suo Redentore. Come ci ha ricordato il profeta Ezechiele, abbiamo deciso di convenire nell’amata Basilica ove Gesù Cristo «passa in rassegna le sue pecore e le raduna da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine» (Ez 34, 12).
Tutti noi percepiamo una forza centrifuga che sovente ci allontana gli uni dagli altri e talvolta da noi stessi. Abbiamo bisogno di essere salvati. Tanto più che i «giorni nuvolosi e di caligine» (cfr Ez 34, 12) non mancano neppure nei nostri tempi.
Eppure c’è Uno che si prende cura di noi. È appunto il Redentore, vero Dio e vero uomo, Crocifisso e Risorto per noi e per la nostra salvezza. «Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34, 11). Gesù è l’amore personificato di Dio. Come afferma il Santo Padre «abbiamo affidato la nostra vita a Cristo, che ci ha amato per primo e che, come Buon Pastore, ha sacrificato la sua vita per noi» .
Perché questo amore potesse raggiungere ogni persona di ogni tempo e di ogni luogo, Gesù Cristo ha dato vita ad una comunità di uomini e di donne che attingono la piena riuscita della propria esistenza «alla fonte viva del Redentore» (Preghiera di Colletta).
Il volto della Chiesa è missionario e per questo la comunità cristiana non cessa di proporre a tutti gli uomini che incontra e con cui condivide “il mestiere di vivere” il provocante invito che Gesù rivolse al giovane ricco: «Se vuoi essere compiuto…» (cfr. Mt 19, 21).
È la strada che il Patriarca ed il Consiglio episcopale hanno voluto ribadire nella Lettera di indizione della Visita Pastorale, che prenderà l’avvio il 5 novembre 2005, ma alla quale ci stanno già preparando i passi tracciati in vista dell’Assemblea ecclesiale del 10 aprile 2005.
Un’occasione provvidenziale offerta a tutti i fedeli del Patriarcato – sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi, famiglie, adulti e giovani, studenti lavoratori e universitari, anziani e ragazzi… – di darsi reciproca testimonianza della redenzione operata dal Pastore buono che ci salva «dal contagio del male» e «custodisce l’opera della Sua misericordia» (Preghiera di Colletta).
Una strada percorribile da tutti, aperta alla libertà di ciascuno, in qualunque situazione si trovi. Con forza ce l’ha richiamato l’apostolo Paolo nella Seconda Lettura con quel “crescendo” dirompente: «mentre noi eravamo ancora peccatori (…) quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio Suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la Sua vita» (Rm 5, 6.9-10).
Il «molto più ora» (Rm 5, 10), con cui San Paolo connota la redenzione è la vita definitiva di cui già adesso possiamo cominciare a godere: «chiunque crede in Lui ha la vita eterna» (cfr. Gv 3, 16). Non solo nell’al di là, ma qui ed ora. Le comunità cristiane infatti, nonostante i loro limiti, costituiscono la reale caparra della vita eterna, poiché in esse è già presente l’esperienza della salvezza che dura per sempre, anche oltre la morte.

2. Liberi di agire nella storia
Quale è la garanzia che questo annuncio di redenzione è vero? Dove noi uomini del Terzo Millennio possiamo poggiare la nostra speranza perché non resti delusa (cfr. Rm 5, 5)? Come rintracciare i segni inequivocabili di questa «guarigione» per poter veramente credere in Lui (cfr. Gv 3, 15)? La liturgia risponde con il Prefazio: abbandonandoci al «potere regale di Cristo Crocifisso».
Anche noi, come i contemporanei di Gesù, siamo tentati di proiettare sul Regno di Dio l’immagine di una sorta di superpotenza mondana che finalmente sappia imporre il paradiso su questa terra. Invece la caparra della vita eterna non può essere identificata con l’istaurarsi meccanico del Regno di Dio nel nostro mondo. Il Regno certo è già presente ma non ancora in forma compiuta. Ma questo già e non ancora fa risplendere la vera natura del potere regale con cui il Crocifisso «dona all’uomo il senso della gloria rinnovando l’universo» (cfr. Prefazio). Egli propone il Suo Regno alla nostra personale libertà.
La redenzione è un fatto ben radicato nella storia non perché abbia già concluso lo snodarsi delle alterne, umane vicende, ma perché mette l’uomo in condizione di aver parte direttamente all’opera della sua integrale liberazione. In attesa che il Regno si compia con il ritorno di Cristo il Redentore spezza le catene di ogni automatismo e libera la libertà dell’uomo sempre comunque in azione.
Il Dio di Gesù Cristo si compromette con i bisogni di ognuno di noi e con la storia dei popoli. La “carne” in cui l’avvenimento di Gesù Cristo oggi si rende incontrabile nella Sua Chiesa è la storia stessa, intesa come trama indeducibile di circostanze e di rapporti personali e sociali. La biografia di ognuno e la storia di tutti sono il palcoscenico su cui si intreccia l’azione dei protagonisti del gran teatro del mondo: Dio, gli uomini, il maligno. In maniera diversa questi attori sono liberi e siccome la libertà non è definibile se non nel suo concreto attuarsi la biografia e la storia non sono un processo in cui si realizza un’idea assoluta, astratta e previamente determinata. Il crollo assordante delle ideologie che hanno profondamente insanguinato il XX° secolo è stato giustamente definito come la “fine della storia” intesa in questa chiave utopistica.
Il Signore Gesù, verità vivente personale, non cessa di donarsi alla libertà di ogni uomo rendendolo attore nella storia. Capace cioè di affrontare gli eventi e di costruire rapporti, da quelli primari – la famiglia – a quelli comunitari e sociali – i corpi intermedi, spesso così vivaci nei nostri quartieri e nei nostri paesi – per giungere fino alle istituzioni del governo locale, nazionale e internazionale.
L’uomo contemporaneo, che ha fatto della libertà il suo più alto emblema, si troverebbe a casa sua nella Chiesa se ne scoprisse questa natura profonda di luogo suscitatore di libertà perché generato a sua volta dalla libertà del Dio Unitrino. La testimonianza dei nostri padri, in particolare dei numerosi santi delle nostre terre, urge i cristiani di Venezia a documentare che essi sono «liberi davvero» (cfr. Gv 8, 36).

3. Una transizione tumultuosa
La caduta del muro di Berlino che ha segnato simbolicamente la fine dell’idea utopistica di storia preparata da tutta l’epoca moderna, si è paradossalmente prodotta quando il mondo si stava economicamente e tecnologicamente organizzando come una realtà globale. I non pochi avvenimenti di segno negativo verificatisi dall’89 in avanti – la prima guerra in Iraq, la guerra in Afghanistan, l’11 settembre 2001, la seconda guerra in Iraq, l’11 marzo di Madrid, l’escalation del terrorismo fondata sulla controfigura nichilista del martire (l’uomo-bomba), l’impasse radicale in Terra Santa, il permanere delle tante guerre dimenticate, la tragedia dell’Africa subsahariana, il dirompente affacciarsi sulla scena mondiale dell’India e della Cina… e si potrebbe continuare ancora a lungo – ci pongono di fronte ad una fase geopolitica inedita costringendoci ad interrogativi non di rado angoscianti. Cosa viene chiesto a noi quali liberi co-attori della storia in questa fase spesso tumultuosa? Come interpretare questi nostri tempi?

4. Spiegazioni insufficienti
Le non poche analisi a disposizione offrono stimoli e ragioni, ma spesso danno l’impressione di non saper cogliere le radici ultime di questa transizione epocale. Mi limito a due temi.
La tesi che oggi sia in atto un incontro-scontro di civiltà non spiega tutto. Anche quando a sostegno di tale tesi si mette in campo la convinzione che oggi saremmo di fronte al riproporsi, sotto nuove forme, delle antiche guerre di religione. È questo un giudizio che fa leva sul tragico fenomeno del fondamentalismo religioso senza coglierne la natura ideologica. Il fondamentalismo religioso è l’esito dell’azione che l’ideologia compie sulla religione quando penetra in essa e come un parassita corrosivo se ne impossessa. A questo gravissimo rischio gli uomini delle religioni prestano il fianco quando riducono la forza critica della fede che sempre abita in esse, purificandole.
Fede e religione sono invece inseparabili.
Come la fede non può mai prescindere dalla religione perché l’individuo, «uno di anima e di corpo» (GS, 14), è costitutivamente immerso in società e normalmente la esprime attraverso i riti e i costumi dei diversi popoli cui appartiene, così la religione, per sua natura, non può mai svincolarsi dalla tensione alla verità trascendente su Dio e sull’uomo cui incessantemente la fede la chiama. Allora lo scontro di civiltà, se esiste, non è provocato dalle religioni, ma dalla loro riduzione ideologica. L’ideologia spezza il legame fede/religione e piega la religione ai suoi fini che non sono mai privi di menzogna perché nascondono la loro radice.
Parlare ottimisticamente di incontro o pessimisticamente di scontro di civiltà e di religioni può così diventare involontariamente ideologico.
Ad un esame accurato appare incapace di spiegare interamente la fase storica in atto anche la critica alla globalizzazione economica e tecnologica oggi imposta dalla mondialità delle reti di comunicazione. L’inaccettabile tragedia della miseria, dell’ingiustizia e dello sfruttamento in tutte le sue forme, ma soprattutto in quelle endemiche del sud del pianeta, in particolare dell’Africa sub-sahariana, va drasticamente combattuta, ma non sembra possa essere fatta meccanicamente dipendere – come non poche e documentate analisi hanno mostrato – dalla globalizzazione in se stessa. Anzi in proposito sono da evitare derive utopistiche che ripropongano, sotto mentite spoglie, una storia intesa come l’attuarsi di un assoluto razionale in cui per giunta i buoni e i cattivi siano manicheisticamente sempre gli stessi e anche i più complessi ed imprevedibili avvenimenti vengano ridotti ad una ossessiva conferma dell’ “idea” aprioristicamente posta come chiave interpretativa.

5. Il coraggio dell’unità
Come vivere allora criticamente ed attivamente la fase storica in atto? Bisogna ritornare con umiltà al dato reale. Cosa ci indica? Popoli che fino a qualche decennio fa potevano avere contatti e scambi economici, politici e culturali limitati, sia in quantità che in qualità, sono chiamati oggi, di fatto, ad un intreccio che li coinvolge direttamente e con sorprendente rapidità.
Le società contemporanee – senza in questo sostanziali differenze tra le occidentali e le orientali – sembrano non saper fare altro che giustapporre le diverse identità, senza riuscire a farle veramente incontrare. Chi dominato dalla paura si trincera dietro un’egoistica affermazione dell’identità. Altri, convinti sostenitori dell’incontro tra i differenti, fondano tale processo sul relativismo nei confronti della verità. Uomini e popoli sembrano condannati ad una sterile alternativa: rimanere ingabbiati nella propria identità o andare incontro all’altro come figure senza volto. L’esito è un contesto sociale sì multietnico, multiculturale e multireligioso, ma in cui il riconoscimento del molteplice, quando c’è, è piuttosto confessione dell’impotenza del soggetto (singolo o popolo) nei confronti dell’unità. Siamo sempre più spettatori allarmati ma rassegnati di società profondamente divise se non disintegrate.
Né basta allo scopo accostare etnie, culture e religioni l’una all’altra, elaborando pratiche e dottrine basate sulle categorie della tolleranza e dell’integrazione calcolata, facendo leva in maggior o minore misura sul principio di reciprocità. Questi fattori sono necessari, almeno in questa fase, ma appaiono insufficienti. Si impone come improcrastinabile l’urgente compito di costruire una nuova civiltà su scala mondiale. Una vera civitas per l’umanità che promuova con decisione una pluriforme unità. Essa ha necessariamente bisogno di un nuovo governo mondiale che non potrà essere semplicemente lasciato ai progetti – pur necessari – dei Capi di stato delle maggiori potenze e neppure allo spontaneo ribollire di movimenti anti-globali, anche se portatori di istanze di pace e di giustizia.
Da dove attendersi, allora, questa nuova civiltà dell’umanità foriera di un’autentica vita buona a livello personale e sociale?

6. Verso un “meticciato di civiltà”?
Per suggerire i criteri di un percorso che ci possa mettere sulla strada della realizzazione pacifica di questa nuova civiltà vogliamo qui indicare, tra i tanti, due elementi fondamentali.
Fra poco, nel Prefazio ci rivolgeremo a Dio dicendo: «Tu rinnovi l’universo e doni all’uomo il vero senso della tua gloria». Il primo criterio che richiamiamo con umiltà ma con forza, sulla scorta del lungo ed articolato magistero sociale alla Chiesa, può essere indicato con una celebre affermazione del Cardinal De Lubac secondo la quale l’uomo può costruire una società senza Dio, ma questa finirà per essere una società dell’uomo contro l’uomo.
Dio guida la storia. Con la Sua libertà ne è il primo grande artefice. A questa nuova fase di civiltà è un Padre che ci chiama. Al di là delle contraddizioni e degli errori e disposti ad un costruttivo sacrificio gli uomini debbono riconoscere che Dio è la base della «speranza che non delude» (cfr. Rm 5, 5), come ci ha detto la liturgia di oggi.
Non a caso, finita la storia utopisticamente intesa, uomini di tutto il mondo tornano alle religioni. Esse lasciano alla storia, cioè alla libertà e agli avvenimenti, tutti i loro diritti, radicando il presente nella memoria feconda del passato mentre lo aprono al futuro. Al singolo e ai popoli è di nuovo consentita la pratica della vita buona che l’idea utopistica di storia aveva totalitariamente impedito.
Affrontando con vigore il ritorno massiccio del sacro l’Europa può trovare nelle sue radici cristiane la via della purificazione da ogni relativismo e sincretismo religioso.
Il secondo fattore in grado di favorire la pluriforme unità di una nuova civitas mondiale è la fiducia nella comune appartenenza di uomini e popoli all’unica famiglia umana. Tutti gli uomini hanno in comune una esperienza elementare legata alla dimensione degli affetti e del lavoro che attraversa ogni diversità di razza, di cultura e di religione. Questo incoercibile dato di fatto non può essere negato, anche se il ricorso alla categoria di natura umana spaventa molti. Ma la comune natura umana non è da intendere come un nucleo monolitico da rinvenire dopo aver eliminato le diversità quasi fossero incrostazioni secondarie.
Questo atteggiamento culturale è l’esito superficiale del presuntuoso progetto della modernità che si presumeva “critica” e che l’illuminismo, lungi dal soddisfare nelle sue istanze profonde, ha ulteriormente radicalizzato. La natura è sempre aperta allo scambio con la cultura e perciò incontra e valorizza le diversità di razza, di culture, di religione . È sbagliato opporre ciò che è comune a tutti gli uomini alle identità singolari perché l’individuo è sempre originariamente immerso in comunità. Un’antropologia adeguata riconosce che l’unità nell’uomo e nella famiglia umana vive nella polarità tra individuo e comunità, tra particolare ed universale. È lo stesso principio della differenza (alterità), introdotto in Occidente dalla riflessione sulla Trinità, ad assicurare l’insopprimibile carattere libero e perciò anche storico della natura umana. Per questo la nuova civiltà dell’umanità è chiamata al rispetto profondo dell’alterità che esalta la differenza. Questa, quando è rettamente intesa, non spezza l’unità che trattiene ogni diversità che non diventi sopruso ed oppressione. Uomini e popoli, culture e religioni possono concorrere a questa nuova civiltà mettendo in campo ogni particolare ricchezza relativa alle fisionomie loro proprie. Senza relativismi e sincretismi. La dinamica natura umana poggia sul principio di “pluriformità nell’unità” e non, viceversa, su quello di “unità nella pluriformità”. Se il primato tocca all’unità, allora bisogna avere il coraggio dell’unità senza temere ossessivamente le “contaminazioni”.
Il processo di mondializzazione in atto domanda un’ampia unificazione di uomini e popoli. In maniera del tutto inedita sul piano qualitativo e quantitativo, siamo chiamati a sperimentare qualcosa di analogo a quanto toccò anche a popoli antichi.
Per indicare il nuovo soggetto che nasce dall’unità dei diversi si può forse parlare di meticciato di civiltà. Il termine è presente nella tradizione linguistica antica e moderna anche nel senso figurato di “mescolanza di culture e fatti spirituali distinti”, che consegue all’influenza reciproca di civiltà che entrano in contatto tra loro.
Per limitarci all’Occidente non mancano, infatti, esempi di incontro e di fusione tra popoli e culture che hanno dato origine a nuove civiltà. Al di là di ogni rigoroso giudizio storico è possibile scorgere processi di questo genere nell’incontro tra romani e barbari, oppure alla nascita dell’America, in particolare di quella figlia dell’evangelizzazione spagnola. Ma, forse, il più significativo esempio di questo meticciato di civiltà, nato sulla base della comune natura umana, da cui scaturisce la famiglia dei popoli, ha visto la luce a partire dalla stessa Chiesa apostolica magistralmente descritta dall’affermazione di Paolo: «Non c`è più Giudeo né Greco; non c`è più schiavo né libero; non c`è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). A questa forte dichiarazione dell’Apostolo fece eco Paolo VI con la memorabile descrizione della Chiesa come «realtà etnica sui generis» .
La nuova civiltà dell’umanità non può nascere su compromessi di natura economica, giuridica o politica. Neppure su compromessi tra le religioni. Né basterà a garantirla un concetto di laicità degli stati e della loro unione mondiale fondata su un’idea astratta di neutralità, da cui sia bandita ogni soggettività religiosa, nazionale e culturale.
Per assolvere questo grave ed indilazionabile compito di unificazione che ci sta davanti occorre costruire una democrazia sostanziale su scala mondiale che riconosca l’inalienabile sacrario di ogni persona attraverso l’esercizio concreto dei diritti fondamentali individuali, sociali, politici, culturali ed economici. E bisogna dire con forza che l’articolata sequenza di questi diritti va manenuta in tutta la sua integralità. Essi stanno tutti insieme o cadono tutti insieme. A garantirli sono i due pilastri della solidarietà e della sussidiarietà.
Sulle basi qui indicate in modo inevitabilmente generale non solo ogni uomo si dovrà chinare sul bisogno di ogni suo simile – a partire dal più povero ed emarginato – ma ogni nazione dovrà chinarsi su ogni altra nazione, sospinta dalla nobile gara tesa ad edificare la civiltà dell’amore (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 33). Anche l’economia dovrà trovare vantaggio a piegare la sua logica per affermare un equo profitto, rispettoso del primato del lavoro e ancor prima del suo soggetto e pertanto capace di fare spazio al capitale umano e al capitale sociale, facendosi carico dell’effettiva crescita dei numerosi popoli ancora condannati alla miseria.

7. Redenzione come riconciliazione
«Da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine» (Ez 34, 12), quali sono anche i nostri, Dio raduna le sue pecore per condurle «in ottime pasture, per collocare il loro ovile sugli alti monti, dove avranno riposo» (Ez 34, 14), senza tralasciare «le pecore sperdute e smarrite, prendendosi cura sia di quelle malate e ferite che di quelle forti, pascendole tutte con giustizia» (Ez 34, 16).
In vista di un nuovo meticciato di civiltà l’attuale situazione geopolitica conferma un’inderogabile necessità di riconciliazione. «Ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5, 11). Per riconciliare infatti è necessaria una prospettiva unitaria comune.
Dove trovare la garanzia che questa vita buona riconciliata sia rispettosa di tutti, anche di chi si dice non credente o addirittura ateo? I cristiani non temono di affermare che essa risiede in quel singolare Uomo innalzato sulla croce perché «chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (cfr. Gv 3, 14-16). Cristo apre questa prospettiva perché «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17).

8. Il dovere dei cristiani: testimoniare
Lo stile di vita della testimonianza che fu propria del Maestro deve essere assunto in modo deciso e rispettoso di tutti da noi cristiani. L’assunzione cordiale della testimonianza come modalità privilegiata di rapporto batte in breccia ogni rischio di egemonia nel comunicare la verità. È la premessa per evitare le conseguenti egemonie: culturale, politica, economica e mediatica. Infatti, nella logica della testimonianza l’imprescindibile autoesposizione del soggetto personale e comunitario è garanzia che l’inevitabile caduta nell’ideologia non si trasformi in violenta utopia. Lasciandosi correggere di volta in volta dalle circostanze e dai rapporti, uomini e popoli potranno, per quanto è possibile, operare alla costruzione pacifica della civiltà dell’umanità, fondata sulla verità, sulla libertà, sulla giustizia e sull’amore (Pacem in terris 20).

9. Il contributo primario dei cristiani del Nord-Est
Come il quadro tracciato può sottrarsi alla critica scettica di rappresentare una nuova forma di ottimismo utopico? Ad una sola condizione: che venga assunto come stile di vita da parte dei soggetti effettivamente in campo. Concretamente da noi uomini del Nord-Est, con le nostre famiglie, con i corpi intermedi, con le istituzioni operanti sul nostro territorio. Non si tratta di inventare nuovi soggetti, né tanto meno di fornir loro programmi da attuare, ma solo di assecondare il dinamismo della loro vita reale, così come fa oggi, in questa nostra amata Venezia, il Redentore ricco di misericordia con una folla cosmopolita, espressione concreta della pluralità dei popoli chiamati ad edificare la nuova civitas dell’umanità.
La prospettiva di una nuova civitas dell’umanità spiega perché al Patriarca, ai sacerdoti, ai diaconi e ai fedeli cristiani, in unità con tutti i vescovi, i sacerdoti, i diaconi e i cristiani del Nord-Est, sta a cuore accompagnare la necessaria evoluzione del modello veneto di sviluppo verso il nuovo modello di civiltà.
Gli stessi processi dell’economia, come è stato anche recentemente rilevato, evidenziano che il Nord-Est per crescere è chiamato a vivere le dimensioni del mondo. Perciò non è astratto che i Pastori invitino uomini, gruppi e comunità che a livello civile, politico ed ecclesiale operano nelle nostre regioni a muoversi nel quadro dell’edificazione umile ma tenace di quella civiltà dell’umanità cui il Dio personale e amante ci chiama.
Ovviamente la preoccupazione centrale della Chiesa è quella di accompagnare gli uomini alla sequela di Cristo, ridando volto missionario alla parrocchia e a tutte le forme aggregative di vita ecclesiale. Nella quotidiana concretezza delle circostanze e dei rapporti intendiamo assicurare a tutti e a ciascuno che la riconciliazione promessa da Colui che è venuto a salvarci e non a condannarci (Vangelo) consente la quotidiana trasformazione degli affetti e del lavoro, nella prospettiva della vita eterna. A questa durata che vince la morte, e a nulla di meno, ci chiama, fin dall’infanzia, il nostro cuore.
Un’unica intenzione ci muove: la rigenerazione del popolo santo di Dio. Nel suo grembo, infatti, come frutto immancabile, maturano uomini liberi, capaci poi di costruire, in adeguata autonomia perfino dalle istituzioni ecclesiastiche, forme e luoghi di democrazia sostanziale che giungano fino alle istituzioni politiche, rispettosi dello scenario e non più procrastinabile dell’edificazione della nuova civiltà per l’umanità.
Il capillare lavoro dei sacerdoti e delle comunità ecclesiali sparse sul territorio e nei vari ambienti ci chiede di farci interpreti di talune esigenze pratiche dettate unicamente dall’ansia del bene comune, evitando ogni ingerenza in campi che non ci competano.

10. Il Nord-Est per la costruzione dell’Europa
Non si è ancora spenta la eco della tornata elettorale che ha coinvolto milioni di Europei. Non senza smarrimento l’atteggiamento dei più è parso quello di un’adesione senza passione alla costruzione della nuova Europa.
In tale contesto sia il passato che il presente conferiscono al Nord-Est una specifica responsabilità nel processo che condurrà alla creazione della grande Europa. Non possiamo dimenticare, infatti, che la nostra storia porta con sé l’incontro tra popoli molto diversi tra loro che sono riusciti a fondersi ed a proporre una civiltà nuova. Si pensi all’intreccio di popoli latini, germanici e orientali che hanno configurato le popolazioni nordestine.
Non è un caso che ancor oggi il Nord-Est, nel rispetto delle singole fisionomie del Veneto, di Friuli-Venezia Giulia e del Trentino-Alto Adige, si ponga come oggettivo ponte tra la Mitteleuropa, i Balcani ed il resto dell’Occidente.
Un ponte dalle robuste radici cristiane e popolari, capace di offrire all’Europa una solida base sociale, fatta da una fittissima rete di corpi intermedi, senza la quale i progetti politici ed economici rischierebbero di non trovare interlocutori.

11. Politiche familiari
A questo scopo è necessario ricordare a tutte le autorità democraticamente elette l’obbligo morale di adottare adeguate politiche familiari che permettano di affrontare con decisione e generosità le gravissime urgenze che sovrastano, in forma sempre più allarmante, l’imprescindibile e delicato istituto della famiglia.
In particolare la popolazione non può essere concepita esclusivamente in termini di “forza lavoro”. Confidare nel fatto che, di per sé, le politiche di immigrazione potranno risolvere gli ingenti problemi a cui la nostra società dovrà far fronte nei prossimi decenni a motivo della crisi demografica, significa misconoscere i dinamismi profondi dell’umana società.
Nello stesso tempo conduce a politiche miopi e non di rado disumane nei confronti degli stessi immigrati.

12. Lavoro e riposo
È a tutti nota l’instacabile e tenace laboriosità delle nostre genti, che non solo ha reso possibile la nascita del cosiddetto “modello veneto di sviluppo”, ma può costituire per il futuro una risorsa inestimabile in vista della costruzione di quella nuova civiltà cui abbiamo fatto cenno.
Non è questa la sede per declinare il principio secondo cui non può esserci economia salutare senza vita buona personale e sociale. Né per ricordare il valore intrinseco del riposo che corregge di fatto la tentazione prometeica sempre incombente su ogni umana attività.
Preme invece richiamare come lo sviluppo economico è stato ed è tuttora fattore tra i più importanti nel favorire l’incontro tra culture e popoli diversi. Le vie del commercio sono state, per i nostri padri, strada effettiva di rinnovamento e di scambio culturale.
Anche oggi le imprese del Nord-Est sono chiamate ad affrontare sempre nuove sfide. Si pensi non solo all’allargamento degli spazi della competizione economica e tecnologica, ma soprattutto all’internazionalizzazione dei processi produttivi. A questo proposito gli osservatori rilevano che il modello nordestino di azienda multinazionale si rivela più flessibile rispetto a quello di matrice anglosassone, poiché di fatto lascia più spazio alle forze locali essendo più sensibile alle richieste e alle risorse del territorio in cui opera. Ovviamente questi semplici spunti sono da noi richiamati perché siano adeguatamente sviluppati soprattutto nelle loro implicazioni antropologiche e sociali che si collegano intrinsecamente al senso cristiano dell’esistenza.

13. Suggerimenti
Chinandoci più direttamente sulla nostra realtà veneziana, insieme alla famiglia, al lavoro e al riposo meritano attenzione alcune questioni specifiche per affrontare le quali il bene comune dovrebbe rappresentare sempre di più il catalizzatore unitario dell’azione di tutte le forze politiche in campo.
È necessario un generoso sforzo da parte di tutti per superare la litigiosità in ambito politico e per costruire percorsi unitari che sappiano intercettare i bisogni reali delle persone. D’altra parte occorre, come ci insegna la Sacra Scrittura, che tutti, nella libera dialettica democratica, mantengano sempre il debito rispetto verso l’autorità legittimamente costituita.
Per quanto riguarda la nostra società civile preme ricordare alcune questioni urgenti che chiedono di mettere in pratica la nobile arte del compromesso a beneficio di tutti:
– anzitutto il problema abitativo, soprattutto per la città lagunare: occorre venir incontro ai bisogni dei giovani che intendono sposarsi. Per contribuire a questo scopo gli enti ecclesiastici del Patriarcato hanno presentato in questi giorni i primi risultati della Commissione Casa annunciata un anno fa in occasione dell’odierna celebrazione;
– un secondo elemento di grande importanza riguarda il potenziamento di una articolata unità tra Venezia e Mestre, tema su cui i cittadini si sono quest’anno pronunciati. Il referendum, al di là del risultato, dovrebbe spingere tutti a cercare le vie perché il connubio tra città lagunare e terraferma sia sempre più fecondo. Anche qui si tratta di assecondare la storia, rispettando l’identità particolare ma senza temere, nello stesso tempo, l’apertura all’universalità;
– le istituzioni culturali con sede nella nostra Città – Università, Biennale, grandi Fondazioni ed Istituti di prestigio internazionale – dovrebbero trovare nelle istituzioni politiche e nei soggetti economico-finanziari pubblici e privati un deciso sostegno. A loro volta esse sono chiamate ad interloquire maggiormente con la città reale. Forse, nel rispetto dei compiti di ciascuno, qualcuno tra questi prestigiosi enti potrebbe promuovere dei Forum di confronto fra rappresentanti delle varie istituzioni. Ambiti informali in cui con libertà i vari punti di vista sulla vita buona in Venezia potessero essere messi a confronto, al riparo di interessi di parte e di strumentali dialettiche elettorali;
– nell’ambito della promozione di civiltà è importante fare un cenno alla libertà scolastica. Il bene delle nostre famiglie e delle nostre comunità, nel rispetto delle sensibilità di ciascuno, esige che siano definitivamente superati vecchi pregiudizi. La scuola per essere veramente pubblica deve essere libera. Ciò implica che famiglie e soggetti sociali possano effettivamente diventare protagonisti della vita scolastica anche creando, se lo vogliono e ne sono capaci, istituti scolastici che trovino il necessario sostegno economico dello stato;
– infine raccomandiamo alle autorità costituite di voler continuare l’opera da loro intrapresa per creare le condizioni necessarie ad insediare in Venezia la sede di un’agenzia internazionale. Sarebbe un modo assai utile per affrontare l’emergenza antropologico-demografica della nostra città.

14. Venezia, città dell’umanità
Siamo convenuti in città per la festa del Redentore in decine di migliaia, a cominciare dalla folla riunita in questo splendido tempio – nella cui architettura il Palladio ha in un certo senso profeticamente anticipato il bisogno di armonizzare il differente così necessario alla nuova civiltà dell’umanità – per passare a quanti assiepano, stipati sulle imbarcazioni di varia natura, il bacino di San Marco e gli attigui canali, fino a giungere a coloro che da ieri sera hanno affollato le spiagge del Lido, di Punta Sabbioni, del Cavallino per ammirare la bellezza dei fuochi d’artificio, anch’essi simbolo fuggente eppure splendido di questo desiderio di armonica convivenza.
Veneziani, veneti, giuliani, friulani, trentini, altoatesini, italiani, uomini di ogni nazionalità sono confluiti ancora quest’anno in Venezia. Dire Venezia significa oggi più che mai dire il pluriforme intreccio di rapporti reciproci che a partire dalla terraferma e da tutto il Nord-Est si irraggia a tutto il mondo.
La nostra è veramente una città dell’umanità. Non solo perché da ogni dove ad essa l’umanità giunge, attirata dall’inesauribile prodigio dell’urbe che emerge dalle acque, bellezza che ha generato e non cessa di generare bellezza nelle più variegate forme dell’arte (architettonica, pittorica, scultorea, musicale, letteraria… senza disdegnare le nuove espressioni dell’umano talento come il cinema e la danza. In proposito, come non salutare con gioia la riapertura della Fenice?) Non dimentichiamo infatti che l’arte è lingua universale, capace di accomunare le storie e i temperamenti più diversi.
Ma Venezia è città dell’umanità anche perché, lungi dall’essere una solitaria città lagunare, si rivela sempre di più come punto di riferimento per uomini di ogni lingua, razza, cultura e religione. Nessuno riesce a resistere quando Venezia chiama.
Una piccola ma significativa conferma viene dalla nascita, all’interno dello Studium Generale Marcianum, del Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, promotore della Rivista Oasis. La nuova rivista, che sarà pubblicata nelle lingue italiana, francese, inglese, spagnolo, arabo e urdu vuole, da una parte, sostenere le minoranze cristiane nei paesi a maggioranza musulmana e, dall’altra, mantenere aperto il dialogo con gli uomini dell’Islam proprio sui temi legati alla nuova civitas dell’umanità. Con entusiasmo una cinquantina di personalità provenienti da svariati paesi soprattutto del vicino e medio Oriente hanno accettato di far parte del Comitato scientifico di Oasis.
Per vivere la vocazione veneziana, fedeli all’esortazione che ci rivolse il Santo Padre nella storica visita del 1985, non dimentichiamo la radice da cui siamo nati: la fede cattolica che, lungo la più che millenaria storia veneta, si è dimostrata feconda sorgente di civiltà.
«O Padre custodisci l’opera della Tua misericordia perché il popolo che Tu ami attinga i doni della salvezza alla fonte viva del Redentore». Così abbiamo pregato all’inizio di questa Eucaristia. Questo è il dono immenso che ci è stato dato. Ma questa è, soprattutto, la nostra non lieve ma affascinante responsabilità. Amen