A due mesi dal VII Incontro mondiale, l’arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola rilancia con forza la bellezza del matrimonio cristiano. E non vuole sentir parlare di “crisi”.
«C’è ancora tanta voglia di famiglia. Niente è perduto, siamo nel tempo delle grandi scelte». Spiazza ancora una volta il cardinale Angelo Scola. E lo fa, stavolta, sui temi a lui cari del matrimonio e dell’unione familiare. All’arcivescovo di Milano, che è anche membro del Comitato di presidenza del Pontificio consiglio per la famiglia e già preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per lo studio su matrimonio e famiglia, nonché autore di vari saggi sul tema, la categoria di “crisi”, in questo caso, non piace, perché non spiega tutto, anzi talvolta può perfino forviare. Così mette la sordina alle tante Cassandre che hanno già cantato il De profundis per la famiglia, ricordando che già alcuni decenni fa c’era chi teorizzava, con la “morte del padre”, la fine di quest’istituzione ritenuta ormai fuori moda.
Questo non significa, secondo l’ex patriarca di Venezia, negare l’evidenza di una febbre patologica, che cioè, fuori metafora, la «società complessa e plurale» rende difficili il matrimonio e la generazione dei figli, e ancora che la «frammentazione sociale e dell’io rischia di minare le relazioni all’interno della comunità familiare», ma da questo travaglio epocale si può uscire. Come? A due mesi dal VII Incontro mondiale delle famiglie che si celebrerà a Milano, abbiamo chiesto al cardinale di fare il punto sullo stato di salute della famiglia e sul nesso vitale che intercorre tra affetti, lavoro e riposo, che è poi il focus tematico del Family 2012.
– Eminenza, lei ama dire che «non è mai vero che tutto va male». Ma sostenere che, nonostante le difficoltà presenti, ci sia “voglia di famiglia” potrebbe, a prima vista, sembrare temerario. Non le pare?
«Non sono io a dirlo, lo dicono i numeri della quarta indagine European Values Studies sui valori in cui credono gli europei che evidenzia che la famiglia è ritenuta importantissima dall’84 per cento degli europei e dal 91 per cento degli italiani. In 46 Paesi su 47 viene messa al primo posto, precedendo aspetti centrali del vivere sociale come il lavoro, le relazioni amicali, la religione e la politica. A partire da questi dati, non ci è consentito parlare in termini assoluti di crisi della famiglia; dobbiamo piuttosto chiederci da dove deriva il travaglio che la sta attraversando».
– Che ipotesi si possono fare?
«Mi pare che uno dei fattori più determinanti di questo disagio sia il modo in cui viene pensata e praticata la relazione di coppia, il rapporto uomo-donna. Molto è cambiato in quest’ambito negli ultimi decenni. Basti pensare alla cosiddetta “rivoluzione sessuale”, alla prassi della contraccezione e al cammino che ha portato all’emancipazione femminile. Persino la “differenza sessuale”, che è una dimensione intrinseca all’io, è stata messa in discussione. Come sempre capita quando si verificano fenomeni di forte e rapida mutazione, l’assestamento crea disagi, chiede tempo. Solo oggi, in certi ambiti del femminismo, si incomincia ad affrontare la questione in termini innovativi, proprio a partire dall’insuperabilità della “differenza sessuale”. Questo ripensamento potrebbe essere il punto di partenza per affrontare le contraddizioni e le “anomalie” che oggi si sono create nel rapporto uomo-donna e che, a mio avviso, stanno anche alla base del travaglio della famiglia. Intendiamoci: sto parlando di difficoltà che occuperanno i prossimi decenni, legate al grande smarrimento antropologico di questo inizio di millennio».
– Non si tratta allora di una crisi irreversibile, ma di un disagio forte che preannuncia qualcosa di nuovo. Per dirla con il filosofo Massimo Cacciari, «si vive in una società che potrà dar vita ad aperture imprevedibili, a opportunità positive, o a catastrofi»?
«L’uomo del terzo millennio è esposto a una sorta di scommessa. Pervaso e travolto dal moltiplicarsi di fenomeni inediti come la globalizzazione, la civiltà della Rete, il progresso delle neuroscienze e delle biotecnologie, il meticciato delle culture, è chiamato a scegliere, e non può non farlo, che cosa vuole essere: un io in relazione, oppure, come sostiene qualcuno, il puro esperimento di sé stesso? La partita decisiva si gioca qui».
– Da sempre la Chiesa ha proposto la “convenienza” e la bellezza del matrimonio cristiano, ma mai come oggi l’istituzione matrimonio è in crisi. Lo dicono i dati su separazioni e divorzi. Che fare, allora?
«Dovremmo essere tutti invitati e nobilmente provocati a riconoscere un fatto: la famiglia è “un universale sociale e culturale”. Un autorevolissimo antropologo, certamente non sospetto di cattolicesimo, come Claude Lévi-Strauss affermava che “un’unione socialmente approvata tra un uomo e una donna e i loro figli è un fenomeno universale presente in ogni e qualunque tipo di società”. A questo “universale” si addice propriamente il nome di famiglia: altre forme di convivenza potranno ricevere altri nomi, ma non si possono chiamare famiglia. Come in modo insuperabile ci ha ricordato la Redemptor hominis, il cristianesimo è il giocarsi di Dio con la nostra storia per svelare pienamente l’uomo all’uomo. Allora il sacramento del matrimonio è la realizzazione piena e “con-veniente” di questo “universale sociale”, per utilizzare l’azzeccata definizione dell’antropologo francese. In una società plurale come la nostra, i cristiani sono chiamati a documentare questa convenienza con la loro testimonianza compiuta. Ciò implica, tra l’altro, una capacità di abbracciare le famiglie ferite per condividere la loro prova».
– Nel frattempo la politica detta i cambiamenti e le nuove regole anche rispetto al matrimonio e al suo eventuale scioglimento. Il nostro Parlamento, proprio in questi giorni, sta discutendo sul cosiddetto “divorzio breve”, che il Governo Zapatero, in Spagna, ha già approvato nel 2005…
«Mi sembra un passo decisamente sbagliato. “È dalla pazienza che si misura l’amore”, dice il poeta Milosz. Normalmente un matrimonio domanda ai coniugi molto coinvolgimento reciproco e tempo di preparazione. Quando va in crisi, pensare di eliminare il problema sbarazzandosene il prima possibile è, oltre che un’illusione, una mancanza di responsabilità verso sé stessi e, spesso, verso i figli. Seppellire frettolosamente una relazione, per quanto dolorosa possa essere, non è una buona premessa per costruire il futuro. Su questa delicatissima materia voglio aggiungere una considerazione: ogni istituzione deve attenersi rigorosamente a ciò che le compete e a ciò che è effettivamente in suo potere. Lo Stato, come istituzione, deve registrare l’orientamento prevalente che si manifesta all’interno della società civile. È questa, per esempio, la tesi di Habermas. Insomma, lo Stato non è chiamato a gestire la società civile, ma a governarla. Si tratta di una distinzione fondamentale, che viene troppo spesso dimenticata, con il grave rischio di imporre alla società scelte ideologiche».
– Lo stesso discorso può valere anche nei confronti del “registro delle coppie di fatto”, già istituito in alcuni Comuni…
«Sì, ovviamente. Generare e riconoscere veri e propri diritti soggettivi non è oggetto proprio di provvedimenti amministrativi: questo è il compito del potere legislativo. Mi pare che operazioni di questo tipo possiedano una preoccupante connotazione ideologica che, nel caso in questione, contraddice la stessa Costituzione italiana, che all’articolo 29 afferma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Viviamo in una società plurale, e ci confrontiamo con “mondovisioni” diverse, ma proprio per questo siamo chiamati tutti, come cittadini, a proporre il bene comune circa le questioni fondamentali del vivere. Così i cristiani, e anche molti non credenti, pienamente convinti della forza dell’“universale sociale” che è la famiglia, propongono a tutti questo dato e, in ogni caso, sostengono la necessità di chiamare ogni cosa con il proprio nome. Il nome famiglia non si addice ad altre forme di convivenza. Ostinarsi a utilizzarlo confonde e finisce con lo svuotare i preziosi fattori costitutivi della vera famiglia».
– Nota forse un timore, un deficit di testimonianza in questo senso?
«Sì, anche tra i cristiani, in nome di un frainteso concetto di libertà, si accetta una posizione neutrale. Si dice: io tengo alla famiglia, ma lascio liberi gli altri di agire come meglio credono. Questo atteggiamento è la morte del dinamismo sociale. Infatti, più la società è plurale, più ho il dovere di proporre, sottolineo “proporre”, ciò che reputo decisivo per la vita buona – in questo caso il matrimonio e la famiglia – in vista di un confronto appassionato e di un possibile reciproco riconoscimento. A noi è chiesto di proporre il bene della famiglia e del matrimonio».
– Da tempo i cattolici denunciano l’insufficienza di politiche di sostegno alla famiglia. Cambiano i Governi, ma il risultato è lo stesso. Perché in Italia è così difficile promuovere politiche sociali pro-famiglia?
«L’assenza di politiche sociali e culturali in favore del bene prezioso della famiglia è grave tanto quanto l’impegno disatteso nei confronti della libertà dell’educazione. Sono due grossi handicap che l’Italia si trascina da tempo».
– E ora con la crisi dell’economia tutto è ancora più difficile…
«Certo. Ma una volta di più la famiglia sta dimostrando la centralità del suo ruolo sociale e anche economico, fungendo da ammortizzatore rispetto alla crisi in atto. Moltissime famiglie stanno affrontando con estrema dignità, e anche con maggiori sacrifici rispetto al passato, la grave situazione della mancanza di lavoro. C’è un senso di responsabilità nel nostro Paese che più in generale denota, contrariamente a quanto vanno dicendo alcuni, la grande nobiltà della nostra società civile. Per capacità di costruire relazioni, partecipazione e solidarietà, lo dico senza timore di essere smentito, siamo i primi d’Europa».
– Una certezza di giudizio che proviene anche dall’esperienza pastorale?
«È così. Nella diocesi di Milano, come già mi era capitato a Venezia durante la Visita pastorale, incontro comunità con una grande vitalità che nasce dal basso, una straordinaria passione di donare tempo ed energie per gli altri. Un ricordo, per tutti: nella cittadina di Caorle, che in inverno ha sì e no 5 mila abitanti, si contano 70 diverse associazioni di volontariato. Certo, spesso una simile vitalità sociale coesiste con gli egoismi e le resistenze, per esempio, nei confronti del fenomeno degli immigrati che bussano alle nostre porte, ma c’è una ricchezza che la politica non ha ancora saputo interpretare».
– La perdita del lavoro e la disoccupazione giovanile minano pesantemente la stabilità delle famiglie italiane. Quanto pesa la crisi nella paura di fare famiglia oggi?
«Sarebbe facile e demagogico rilevare solo questo dato, peraltro dolorosissimo. Penso che si debbano anche comprendere fino in fondo le trasformazioni radicali in atto nel mondo del lavoro, che ne intaccano la sua stessa concezione».
– Allude alla fine del cosiddetto posto fisso?
«Anche. È fuori dubbio che la precarietà lavorativa sia distruttiva, e che la mancanza di prospettive incida sulla volontà di un giovane di fare famiglia, spingendolo a forme più precarie e disimpegnate di convivenza. Però l’idea del posto fisso com’era inteso dai nostri genitori, o dalla mia generazione, non esiste più. Oggi si deve parlare di “percorsi lavorativi”. In questa situazione occorre ripensare le garanzie di accompagnamento, riformare il sistema educativo prendendo sul serio un piano di scuola professionale. Si può fare l’idraulico o il costruttore di sedie in modo culturalmente avanzato e creativo. Invece che sfornare solo “dottori” a basso prezzo, l’Italia dovrebbe pensare a percorsi di istruzione professionale collegati all’Università, come si fa in tanti altri Paesi europei».
– Il Governo intende rilanciare l’economia con le liberalizzazioni. Una di queste riguarda gli orari dei negozi: non sarà la fine del riposo in famiglia e del concetto di festa?
«Partirei dalla triade saggiamente proposta nel titolo del VII Incontro mondiale delle famiglie: affetti, lavoro, festa-riposo. L’io ha bisogno di fare un’esperienza di unità per poter stringere buone relazioni. L’equilibrio psichico di una persona che affronta le fatiche del lavoro ha bisogno di vivere gli affetti e la dimensione gratuita del riposo, che ha nella festa il suo culmine. È il cosiddetto “tempo vibrato”, come lo definiva Roland Barthes, richiamandosi al benedettino “Ora et labora”. Disgregare questi tre fattori espone la società al rischio di situazioni patologiche. Se il padre riposa la domenica, la madre il lunedì e il figlio il giovedì, non avranno la possibilità di ritrovarsi insieme. Viene a mancare la dimensione del tempo condiviso, che è tempo per la relazione con Dio e con gli altri. Creando condizioni per cui il riposo festivo diventa individualistico, frammentato, abolendo di fatto il senso della domenica, noi annulliamo l’efficacia stessa del riposo. Perciò, senza demonizzare i grandi centri commerciali, mi chiedo: serve davvero trasformare la domenica in giorno feriale? Ne guadagneremo qualcosa? ».
Alberto Laggia