SCOLA 2010 – Oggi e nei prossimi giorni, fino al 31 dicembre, verranno riproposti testi salienti che il Patriarca ha pronunciato in occasioni di particolare importanza nel corso del 2010.
Il primo intervento è quello che il Patriarca ha enunciato mercoledì 25 agosto al XXXI Meeting di Rimini. Qui di seguito sono disponibili video e testo:
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Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
“DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITA’”
1. Desiderio di Dio e realtà
Molti di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi Wachowski. Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di tanti libri.
Ad ogni modo, in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: “Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.
Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto!
Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io.
E Dio che c’entra?
Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» [1]. Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.
Il termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore. Il cuore quindi è ciò che ci permette di volgerci con affetto a ciò che non si possiede. Soprattutto alle cose grandi!
E cosa c’è di più grande di Dio?[2] Quella realtà di cui non si può pensare niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).
Come ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano, teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria di Dio è immortale?[3] Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé: senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!
Infatti, ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un male.
2. Come riconoscere Dio che ci parla?
Fino a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, giungendo anche ad affermare che la sfera religiosa sarebbe del tutto sparita dalla società. Oggi, se si eccettuano taluni tentativi di elaborare un “nuovo ateismo[4] , giudicati dai critici come più stravaganti che oggettivamente pertinenti, siamo di fronte ad una grossa sorpresa: Dio è tornato. Anzi, osserva il sociologo Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc .[5]
Quella che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità, un’altra, forse più adeguata, formulazione (utilizziamo la parola post-modernità nel suo significato più semplice, per indicare il nuovo mondo che si sta spalancando davanti a noi dopo la caduta dei muri (1989), un mondo che presenta una forte discontinuità con il precedente, cioè con la modernità). Oggi la domanda cruciale non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?” E quindi: “Come Dio si comunica a noi così che si possa narrare Dio, e comunicarlo in quanto Dio vivo all’uomo reale che vive nel mondo reale? Come nominare questo Dio perché l’uomo post-moderno -cioè ciascuno di noi – lo percepisca significativo e quindi conveniente?”[6] .
Nell’ottica occidentale, influenzata radicalmente dal giudaismo e dal cristianesimo, Dio è Colui che viene nel mondo. Se viene nel mondo è distinto da esso, ma questo non esclude la possibilità che gli uomini lo colgano come familiare. Allora per parlare di Dio all’uomo post-moderno, «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso che viene nel mondo ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare»[7] . È necessario domandarsi prima se c’è una familiarità tra Dio e l’uomo ed interrogarsi su di essa perché Dio possa essere veramente conosciuto. Un problema di sempre, è divenuto particolarmente acuto nella post-modernità che non è interessata ai discorsi sui massimi sistemi, sulle mondovisioni, ma è sempre più presa dai problemi del vivere quotidiano. Per l’uomo di oggi la questione non è tanto se esiste Dio, ma se esiste cosa ha a che fare con me ogni giorno. Mi è familiare?
Ebbene la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel DNA della mentalità occidentale [8].
Se le cose stanno così – e al di là di tutte le apparenze che sembrano contraddire questa affermazione, stanno veramente così – allora cerchiamo di scoprire come la presenza di Dio ci diventa quotidianamente familiare, giungendo a colmare, in modo del tutto gratuito, il desiderio in senso pieno, sciogliendo l’inquietudine di cui parlava Agostino, rinnovando per me, per te e per tutti gli uomini, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, l’invitante saluto: “Benvenuto nel mondo reale”. In questo modo la parola desiderio acquista tutto il suo spessore, che non si lascia ridurre, come quasi sempre noi rischiamo di fare, ad una pura aspirazione soggettiva, ma vive nella sua pienezza bipolare, come il tendere con tutte le nostre forze al reale, il cui orizzonte ultimo è l’infinito e propriamente parlando Dio stesso.
3. La familiarità di Dio all’uomo
La possibilità di aver notizia di Dio e di narrare di Lui sta nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E conviene dire subito che la comunicazione gratuita e piena del Dio Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni lo dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «Dio ha reso breve la sua Parola (Verbo, Figlio, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rom 9,28). Il Figlio stesso che è «il Logos eterno si è fatto piccolo… Si è fatto bambino, affinché diventi per noi afferrabile»[9] . In caso contrario sarebbe stato impossibile andare al di là della conoscenza, anche questa confusa e non senza errori, della Sua esistenza.
Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la lingua (in senso forte) della creatura che il Verbo incarnato ha voluto liberamente assumere. È necessario comprenderne, per così dire, la grammatica. Quella grammatica che è capace di narrarci il Divino.
Così, non solo il cristiano sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ma ogni uomo, anche colui che si dice non credente, lo potrà riconoscere. Almeno nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani , quando, parlando di Abramo, dice: «Come sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Con questa stupenda espressione Dio è descritto, nello stesso tempo, come creatore ed operatore di salvezza. E l’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Infatti, nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani[10], l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20). Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti.
La notitia Dei, cioè accogliere ed ascoltare Dio che è tra noi e comunicarLo, continua ad essere possibile ed è del tutto pertinente anche alla condizione dell’uomo post-moderno[11]. Si tratta per questo di imparare la grammatica della lingua con cui Dio ci parla, cioè di considerare quali siano i luoghi essenziali dell’umano in cui continuamente si attua il Suo rapporto con noi. Quei luoghi che Egli ha assunto per dirsi all’uomo. Sono quelli attraverso i quali ogni uomo, se ne renda conto o meno, cerca di soddisfare la natura profonda del proprio cuore, di colmare il suo autentico desiderio. Ci limitiamo ad indicarne tre che ci sembrano fondamentali.
Riflettiamo sul desiderio non in astratto riducendolo alle nostre aspirazioni soggettive, ma lo esaminiamo nel suo concreto attuarsi nella nostra realtà quotidiana.
a) L’esperienza umana nella sua semplicità
Memento è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. In esso Leonard Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane gravemente ferito alla testa. Tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi. Tutti i contenuti recenti ed immediati della sua memoria svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli accumulati. Si ricorda solo quel che gli è successo prima dell’incidente. Sa da dove viene e come affrontare la vita di ogni giorno: come mangiare, come guidare, come scrivere, ma non appena si mette al volante non sa più perché è salito in auto, quando entra in un ristorante non si ricorda perché ci è andato, se incontra una persona conosciuta da poco non riesce più a ricordare di averla già incontrata. Siccome dal momento dell’incidente, che resta anche l’ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l’unico scopo nella sua vita è trovare e punire l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, determinato e consapevole del suo problema, Leonard prende ossessivamente appunti, fino a farsene tatuaggi, e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile perché ormai sa che lo dimenticherà dopo pochi minuti.
Questo film mi sembra descrivere efficacemente un tratto rilevante dello stile di vita di noi uomini post-moderni. Uno stile di vita spesso confuso nel suo desiderio di soddisfare la conoscenza del mondo reale che ha il suo vertice nel desiderio di Dio. Come il Leonard di Memento noi viviamo frammentati nella miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra vita è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Facciamo riferimento a logiche (esperienze) autonome fra loro praticamente non comunicanti, perché non integrate in un sistema di valori onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente il reale. Siamo ossessivamente attaccati ad ogni particolare, fino a tatuarcelo sul cuore. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria quantitativa nei nuovi media, ma a ben vedere questa non è la vera memoria, quella dell’uomo che li usa. Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere collocata nel piano di una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo. Ma ciò che è tipico della variante “post-moderna” mi pare il fatto che sia venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, nel quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Vale di fatto il contraddittorio principio: “tutto differente, tutto uguale”. Forse è soprattutto in questo senso che la “fine delle grandi narrazioni”[12] produce un effetto diretto e immediato nei modi di vita delle persone.
Eppure anche questa pratica di vita, che diventa poi teoria, deve fare i conti con il riaffiorare nel reale dell’inaffondabile grammatica dell’umano, attraverso la quale il Dio che si è coinvolto con la storia continua instancabile a darci notizia della sua presenza tra noi.
Non a caso alla fine del film Leonard Shelby giunge ad affermare: “Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci… Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso…”.
Sì, anche tenendo conto di tutte le obiezioni possibili, derivanti dalla complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere con Karol Wojtyła: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune dell’uomo»[13] , di ciascun uomo. Essa ne attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità, cioè la sua indistruttibile semplicità. Infatti, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità»[14] .
Troviamo qui una significativa convergenza con la dottrina cattolica sull’uomo secondo la quale l’umana natura, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali, né mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo, né gli uomini. Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noè (cfr. Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò ad uno sguardo limpido e leale sarà sempre possibile riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima comunicazione di Dio ed apre la possibilità di narrare Dio al “fratello uomo”, perché tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La permanenza di questa condizione creaturale è, di per se stessa, “testimonianza” che Dio rende a Sé stesso e, quindi, via sicura per riconoscere che Egli è nel mondo reale. Egli è il Dio con noi.
Qual è il contenuto sostanziale di questa esperienza? In cosa consiste questo primo elemento della grammatica propria della lingua con cui Dio e l’uomo si parlano?
Innanzitutto nella stessa ragione (uso qui il termine in senso generale), con la sua capacità (trascendentale) di ospitare il reale che pertanto si rivela come intelligibile[15] : L’uomo, con la sua ragione, è capace di attingere il vero che sempre fa tutt’uno con il bene ed il bello. Ma va subito aggiunto che la ragione comprende il reale restando in connessione inscindibile con la volontà. È questa, a ben vedere, la natura del cuore. In esso si uniscono conoscenza e affettività. Mediante questa struttura comune a tutti uomini il mondo reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e rinvia oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica) aprendo la strada al riconoscimento che Dio ci parla. Si intravvede in tal modo quanto sia letteralmente vero che Dio costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità che permette ad ogni uomo di ricominciare ogni mattina, affrontando circostanze e rapporti in modo costruttivo. Il memento, cioè la memoria, non è l’ossessivo prodotto della nuova forma di scrittura, che consiste nella pretesa di trattenere tutto attraverso l’ingigantirsi dell’archivio dei files dei computers, vivendo nel contempo, come Leonard, frantumati e dimentichi, di volta in volta, dell’uno o dell’altro aspetto essenziale della nostra esistenza. La memoria è quel legame tra passato e futuro reso possibile da un io che, spalancandosi completamente. sempre può incontrare il mondo reale se ascolta fino in fondo il suo cuore.
Questa esperienza comune ad ogni uomo – questo primo e fondamentale luogo della comunicazione e della narrazione di Dio – possiede due implicazioni di radicale importanza.
In primo luogo la coscienza che Dio non è “altrove” rispetto alla realtà, ma è “dentro” la realtà. E questo nel senso preciso che la costituisce qui ed ora, la crea facendola partecipare del Suo stesso essere: «Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui» (Gv 1,10). Un Dio fuori dalla realtà sarebbe un puro prodotto della nostra immaginazione. Sarebbe un nome vuoto, come spesso affermano gli uomini di oggi quando, interrogati, non negano l’esistenza di Dio. Sarebbe un Quid incomunicabile, non suscettibile di essere conosciuto da tutti gli uomini.
In secondo luogo, se Dio è “dentro” la realtà, se Egli costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana, allora nessun uomo è lontano da Dio, né, lo voglia o meno, può minimamente allontanarsi da Lui. Ovviamente non perché la bestemmia non resti sempre una tragica opzione, bensì perché la negazione di Dio implicherà sempre la censura o il rifiuto della propria esperienza umana integrale ed elementare.
Su questa base di esperienza umana comune, nel descrivere l’intervento gratuito della rivelazione in Cristo, San Giovanni può dire con verità «venne fra i suoi» (Gv 1, 11).
b) Io-in-relazione
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Farò ora brevemente riferimento ad un dato che con facilità ognuno di noi si trova in qualche modo addosso, perché fa parte dell’esperienza comune ad ogni uomo. Se ben riflette egli scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come la tensione tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la libertà del singolo in ogni suo atto. Ebbene anche attraverso questo dato antropologico essenziale Dio narra Se stesso.
Ed è per questo che nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’auto-comunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo si illumina il percorso di ogni uomo.
Per ovvii motivi di tempo ho scelto di soffermarmi solo sull’ultima delle tre polarità costitutive, quella di persona-comunità, proprio perché la nostra epoca è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione del significato della vita tra le generazioni. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità.
Nel post-moderno l’individualismo prende forme inedite e più radicali. È inteso anzitutto in senso neutro, non sarebbe né buono né cattivo, è meccanica ed ossessiva attenzione al valore singolare della persona. Anche in questo caso si tratta di un processo iniziato nell’età moderna, che però ha avuto il suo culmine nell’età contemporanea grazie all’estesa possibilità di controllo delle nascite che ha prodotto quello che un celebre sociologo francese ha chiamato l’arretramento della morte[16]. Il fatto che in Occidente l’età della morte si sia elevata di molto in breve tempo ha prodotto come effetto clamoroso, tra gli altri, il dato che il figlio sia diventato, nei fatti e nell’immaginario collettivo, fondamentalmente un individuo prodotto di una riduttiva aspirazione soggettiva (desiderio in senso restrittivo). La grave conseguenza di questo fatto è la seguente: ha gradualmente riformulato la percezione che le persone hanno di se stesse: non si sentono più anzitutto chiamate a far parte della catena delle generazioni, ma anzitutto a realizzare la propria autonomia; non si considerano più anzitutto responsabilmente inserite in un tessuto di compiti e doveri, ma piuttosto in una trama di voglie e aspirazioni (desideri puramente soggettivi), che considerano indiscutibili quanto si pretende indiscutibile il desiderio riduttivo che ha portato alla loro esistenza[17].
Le conseguenze combinate di tutto ciò sono particolarmente rilevanti soprattutto sul piano educativo. Da una parte, un insieme di logiche sconnesse rende impossibile la trasmissione di punti di riferimento coerenti (da accettare, discutere, migliorare, eventualmente respingere). Dall’altra, la frammentazione dei legami generazionali e tradizionali finisce per svuotare, riducendola a caricatura, la conquista moderna del concetto di “diritti dell’uomo”, mette in questione la stessa liceità delle dinamiche educative, almeno nella misura inevitabile in cui esse sono di natura limitativa e costrittiva. Come efficacemente sintetizza Yonnet, ogni atto educativo viene sempre ipotecato dal sottinteso rimprovero: «Se io sono solo un prodotto dei vostri desideri (desiderio in senso riduttivo), perché io non dovrei fare ciò che a mia volta desidero, ciò di cui ho voglia?»[18].
Se nel post-moderno il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene attraverso pratiche virtuose. Per educare non è sufficiente proclamare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori[19].
E questo – ecco che emerge di nuovo la testimonianza che Dio rende di Se stesso nell’esperienza dell’uomo – è possibile anche nel mondo frammentato ed esasperatamente individualista di oggi. Ancora una volta possiamo far ricorso ad un bel film per averne un’idea. Mi riferisco al divertente capolavoro Fratello, dove sei? Nei titoli viene spiegato che l’ispirazione è l’Odissea. Tre galeotti evadono alla ricerca di un grosso bottino nascosto e danno così vita ad una grande avventura on the road. Ulisse-Everett, Delmar e Pete incontrano un vecchio cieco che prevede che la loro ricerca, che non avrà come esito il milione di dollari sperato, finirà quando vedranno una mucca su un tetto. Sulla strada, simbolo del cammino della vita, scoprono i diversi tratti dell’umano, incarnati, di volta in volta, da un gruppo di fedeli che vengono battezzati in un fiume; da un nero che ha venduto l’anima al diavolo per suonare la chitarra; poi incidono una canzone su un disco rudimentale. Partecipano a una rapina con un pazzo gangster Faccia d’angelo, si fanno derubare da un venditore di bibbie. Sconvolgono una manifestazione del Ku Klux Klan. Cedono alla seduzione di tre sirene canterine. Sono coinvolti nella campagna elettorale del solito politicante disonesto in una variegata rassegna di volti e di situazioni.
Alla fine, però Ulisse ritrova l’ex moglie, Penelope (con le sei figlie), sul punto di sposarsi con un altro… Vengono ripresi dalle guardie che li hanno sempre inseguiti, stanno per essere impiccati, ma si salvano perché la valle viene sommersa dal fiume, per via di una centrale elettrica che tutto trasformerà. Ed ecco apparire la famosa mucca sul tetto. Nel frattempo erano all’oscuro dell’enorme successo del loro disco: I’m A Man of Constant Sorrow. Sì, in qualche modo va tutto a posto. E così il chiacchierone Ulisse-Clooney ha efficacemente spiegato all’America della depressione, la stupidità, il desiderio, la speranza. Si concretizzano nell’esperienza comune: una bella famiglia con qualche amico sincero, con la libertà carica di dignità e di rispetto, al di là della fragilità. Lo sbilenco Ulisse dei fratelli Coen cerca risposte. E le risposte le dà solo qualcuno, un volto presente che interloquisce con te. Qui, al di là delle mille contraddizioni, si vede bene che l’unità duale tra anima-corpo, uomo-donna e persona-società è un elemento insopprimibile della grammatica dell’umano. E che il vero nome del nostro io è io-in-relazione.
Voglio osservare che almeno un frammento di questa semplice esperienza umana resiste in ogni situazione. E a partire da esso si può sempre ritrovarla nella sua integralità e semplicità. Questo suggerisce il film Fratello dove sei? Non si potrà mai abbandonare questo linguaggio perché è quello che Dio, venuto nel mondo per essere la via alla verità e alla vita, continua ad indicarci come la lingua attraverso la quale il Creatore ci parla. Ma ogni desiderio che tesse la trama quotidiana dell’umana esperienza – il desiderio di avere la vita salva, di amare e di essere amato, di edificare la città – rinvia “più in là”, oltre il suo contenuto particolare, perché ogni circostanza ed ogni rapporto costituiscono per l’uomo che vive il reale un richiamo, sono un passo che riaccende il cor inquietum, lo tende a Dio. Del resto Omero non dice nell’Odissea: “Tutti gli uomini hanno bisogno degli dei”? Questa è la ragione per cui la Chiesa considera i desideri autentici dell’uomo validi alleati per l’annuncio di Gesù Cristo che non a caso ha promesso felicità e piena libertà (cfr. Mt 19,21; Gv 8,36b). Genialmente Gómez Dávila, forse il più grande autore di aforismi, ha scritto: «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione»[20].
c) Domanda di salvezza e di redenzione
In terzo luogo è opportuno affrontare la questione da sempre collegata alla domanda su Dio e la Sua presenza nel mondo. Si tratta, della domanda circa la fragilità umana e soprattutto circa il male, in particolare circa il peccato, il male compiuto da me. Esso, con il suo seguito di sofferenza, di dolore e di morte ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno infittito il buio dell’eclissi di Dio fino al suo grado più tenebroso[21].
Ma il dato da cui troppo spesso si prescinde è che l’esperienza umana della fragilità, della sofferenza e del male è sempre attraversata – e non può non esserlo – dalla domanda di salvezza e di redenzione. Non importa la modalità con cui questa redenzione venga immaginata o descritta. Taluni, con erronea ingenuità, continuano a concepirla come frutto delle proprie forze, come autosoteria in senso prometeico. Altri, ascoltando le sirene di certe vulgate dell’estremo Oriente, la identificano con la “fuga dalla realtà”. Né mancano coloro che tentano di convincerci che “si vive e basta”, che in verità il problema della salvezza e della redenzione non esiste. Eppure, il loro desiderio si ripropone sempre.
Forse la domanda di salvezza e di redenzione è il luogo dove si identifica in modo più evidente il suo essere frutto di un dono, la sua gratuità. Per questo, risulta decisivo riconoscere la possibilità del perdono e della misericordia, unica sorgente dell’unità della persona e dell’unità tra le persone.
Il luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma l’Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento è la documentazione e l’annuncio, parlano. Precisi sono i segni che li rendono presenti: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti, in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà. Guardare Cristo, guardare il Crocifisso glorioso è l’invito conveniente da riproporre a noi stessi e ad ogni nostro fratello uomo.
Anche chi non vive la fede in Cristo si porta dentro questo desiderio indistruttibile di salvezza e di redenzione. Anch’esso è parte della grammatica della lingua in cui Dio e l’uomo comunicano. L’esperienza della misericordia piena, il Crocifisso glorioso, costituisce, per così dire, il vertice dell’esperienza che ogni uomo può fare. Infatti, proprio in forza dell’essere perdonato l’uomo non si vede costretto all’autogiustificazione attraverso la negazione del male compiuto: il male è tale e nulla può giustificarlo. Eppure, il peccato, la cui potenza distruttiva non sfugge a nessuno, non è più l’ultima parola sull’uomo se lo si riconosce e se ne domanda il perdono. L’uomo non è ultimamente definito dall’evidenzadisperante del suo male, ma dal suo desiderio di salvezza,
Questo implica la sconfitta di ogni tentazione utopica e totalitaria. Innanzitutto perché ci aiuta a comprendere che non si dà il male assoluto: ogni giudizio definitivo viene lasciato all’unico Giudice della storia, il Crocifisso Risorto. E poi perché permette di cogliere che la redenzione è sempre un dono, mai l’esito della presunzione da parte dell’uomo di costruire sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono[22].
4. La via della testimonianza
Il percorso compiuto ha voluto delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa post-moderna e Dio, che alla fine è il Dio di Gesù Cristo. Di tali condizioni sono decisivi tanto i contenuti, quanto il metodo.
Di contenuti, purtroppo sinteticamente presentati, ne abbiamo individuati tre:
1. l’uomo (ragione-libertà) è capace di conoscere e accogliere la verità perché il reale è intelligibile e noi possiamo ospitarlo. In ogni atto umano possiamo costatare e toccare con mano il desiderio del bene, del vero, dell’uno e del bello, desiderio che muove la libertà. Questa nella sua semplicità è l’esperienza umana integrale ed elementare comune a tutti gli uomini;
2. la natura del soggetto è relazionale: l’io-in-relazione è il soggetto umano in senso pieno; perché l’io nella sua insopprimibile unità è sempre unito di due: anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità.
3. l’unità dell’io, fragile per natura e minata alla radice dall’esperienza del male, grida il bisogno di salvezza e di redenzione, a cui risponde pienamente il perdono che, per misericordia, ricostituisce l’unità dell’io con Dio, con se stesso e con gli altri.
Queste tre condizioni dell’umana esistenza ci aiutano a guardare la Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica e redentrice. Egli ci conduce al Padre, Padre Suo e Padre nostro, affinché il nostro cuore di creature passi progressivamente dall’inquietudine al riposo compiuto del cielo che già si anticipa quaggiù. Questa è la ragione della venuta di Dio nel mondo. Perciò essa giustifica l’interesse per la persona storica di Gesù Cristo agli occhi dell’uomo contemporaneo. Seguendolo si impara quella ginnastica del desiderio (Agostino) che conduce a Dio. Perché? Perché in Gesù Cristo il desiderio integrale dell’uomo, cioè il suo cuore, incontra piena soddisfazione. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo – senza il quale l’interesse per Cristo resta nominale – e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo, senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Nel nostro percorso abbiamo però anche seguito un metodo su cui ora intendo dire un’ultima parola. Domandiamoci qual è il metodo inaugurato dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? Si chiama Gesù Cristo, testimone degno di fede (cfr. Ap 1, 5), Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima»[23]. Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare»[24]. Continua a tener desto per il nostro bene l’Inquietum cor.
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la presenza reale di Dio nella famiglia umana e nella sua storia. Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile desiderio di Dio che si manifesta, magari in modo confuso e contraddittorio, nel linguaggio antropologico di cui abbiamo portato tre esempi e che ogni creatura non può, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, non continuare a parlare. Il desiderio di Dio, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri.
Lo rivelano le parole finali con cui la protagonista del film Il Concerto (di Radu Mihailenau, 2009) confessa la propria sofferta, ma indomabile ricerca del volto dei suoi genitori naturali che le era sempre stato tenuto nascosto. Il racconto coinvolge profondamente, come solo la passione per il destino umano sa fare, in una prospettiva di rinascita e redenzione che soltanto l’apertura all’infinito (qui potentemente evocata dalla bellezza della musica) riesce ad esaltare. Anne Marie Jacquet, divenuta ormai una violinista di fama mondiale, afferma: “Cerco lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada, ovunque. Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un istante, solo un istante”. Perché ho fatto ricorso a questa citazione? Per dire che il desiderio di Dio, che non è pura aspirazione soggettiva a un Dio astrattamente inteso, ma si esprime sempre in concreto nei suoi due poli – incontro tra tutto l’io con tutto il reale a cui tende -, attraverso il linguaggio dell’esperienza comune, dell’io-in-relazione e del bisogno di salvezza e redenzione, è sempre riscontrabile, almeno in suo frammento, in ogni persona. Nessuno può parlare altra lingua che questa. E questa è l’elementare forma del desiderio Dio nel quotidiano. Abita da sempre e per sempre il cuore dell’uomo. Nel caso della protagonista del Concerto si esprime nell’insopprimibile, dolorosa ricerca della figliolanza-paternità. Il dono della fede in Gesù Cristo conferma il desiderio naturale di Dio, nel momento stesso in cui, per pura grazia, trova la via maestra al suo compimento.
Questa fede ci viene donata nella Chiesa. Volutamente il nostro titolo parla di Chiesa e post-modernità, e non di “cristianesimo”. Vuole richiamare ad una dimensione più concreta e storica.
La Chiesa viva è sempre santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale, come lo chiamava Maritain. La Chiesa come soggetto cristiano personale e comunitario. Quella che, per dirla con Guardini, avviene nelle anime (persone). Ed è santa perché nasce permanentemente dal dono della redenzione: santa perché redenta. Questo soggetto può proporre – senza pretese egemoniche, lo ripeto -, anche in una società plurale e complessa come la nostra, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche. Cristo è dentro, è il Dio incarnato nel nostro quotidiano. E, a partire da queste implicazioni – ne abbiamo descritte tre di natura antropologica – ogni uomo può, in grazia e libertà, giungere fino al riconoscimento esplicito di Gesù Cristo, via alla verità e alla vita (Agostino).
Questo però domanda testimoni. La grammatica del narrare Dio può essere solo testimoniale. Chiede qui ed ora un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita, secondo la geniale intuizione di Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose»[25] . Amare Dio, ma in ogni cosa e sopra ogni cosa: questo è il punto. Perché tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3, 22).
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla, invece, in tutta la sua integrità, come metodo, cioè pratica di conoscenza e di comunicazione della verità. Così intesa essa rappresenta il terreno base da cui fiorisce ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc [26].
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli Apostoli e, soprattutto, come fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia per poi salutarLo risorto.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. Si diventa testimoni – ha ricordato efficacemente Benedetto XVI – quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo»[27].
La Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio, perché Essa è il luogo umano, il popolo che rende possibile la testimonianza come esperienza quotidiana. «Vieni e vedi». Che cosa? L’uomo nuovo: l’io-in-relazione, non un io ridotto al puro esperimento di se stesso. Come lo imparo? Anzitutto attraverso l’Eucaristia e la liturgia, luogo primario dell’amore familiare di Dio, esperienza di un sàpere, gusto, che diventa sapere. Luogo in cui è permanentemente generato il popolo nuovo, il popolo del Signore in cui ognuno è chiamato a dire non son più io che vivo (gratuità), perché ormai ho gli stessi sentimenti di Cristo (il pensiero di Cristo).
La Chiesa che ogni mattina, con il semplice segno di croce, mi ripete il saluto carico di speranza: “Benvenuto nel mondo reale!”. Questa Chiesa che ci permette la più esaltante delle esperienze umane: desiderare Dio. Questa esperienza non si può fare in solitaria come un’avventura estrema sull’impervia parete rocciosa della vita o solcando l’oceano periglioso dell’esistenza. Né si può farla in pienezza vivendo comunità che restano di fatto riferite solo a se stesse. Questa esperienza si fa solo e sempre in solidale compagnia con il “nostro fratello uomo” (Karl Barth) che, nei mille modi dell’esistenza, viene al nostro incontro. Qui si vede chi è il testimone. Colui che, condividendo di persona anche l’ultimo frammento del desiderio che permane sempre in ogni uomo, ridesta nel suo cuore la nostalgia del desiderio di Dio, cioè del compimento della propria felicità. Questa nostalgia ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.
NOTE: [1] Agostino, «Fecisti nos ad te Domine et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te », Confessioni I, 1. [2] Anselmo, Id quod maius cogitari nequit. [3] Cfr. R. Spaemann, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli, Siena 2008. [4] R. Dawkins, C. Hitchens, D. Dennet: vedi la lucida critica a questi autori di J. F. Haught, Dio ed il nuovo ateismo, Brescia, Queriniana 2009. [5] Sono le tesi dell’opera di J. Casanova, Public Religions in the Modern World, The University of Chicago Press, Chicago-London 1994; tr. it. Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2000. [6] P. Sequeri, Una svolta affettiva per la metafisica, in P. Sequeri-S. Ubbiali (ed), Nominare Dio invano? Orizzonti per la teologia filosofica, Glossa, Milano 2009, 85-116; B. Schellenberger, Von Unsagbaren reden: wie lässt sich heute Gott zu Sprache bringen?, Geist und Leben 79 (2006) 81-88; A. Kreiner, Das wahre Antlitz Gottes – Oder was wir meinen, wenn wir Gott sagen, Herder Freiburg – Basel Wien, 2006. [7] E. Jüngel, Verità metaforica, in P. Ricoeur-E. Jüngel, Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso (a cura di G. Grampa), Queriniana, Brescia 1978, 169. [8] Ibid. [9] Benedetto XVI, Omelia Natale 2006. [10] Significative le riflessioni filosofiche di R. Guardini a commento di Rm 1,19-21 nel saggio L’occhio e la conoscenza religiosa, in Scritti filosofici, II, Milano 1964, 141-153, in particolare p. 152s: «Le radici dell’occhio sono nel cuore; nella intimissima presa di posizione verso le altre persone come verso la totalità dell’esistenza: una decisione che passa attraverso il centro personale dell’uomo. In ultimo l’occhio vede dal cuore… La creaturalità può essere veduta nelle cose del mondo. Dal modo come esse esistono si rende chiara l’operazione creatrice». [11] Cfr. P. Sequeri – S. Ubbiali (ed.), Nominare Dio invano?… [12] È una formula utilizzata da J.F. Lyotard, uno dei padri, se così possiamo dire, del post-moderno, per sostenere che l’odierna impossibilità di un quadro di riferimento omnicomprensivo comune. [13] K. Wojtyla, Persona e atto, a cura di G. Reale-T. Styczeń, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, 35. [14] K. Wojtyla, Persona e atto…, 45. Cfr. A. Scola, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti 1820, Genova-Milano 2003. [15] Le scienze e in specie le matematiche, contrariamente a quanto qualcuno afferma – P. Odifreddi, G. Giorello – lo confermano. [16] È una trasformazione che è stata studiata benissimo da P. Yonnet nel suo Le recul de la mort (Gallimard, Paris 2006) che, a mio parere, avrebbe meritato maggiore attenzione nella cultura cattolica. [17] Tutto ciò ha certamente stretti legami con la cosiddetta “rivoluzione sessuale”; tuttavia, mi paiono verosimili le osservazioni di chi ha rilevato (J.-C. Guillebaud, La tyrannie du plaisir, Seuil, Paris 1998) che, dati alla mano, essa è cominciata intorno al ’65, non direttamente motivata dunque tanto da fenomeni ideologico-politici, quanto dal contraccolpo causato dalla prima generazione post-guerra: l’improvviso benessere dopo anni di sacrifici e dolore, apparso come la miracolosa liberazione da ogni male. [18] Cfr. P. Yonnet, Le recul de la mort, cit. [19] Cfr. La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Prefazione di Camillo Ruini, Laterza, Bari 2009, 11. [20] N. GOMEZ DAVILA, In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, 112. [21] Cfr. su questo Benedetto XVI, Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz. Con contributi di Arthur A. Cohen, Wladyslaw Bartoszewski, Johann Baptist Metz, Queriniana, Brescia 2007. [22] T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», in Id., Poesie, Mondadori, Milano, 1971, 383. [23] H. U. von Balthasar, Teodrammatica 3, 26. [24] Ibid., 25. [25] S. Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose», Centurie, Gribaudi 1988. [26] Cfr. G. Angelini, Prima istruzione del tema, in G. Angelini – S. Ubbiali (ed.), La testimonianza cristiana e testimonianza di Gesù alla verità, Glossa, Milano 2009, 3-20; P. Martinelli, La testimonianza. Verità di Dio e libertà dell’uomo, Paoline, Cinisello Balsamo 2002; P. Sequeri, Coscienza credente e mediazione della testimonianza. Saggio introduttivo, in M. Neri, La testimonianza in Hans Urs von Balthasar. Evento originario di Dio e mediazione storica della fede, Dehoniane, Bologna 2001, 7-20. [27] Sacramentum caritatis 85.