(tratto da “Avvvenire“, mercoledì 18 maggio 2011)

Si tiene oggi alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia (Isola di San Giorgio Maggiore) il quarto e conclusivo incontro di un ciclo dedicato a «Expo  e Chiesa: un dialogo aperto verso il 2015», promosso da Expo Milano 2015; i primi tre seminari sono stati dedicati alla  pace,  ai  cambiamenti  climatici  e  al  simbolismo  del  cibo.  L’appuntamento  odierno, con ingresso a inviti, ha per tema «Abitare il mondo domani. Quale identità sociale?» e vede la partecipazione – tra gli altri – del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia (del  quale  in  questa  pagina  anticipiamo  ampi stralci  della  relazione),  di  Janne  Halland Matlary, Giovanni Bazoli, Letizia Moratti, Giuseppe Sala, Alessandra Borghese.

Angelo Scola

Come si svilupperà  la  società  nel  futuro?  Come  dovrebbe  essere  questa  società?  Esiste  una società  ideale,  in grado  di  favorire  l’osmosi  di  culture  e  modi  di  vita?  Quali  credenze, fedi, stili di vita e abitudini l’Europa seguirà come conseguenza dell’immigrazione, della globalizzazione  e  delle  nuove  conoscenze?  Queste  sono  alcune  delle domande  cui cercheranno di rispondere le varie relazioni.
 
Sono quattro le parole chiave che compongono il tema di Expo 2015 «Nutrire il pianeta. Energia per la vita»: alimentazione, energia, pianeta, vita. Ciascuna forma di vita – è stato  detto  –  ha  bisogno  di  energia  e  l’energia viene  fornita  dall’alimentazione.  A  sua volta,   il  nesso   vita-alimentazione  incide   sullo   sviluppo del  pianeta,   unitamente all’interazione  di  una  molteplicità  di  fattori  naturali  e  antropici.  Da  questa  circolarità complessa  emerge  allora  quella  che  viene  definita  come  la  quinta  parola  chiave:  la persona che – si legge nel Memorandum – «con gli strumenti del suo vivere e del suo lavoro, contribuisce a trasformare in positivo o in negativo la natura nella quale vive».

La centralità della persona consente di pensare un uso del pianeta responsabile e capace di cura. Vale però la pena di sottolineare come tale riferimento antropologico implichi un decisivo mutamento di paradigma in campo economico e tecnologico. E viceversa: non è pensabile una riformulazione dell’assetto economico- tecnologico globale senza mettere al  centro,  non  solo  a  parole,  la  persona  e  i  suoi  legami  sociali.  È  stato  lo  stesso Benedetto XVI a ricordare, in occasione del Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare, il  fondamentale  risvolto  antropologico  della  questione.  Contrariamente  alle  visioni catastrofistiche,  che  spesso  funzionano  come  pretesto  per  giustificare  una  pericolosa inerzia politica, il Papa ha riaffermato chiaramente «l’assenza di una relazione di causa-effetto  tra  la  crescita  della  popolazione  e  la  fame»,  come  è  dimostrabile  anche  «dalla deprecabile  distruzione  di  derrate  alimentari  in  funzione  del  lucro  economico»  (n.  2).

Rifacendosi poi direttamente al n. 27 di Caritas in Veritate, il papa ha significativamente aggiunto  che  «la  fame  non  dipende  tanto  da  scarsità  materiale,  quanto  piuttosto  da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato…, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari» (n. 2).

C’è una «ecologia umana»  da  pensare,  prima  di  un’ecologia  ambientale,  dal  momento  che  il  degrado  o meno  dell’ambiente  è  strettamente  connesso  «alla  cultura  che  modella  la  convivenza umana»  (n.  9).  Per  offrire  un  modello  alternativo  all’egoismo  è  necessario  dunque ripensare la natura stessa del bisogno. Troppo spesso interpretato come diritto esclusivo al benessere, il bisogno è invece anzitutto segno di fragilità. In caso contrario il bisogno si trasforma in pretesa e diventa sorgente di dominio. Il bisogno come segno di fragilità documenta invece la necessità di reinterpretare la questione cruciale della soddisfazione umana. Lo stesso fatto per cui l’uomo non può far fronte ai propri bisogni, se non con la mediazione di una cultura del bisogno, una cultura innanzitutto pratica, quella cioè della sua  prassi  ideativa  e  lavorativa,  indica  che  il  sistema  dei  bisogni  umani  dev’essere pensato  come  un sistema  aperto  oltre  se  stesso.  In  altri  termini,  è  necessario riconsiderare   la   plasticità   dei   bisogni   umani  come   espressione   di   una   istanza antropologica che implica una duplice apertura dei soggetti umani a partire dai bisogni stessi. 

Da  una  parte,  l’apertura  di  un’intelligenza  inventiva,  che  in  qualche  modo domina, manipola, trasforma in continuazione i profili e i contenuti dei bisogni; dall’altra, l’apertura  di  una  dimensione  che  possiamo  chiamare  di desiderio,  che  esprime  la capacità  di  riformulare  continuamente  i  bisogni.  Qui  il  proprio  dell’uomo  si manifesta come  facoltà  di  porsi,  col  desiderio  appunto,  al  di  là  dell’ordine  stesso  dei  bisogni, puntando a una condizione in cui tra l’essere nel bisogno e l’elaborazione dei bisogni vi sia  un’ideale  armonia,  una  condizione  di pacificazione  dinamica.  Infatti  ciò  che  muove l’uomo  (e  solo  l’uomo)  nell’affrontare  i  suoi  bisogni  è  l’ideale  di vivere  in  un  modo equilibrato,  integrato,  giusto,  pacifico.  È  perciò  evidente,  a  questo  punto,  che  la soddisfazione  umana  implica  l’apertura  ad  una  prospettiva  di  compimento  integrale dell’esistenza,  che  non  può essere  affrontata  con  una  misura  puramente  quantitativa.

Attitudine  che  purtroppo  non  di  rado  investe  il  modo  di  concepire  l’economia  e  gli obiettivi della politica (che sovente è a rimorchio del modello utilitaristico dominante in campo economico). L’effetto, in termini antropologici, è stato ben evidenziato dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen e dal filosofo Bernard Williams: le persone finiscono di  fatto  per  non  contare  «più  dei  singoli  serbatoi  di  petrolio  nell’analisi  del  consumo nazionale di petrolio». Opporsi a questa concezione di «uomo-serbatoio » implica fare i conti  con  la  mentalità  oggi  dominante secondo  la  quale  l’uomo,  per  porre  la  propria identità, deve concepirsi in maniera puramente individuale, come uomo senza relazioni.

La  corretta  analisi  del  bisogno  e  della  sua  soddisfazione  umana  fa  quindi  emergere l’inadeguatezza  dell’interpretazione  moderna  e  contemporanea  di  chi  sia  il  soggetto umano. Secondo la rappresentazione hobbesiana dello stato di natura, l’uomo ha come unico bisogno quello di sopravvivere e come unico oggetto di desiderio il potere quale mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Al contrario, l’uomo è un essere originariamente in-relazione,  è  un  io-in-relazione. 

Occorre  allora  compiere  un  passaggio  fondamentale per riaffermare questa naturale inclinazione alla fiducia reciproca: occorre passare da un concetto  di  ragione  ridotta  a  puro  calcolo  a  un  concetto  di  ragione  come  capacità  di identificare e condividere ciò che è bene per l’uomo in quanto tale. È questa dimensione intrinsecamente  comunicativa  della  ragione  umana  a  dar  conto  del  fatto  che  l’identità umana possiede intrinsecamente, e non solo contingentemente, un carattere relazionale, sociale. Del resto, la parola comunicazione, se non viene ridotta a mero trasferimento meccanico  di  informazioni,  suggerisce  la  posta  in  gioco:  contiene  la  voce  munus,  che significa sia «dono», sia «compito». Potremmo allora dire, riecheggiando il famoso passo aristotelico della Politica: non c’è bene umano personale che non sia un bene ricevuto in dono  da  altri  e  responsabilmente  donato  a  propria  volta.  È  su  questo  concetto impegnativo  di  Koinonìa  che  Aristotele  fonda  la  città,  il  cui  scopo  non  è  la  semplice sopravvivenza,  come  dirà  Hobbes  restringendo  per  l’appunto  l’orizzonte  della  ragione, ma la vita buona che, non a caso, per Aristotele è – ad un tempo – del singolo e di tutti, oppure  semplicemente  non  è.  Questa  visione  antropologico-relazionale  domanda  di riattualizzare il concetto di riconoscimento di hegeliana memoria: l’attesa fondamentale di  un  soggetto  umano  è  infatti  quella  di  valere  qualcosa  per  qualcuno. 

Senza  questo riconoscimento del proprio valore umano, dice Hegel, l’uomo non diventa soggetto, ma rischia  di  accontentarsi  di  vivere  come  un  animale  (già  Aristotele,  in  fondo,  diceva  la stessa  cosa).  Si  può  allora  concludere  dicendo  che  il  riconoscimento  tra  uomini  è  un bene primario. Il bene del riconoscimento non è un bene tra gli altri, uno tra i contenuti buoni che possono favorire il fiorire dell’esistenza umana, bensì è quel bene umano che è condizione di possibilità d’ogni altro bene umano in quanto umano. Questa è la radice antropologica  che  dovrebbe  regolare  ogni  strategia  economica  e  politica,  anche  e soprattutto  in  relazione  alla  questione  dell’abitare  il  mondo.  L’abitabilità  presente  e futura  del  mondo  non  dipende  solo  dalla  disponibilità  di  risorse,  ma  dall’orizzonte  di riconoscimento  reciproco  entro  cui  le  risorse  verranno  distribuite.  Si  capisce  così l’insistenza  di  Benedetto  XVI  nel  dire  che  non  ci  può  essere  vera  cooperazione internazionale senza solidarietà e sussidiarietà, perché nessun aiuto umanitario, nessuna redistribuzione  di  ricchezza  è  veramente  un  bene  se  non  onora/ospita  l’umano  che  è comune  a  ciascuno  di  noi.  Appare  qui,  nella  giusta  luce,  l’apporto  che  anche  oggi  le religioni possono dare  alla vita buona, che genera pratiche virtuose,  all’interno di una società plurale come la nostra. Ciò mostra l’inadeguatezza di una concezione e di una pratica della laicità che pretendano di neutralizzare le religioni e le visioni sostantive.