Proponiamo da IlSussidiario.net un articolo di Carlo Dignola del 20 aprile 2024 sulla fotografia vincitrice dell’edizione 2024 del prestigioso concorso World Press Photo.

 


 

È stata subito battezzata “Pietà di Gaza” la foto di Mohammed Salem che ha vinto il World Press Photo 2024. È stata scattata nell’Ospedale Nasser di Gaza.

Magritte velava e copriva il volte delle sue figure, o altre volte le dipingeva di spalle, non per farle vedere di meno ma per farle vedere di più. Quei cenci avvolti sui volti, così assurdi, alludevano, con una tecnica tipicamente surrealista, al fatto che il visibile non può essere compreso senza percepire la vasta e decisiva regione dell’invisibile che lo circonda.

Restituisce una sensazione del genere la fotografia di Mohammed Salem, palestinese che vive e lavora nella Striscia di Gaza, eletta “foto dell’anno” dal World Press Photo: è stata scattata il 17 ottobre 2023, dieci giorni dopo l’assalto e la carneficina di Hamas contro i kibbutz e le postazioni militari nel Sud di Israele vicine alla Striscia. E durante l’inizio della durissima rappresaglia militare da parte dell’Idf che è ancora in corso: Salem è entrato nell’Ospedale Nasser, è sceso nella stanze – già affollate quel giorno – dell’obitorio e tra i parenti in cerca di corpi da riconoscere ha ripreso questa donna di 36 anni, Inas Abu Maamar, che stringeva al petto il corpo senza vita di sua nipote Saly, 5 anni, uccisa, assieme alla madre e alla sorella, da un missile israeliano che ha colpito la loro casa di Khan Yunis.

La bimba è avvolta dalla testa ai piedi in un bianco sudario. Ma anche la donna è coperta da un lungo vestito blu, e il suo stesso volto è nascosto da un velo e dalla piega del capo: solo nella pelle delle sue mani viene a nudo la natura umana, carnale di quei due corpi similmente devastati, e di quel gesto così naturale, così radicato nella biologia e nella nostra iconografia da farla subito soprannominare “la Pietà di Gaza”.

E in effetti di una Pietà si tratta: un’immagine di morte fatta per essere condivisa, sofferta, rifiutata. Come diceva Salvatore Quasimodo in una sua famosa poesia, giocata sull’orlo della sorpresa che ancora la guerra, ancora il sangue corso tra Caino e Abele siano lo scenario della storia e della civiltà umana: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo”. Fu scritta ottant’anni fa, ma quel tempo, ancora, è ora.

Non c’è sangue in questa immagine che arriva da Gaza, neanche una goccia, ed è proprio questa sua sottile irrealtà ad avviarla, nelle nostre menti, verso i sentieri dell’icona. A farle trascendere la cronaca, così drammatica, di questi mesi di guerra, per diventare un simbolo. Ha commentato infatti la presidente della giuria del Wpp Fiona Shields: “Una volta che la vedi, questa fotografia ti rimane in mente. È come una sorta di messaggio sull’orrore e l’inutilità del conflitto” e rappresenta “un argomento incredibilmente potente a favore della pace”. Nella motivazione del premio, la giuria ha sottolineato la cura e il rispetto con cui il reporter ha ripreso la scena, che “offre uno sguardo, allo stesso tempo, metaforico e letterale su una perdita e un dolore inimmaginabile”.

Salem quel 17 ottobre era all’Ospedale Nasser, oggi distrutto ed evacuato, per la nascita di suo figlio. Laureato all’Università di Gaza, il fotografo palestinese lavora con l’agenzia Reuters dal 2003 e ha spesso documentato il conflitto arabo-israeliano, vincendo altri premi. “Le persone quel giorno erano confuse – ha raccontato –, correvano da un posto all’altro in preda all’ansia di conoscere il destino dei loro cari: questa donna attirò la mia attenzione perché teneva in braccio il corpo della bambina e si rifiutava di lasciarlo andare”.

La parola chiave che spiega la forza di questa icona è allora proprio “inimmaginabile”: la fotografia è essa stessa, proprio nel momento in cui viene premiata e diffusa rapidissimamente in milioni di esemplari nel mondo, una sorta di pietoso sudario che copre le ferite mortali di questa guerra, che nasconde il sangue umano sparso così copiosamente in questi mesi, da una parte e dall’altra, per farci vedere qualcosa di più. Per farci vedere lo sguardo di una umana pietà che è l’unica vera “arma” contro la violenza omicida.

Quando Magritte aveva quattordici anni sua madre si suicidò gettandosi nelle acque della Sambre: nel momento in cui il suo corpo venne recuperato dal fiume, il suo volto riapparve coperto dalla camicia da notte. Non è chiaro se sia stata la corrente a velarle il viso, o se lei stessa abbia voluto coprirsi gli occhi, o se qualcuno glieli avesse pietosamente chiusi in quel modo agli sguardi: certo quell’immagine estrema e spaventosa rimase nella mente di René per tutta la vita. Spingendolo a raffigurare le emozioni più forti coprendole.

Il velo in Magritte raffigura al tempo stesso anche l’incomunicabilità ultima delle passioni, la distanza incolmabile che separa l’intimità di un corpo da quella di un altro, pur coinvolti nel gesto di uno scambio. In fondo l’immagine di Salem, sotto la linea di galleggiamento della nostra coscienza, di tutto questo ci parla.

Le foto che hanno vinto il World Press Photo Award – selezionate tra 61mila candidature, provenienti da 130 Paesi – saranno esposte fino al 14 luglio nella Nieuwe Kerk di Amsterdam, chiesa protestante oggi usata come sede culturale. Altre copie come di consueto gireranno tutto il mondo: in Italia, prima tappa a Roma, dall’8 maggio al 9 giugno a Palazzo delle Esposizioni.

 


 

Foto: Ansa