Dopo la pausa della scorsa settimana che ha visto il blog dedicarsi alla Festa del Redentore, riprende oggi avvio la proposta estiva attraverso la quale si ripercorreranno quotidianamente le attività, svoltesi durante l’anno pastorale, secondo cinque diversi filoni temateci: Famiglia, Maria, Sacerdozio, Educazione e “Caritas in Veritate”.
SACERDOZIO – Viene riproposto qui di seguito l’intervento del Patriarca pronunciato in occasione dell’Evento Internazionale promosso dal Comitato per il progetto culturale Cei, dall’11 al 12 dicembre a Roma, dal titolo “Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto“. Il card. Scola è intervenuto all’interno della seconda sessione dei lavori, intitolata “Il Dio della cultura e della Bellezza“.
1. Modernità: deicidio o eclissi di Dio?
A suo tempo Augusto Del Noce ha affermato: «L’ateismo si fa destino della modernità» dal momento che la modernità immanentista termina nella rinuncia radicale alla domanda sul senso. Anzi, insiste il filosofo, l’in-sensatezza della modernità altro non sarebbe che la prova del deicidio compiuto[1].
Ma quale Dio sarebbe stato ucciso? Ed anche: quale Dio è quello che la modernità filosofica religiosa ha affermato e difeso? Per identificarlo possiamo far ricorso ad un celebre passaggio della Lettera ai Romani in cui San Paolo, parlando di Abramo, dice: «Sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17).
L’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani, l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20).
Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti. Ebbene la modernità ha veramente ucciso questo Dio? O lo si può invece ancora oggi nominare? La notitia Dei continua ad essere pertinente alla condizione dell’uomo post-moderno[2]?
2. Eclissi e ritorno di Dio
Eclissi sembra a me la parola più adeguata per descrivere il tormentato rapporto della modernità euroatlantica con Dio. La metafora del frapporsi della luna tra la terra ed il sole esprime il carattere transitorio di tale nascondimento. Già Theilard De Chardin l’aveva evidenziato: «L’umanità ha momentaneamente perduto il suo Dio»[3].
A. La perdita di Dio
La parola eclissi per indicare questa temporanea sparizione venne usata a partire dagli anni ’50 da Martin Buber, che la pose come titolo di una celebre raccolta di saggi[4]. Che cosa intendeva Buber per “eclissi di Dio”? Con questa metafora l’esponente del pensiero dialogico certamente contestava l’idea della “definitiva” morte di Dio annunciata da Nietzsche ed affermava la possibilità che Dio stesso potesse presentarsi, anche a breve, nuovamente accessibile[5].
Abbastanza sorprendentemente, trattandosi di quella penna e di quegli anni, Buber non volle affatto parlare dei drammi storici che hanno “nascosto” la faccia di Dio e riproposto, nella loro antica formulazione ma con nuova angoscia, i temi della teodicea.
Si riferiva piuttosto a quelle movenze del pensiero moderno che, in campo sia filosofico sia teologico, hanno progressivamente oscurato il rapporto con Dio, perché hanno ridotto Dio ad un contenuto oggettivabile di una teoria, in ossequio all’epistemologia razionalistica moderna modellata cartesianamente sul rapporto soggetto-oggetto: l’intelligibile è tale nella forma di una oggettivazione operata dal soggetto. In tal modo, qualunque sviluppo teorico abbia raggiunto la riflessione umana, Dio in quanto eterno “Tu” scomparirebbe e diventerebbe sempre più difficile parlare con Dio, ricevere la sua parola e potervi rispondere.
Secondo Buber è esattamente questa la ragione per cui Dio si è eclissato: non quindi per motivi sociologici o morali e neppure direttamente teoretici, ma per un singolare difetto nell’atteggiamento spirituale fondamentale dell’uomo, che tra sé e Dio frappone la propria mentalità oggettivante, con la sua pretesa di poterLo afferrare.
Già Agostino aveva messo in guardia da questa tentazione – «Si comprehendis non est Deus»[6] – e la prima scolastica aveva un vivo sentimento dell’insuperabile funzione della “teologia negativa” per parlare di Dio senza perdere il senso del suo mistero.
Con acume Sergio Quinzio, introducendo una traduzione italiana del volume di Buber[7], denuncia il pericolo di questa interpretazione dell’esperienza religiosa in chiave decisamente soggettiva: nessuna istanza, secondo Buber, al di fuori del sentimento individuale, potrebbe giudicare in ultima analisi la realtà di un’esperienza religiosa. Il suo suggestivo richiamo all’esperienza del “Tu” e la sua critica all’oggettivizzazione si rivelerebbe quindi affine ad una dissoluzione soggettiva della tradizione religiosa in cui, per esempio, non solo il ruolo della Scrittura, ma anche quello dell’oggettività dell’etica e dell’impegno storico, verrebbe pericolosamente minimizzato. La critica evidenzia l’insufficienza della prospettiva di Buber: se l’eclissi di Dio è dovuta alla perdita del rapporto personale con Lui, non si rimedia portandosi a livello di un’incontrollabile ispirazione soggettiva, ma ritornando ai dati reali e oggettivi («le opere da lui compiute» e la possibilità di comprendere la sua eterna potenza e divinità di Paolo) che in ultima analisi permettono tale rapporto. L’uscita teologica dal secolarismo chiede di ripensare in modo unitario storia, ontologia ed esperienza, affinché si dia di nuovo relazione con il Dio di Gesù Cristo.
B. Età secolare ed eclissi di Dio
La condizione spirituale dell’eclissi di Dio è in rapporto storico con l’epocale processo di secolarizzazione in atto[8]. Senza dover qui riproporre le note precisazioni di vocabolario legate al significato proprio dei termini secolarizzazione (laicizzazione), secolarismo e secolarità[9], sono illuminanti le conclusioni dell’analisi condotta da Taylor nella sua poderosa opera L’età secolare[10].
Per Taylor il nucleo della secolarizzazione delle odierne società euroatlantiche consiste nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre. Siamo passati da una società in cui era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre»[11]. La nascita di un “umanesimo esclusivo”, in cui è diventata concepibile l’eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità terrena dell’umanità, elimina ogni possibilità di una considerazione “ingenua” della fede religiosa e apre il campo a una pluralità di opzioni. Tutti, credenti e non credenti, secondo Taylor, dovrebbero ormai far riferimento ad un nuovo sfondo “riflessivo” che ha cambiato radicalmente il peso ed il posto della religione nella nostra società.
C. Dio è tornato?
Tuttavia l’odierna età ci riserva una grossa sorpresa: in essa non solo è presente l’istanza critica nei confronti della coscienza religiosa, ma anche la riaffermazione del religioso nella vita personale e sociale[12].
È ormai noto agli studiosi che le previsioni fatte negli anni Sessanta dai sociologi e, sulla loro scorta, da non pochi teologi circa la secolarizzazione e la morte di Dio, si sono rivelate sbagliate. Per stare all’ambito teologico basti pensare a come ci appare oggi improprio il discorso di un cristianesimo che, ridotto al “mondo mondano”, parli di Dio in maniera secolare [13]. Di fronte alla smentita venuta dalla realtà oggi si parla piuttosto di società post-secolare[14], con un termine ambiguo che comunque, come ha scritto Spaemann, torna a riferirsi al religioso[15]. Più precisamente, oggi la questione della secolarizzazione ha lasciato decantare i suoi plurimi significati, mostrandone le diverse attualità. Per esempio, come suggerisce J. Casanova, oggi è più chiaro che il frutto duraturo del processo di secolarizzazione è la “differenziazione” tra sfera religiosa e sfera secolare, mentre le tesi della secolarizzazione come inevitabile “declino religioso” e come irreversibile “privatizzazione” della religione non sono più attuali. Anzi, osserva ancora Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini moderni tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc[16].
Tuttavia è innegabile che questo ritorno del sacro, delle religioni, di Dio, possiede un carattere problematico e non privo di vistosi equivoci, che hanno dato luogo a molte valutazioni contrastanti.
Se la sociologia mette in evidenza l’irriducibilità del sacro, ponendolo in relazione con l’insoddisfazione lasciata dalla modernità e con l’inconsistenza della postmodernità, tuttavia vi appare probabilmente sovrastimata l’importanza attribuita al fallimento degli ideali “moderni” nel loro rapporto con il futuro della religione e in particolare del cristianesimo. È sicuramente vero che la fine del socialismo reale, del sogno scientista, di un “pensiero forte” filosofico autofondantesi, insomma il tramonto degli “assoluti terrestri”, potrebbe riaprire lo spazio per altri assoluti di carattere trascendente[17]. È però altrettanto vero che rimane ancora inesaurito il compito di comprendere i motivi per cui l’uno o l’altro assoluto terrestre possa aver goduto, malgrado la sua interna problematicità, di tanto successo. Soprattutto, nulla assicura che questi spazi oggi divenuti liberi vengano di fatto occupati da una religiosità in qualche misura davvero teologica, e non piuttosto lasciati vuoti da un disincanto universale circa la possibilità in sé di un assoluto. Resta lo slogan con cui Gianni Vattimo riassume la significativa fase terminale della modernità, “addio alla verità”, addio a quel senso della verità forte per cui anche la fede cristiana è destinata, come tutti gli altri assoluti, a sfaldarsi[18].
Negli ambienti teologici, al momento stesso in cui ci si accorge dell’urgenza di ricominciare a parlare di Dio[19], resta marcato il sospetto nei confronti del ritorno di Dio[20], caratterizzato in modo preoccupante da due estremismi opposti e connessi. Il religioso si ripresenta sulla scena della storia da protagonista accompagnato:
a) dal grave rischio di una estrema soggettivizzazione dell’esperienza religiosa, progressivamente privata di ogni contenuto reale[21]; con cui prima si nega la Chiesa, poi Cristo, successivamente Dio, infine la religione stessa fino a rimanere appesi ad una “spiritualità” vuota di ogni contenuto effettivo e caratterizzata da un approccio fortemente individualistico al sacro[22];
b) dal carattere fondamentalista di talune correnti religiose, soprattutto quelle legate all’Islam e alla sua presenza massiccia in Europa, attraverso l’immigrazione.
Tali versioni fondamentaliste rendono più urgente la necessità di ripensare il rapporto tra religioni e società rispetto alla quale si ripropongono tendenze di “riprivatizzazione” religiosa, come documentano i sempre più frequenti dati di cronaca a tutti noti[23]. A qualsiasi fede religiosa deve essere negata ogni espressione nel comune spazio pubblico? Essa deve restare un fatto del tutto privato in nessun modo pubblicamente rilevante[24]? O, addirittura, neppure rilevabile, se si tiene conto delle quérelles circa i segni distintivi in luoghi pubblici, dal crocifisso al burka, posti paradossalmente in Occidente sullo stesso banco degli imputati[25]?
Il quadro sinteticamente tracciato pone un problema cruciale alla filosofia della religione chiamata ad interpretare l’evoluzione socio-religiosa della modernità. In particolare, per quanto riguarda la proposta dell’esperienza cristiana, ritorna l’alternativa cui abbiamo fatto riferimento: l’annuncio cristiano va effettuato diminuendo il peso della sua oggettività, cioè della sua densità ontologica, esponendosi così all’ovvia perplessità su quale sia la sorte di «Dio» una volta che il “soprannaturale” in quanto tale sia sempre più ridotto a gioco linguistico, oppure è proprio tale riduzione una delle ragioni (o comunque un grave segnale) dell’attuale perdita di rilevanza, anche soggettiva, della fede cristiana?
Un documentato studio pubblicato qualche anno fa dallo storico Philip Jenkins, La terza Chiesa (The Next Christendom)[26], ha sottolineato l’urgenza di distinguere la riflessione sulle sorti dell’Occidente da quella sulle sorti del cristianesimo
Di fronte alle frequenti diagnosi di regresso della fede cristiana e in generale di perdita di peso sociale delle religioni, Jenkins nota, con anglosassone freddezza documentaria, che tutto ciò riguarda appunto solo l’Occidente: nel resto del pianeta (Asia, Africa e in parte America del Sud) il cristianesimo sta vivendo una fase di espansione che complessivamente lo rende la religione con maggior tasso di crescita nel mondo
Questa osservazione ha il merito di porre sul tappeto due questioni: la prima, se si possa usare “la fine della secolarizzazione” per formulare delle ipotesi sul destino del cristianesimo nel suo senso universale e cattolico; la seconda, più decisiva, se il problema della trasmissione del cristianesimo non stia, soprattutto oggi, nell’assumere il linguaggio evangelico nella sua “essenzialità”, piuttosto che nella ricerca, forse ossessiva, circa il modo di tradurlo nella complessità attuale
Non si tratta ovviamente di tornare al pre-moderno, quanto piuttosto di raccogliere l’invocazione sottesa al ritorno di Dio in atto, cioè la domanda radicale circa l’identità più autentica di quel Dio a cui anche l’uomo contemporaneo non sembra in grado di rinunciare davvero. Come non cessa di affermare Benedetto XVI, la domanda di Dio incontra adeguata ospitalità nell’orizzonte del Logos-Amore, in cui la ragione, riconosciuta nella sua interiore ampiezza, la fede e la vera religione trovano il loro nesso profondo e fecondo[27]. È solo nel Dio che è Logos-Amore che riceve senso il tema decisivo della kenosi divina come modalità con cui Dio-Verità-Bene si offre agli uomini[28]. Il Dio kenotico non è un Dio debole, ma un Dio che ama e come tale si offre alla libertà dell’uomo[29]. È un Dio la cui assenza è in realtà una forma di presenza[30]: «Uno sconosciuto è il mio amico, uno che non conosco… Per Lui il mio cuore è colmo di nostalgia… Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza»[31]?
La questione del binomio eclissi/ritorno di Dio assume così un’altra più adeguata formulazione. Come nominare questo Dio oggi[32], come narrare di Lui comunicando questo Dio vivo all’uomo reale?
Nell’ottica cristiana Dio è Colui che viene nel mondo e perciò si distingue da esso senza che questo escluda la possibilità di coglierlo come familiare. Per parlare di Dio «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare. La fede cristiana vive anche dell’esperienza di Dio che si è fatto conoscere e si è reso familiare»[33]. È necessario stabilire prima la familiarità con Dio perché Dio sia conosciuto. Allora «Dio è una scoperta, che insegna a vedere tutto con occhi nuovi»[34].
3. Dio si è reso familiare
La fede cristiana sa che l’unica possibilità di narrare Iddio si trova nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E la comunicazione diretta dell’Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
A commento di questo versetto evangelico si possono leggere opportunamente le parole di Ireneo, discepolo di Policarpo che, secondo la tradizione, conobbe personalmente lo stesso Giovanni: «Dunque non è possibile conoscere Dio secondo la sua grandezza perché è impossibile misurare il Padre; ma secondo il suo amore – perché è questo amore che ci conduce al Padre mediante il Verbo –… coloro che gli obbediscono, imparano, in ogni tempo, che esiste un Dio così grande e che è stato Lui stesso da Se stesso a fondare, creare e ordinare tutte le cose»[35].
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «il Dio che si immanentizza con Gesù Cristo nel mondo non si può, a partire da quest’ultimo, né costruire (Hegel), né postulare (Baio). Viene esperito come pura “grazia” (Gv 1,14.16.17)»[36]. L’umanità singolare del Figlio di Dio ha reso escatologicamente presente Dio stesso nella storia attraverso la testimonianza dello Spirito Santo che apre ad ogni uomo, in modo personale, l’accesso al rapporto fra il Figlio e il Padre. È così che, alla luce della vita, passione, morte e risurrezione del Figlio incarnato si possono reperire, anche oggi, i “tratti inconfondibili” della presenza di Dio operante nella storia[37] o almeno gli “indizi” per cui tutti possono avere “notitia” di Dio.
L’espressione di Balthasar è molto ardita: «Dio… viene esperito…». Come è possibile che Dio venga esperito? Ritorna forse ad essere “oggetto” in qualche modo a disposizione dell’uomo? Il teologo basilese scioglie il nodo in questi termini: «Il Verbo incarnato “è venuto nella sua proprietà” (1, 11), dunque non va semplicemente in terra straniera (come dice Karl Barth), bensì in un paese di cui conosce la lingua: non soltanto l’aramaico galileo, che il bambino impara a Nazareth, ma più a fondo la lingua della creatura in quanto tale. La logica della creatura non è straniera alla logica di Dio… Gesù non è una verità immaginata, ma è la pura verità, perché egli presenta nella forma mondana la spiegazione adeguata di Dio, il Padre». E qui Balthasar aggiunge una notazione importante : «Gesù non ha avuto bisogno (per questa spiegazione) delle imagines Trinitatis» – escogitate successivamente nella storia del pensiero da Agostino ad Hegel – «l’essere mondano come tale, la sua realtà quotidiana gliene offriva più che abbastanza»[38].
Dio parla di sé all’uomo «abbreviandosi nel Verbo incarnato» (Verbum Abbreviatum)[39].
«Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rom 9,28). Il Figlio stesso è la Parola, «il Logos, la Parola eterna si è fatta piccola… Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile»[40].
Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la grammatica di questa lingua della creatura assunta dal Verbo incarnato. Grammatica che riesce a narrarci il Divino. Così il fedele sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ed ogni uomo, anche non credente, lo potrà riconoscere nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani[41].
Ovviamente, in questa sede, è possibile affrontare tale compito solo per sommi capi, quelli essenziali per comprendere quali siano i luoghi dell’umano predisposti all’incontro con il divino incarnato.
A. “Esperienza umana nella sua semplicità”
La perenne grammatica dell’umano cui abbiamo fatto riferimento attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità dell’esperienza umana, cioè la sua indistruttibile semplicità. Come dice Karol Wojtyla in Persona e atto, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità»[42].
In ossequio alla convinzione dogmatica della fede cattolica la creazione, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali; e mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo né gli uomini.
Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noé (Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò l’occhio del credente sarà sempre attento a riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima narrazione di Dio al “fratello uomo”. Tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La sua permanenza è, di per se stessa, “testimonianza epistemologica” a Dio.
Qual è il contenuto sostanziale di questa testimonianza?
La ragione stessa, con la sua capacità trascendentale di ospitare il reale intelligibile, in un nesso inscindibile con il dinamismo desiderante e insieme libero della volontà.
È il plesso (intreccio) antropologico originario in cui si uniscono conoscenza e affettività, prassi e gratuità che, in quanto plesso intenzionale, attinge il reale nella sua struttura “epifanica” o “quasi-sacramentale”. Il reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e come luogo di rinvio oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica).
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità.
B. Persona in relazione
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Tra queste bisogna soffermarsi sulle tre polarità costitutive dell’unità duale dell’io. Mi riferisco al dato antropologico essenziale che vede l’uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo- società. Anche attraverso questo dato antropologico Dio narra Se stesso e ancor più si lascia narrare nell’incontro con il testimone fedele (cfr Ap 1, 5; 3, 14), Gesù Cristo, in cui queste polarità – segnate da un insopprimibile elemento di tensione drammatica perché mettono in gioco la libertà del singolo – trovano adeguata stabilizzazione.
Non si tratta, sia ben chiaro, di un annullamento della tensione propria di tali polarità, né di un suo superamento attraverso una impossibile sintesi superiore. Cristo scioglie l’enigma uomo ma non pre-decide il dramma del singolo[43].
Si tratta piuttosto di una stabilizzazione in forza della quale, nell’incontro con il Crocifisso Risorto, Dio accompagna il cammino dell’uomo nella prospettiva, rispettivamente, del rapporto nuziale Cristo-Chiesa, della risurrezione della carne e della communio sanctorum.
Ancora una volta nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’autocomunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo, si illumina il percorso di tutti gli uomini. Così, ad esempio, nelle strabilianti scoperte della fisica, della biologia e delle neuroscienze a proposito della corporeità e della psichicità umana sarà sempre riconoscibile la dimensione spirituale costitutiva dell’humanum[44]. Il valore educativo della differenza sessuale, a sua volta, permetterà di far luce sull’importanza dell’altro e sulla sua incatturabilità[45]; mentre nella “relazione di riconoscimento”[46] risulterà più evidente il valore della socialità umana accompagnata dalla comprensione che il vero essere è relazione sostanziale con l’altro e moto di allontanamento da sé[47].
Questi elementi sono inseriti nel quadro dell’eredità moderna che, comunque definita, è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso attenua e rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione tra le generazioni del significato della vita. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità, ma impone nuove e coraggiose strade educative che chiedono la fatica di una continua riproposta. Se il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene.
Come afferma il Rapporto-proposta La sfida educativa, per educare non è sufficiente annunciare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori[48].
C. Unità e misericordia
All’interno di queste relazioni buone il linguaggio mondano in cui si è abbreviato il Verbo incarnato risuona inoltre in modo inconfondibile nel dono dell’unità e della misericordia, tracce storicamente rilevabili della caritas di Dio nei confronti degli uomini. Il peccato, con il suo seguito di morte, sofferenza e dolore, ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno portato il buio dell’eclissi di Dio al suo grado più tenebroso[49]. È perciò decisivo identificare la sostanza squisitamente divina del perdono e della misericordia, fonte unica dell’unità della persona e dell’unità fra coloro che prima erano divisi.
Analogatum princeps resta sempre il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma la prima Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosé, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento non è che la documentazione e l’annuncio, parlano i segni che la rendono presente: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti gli uomini in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà.
4. Testimoniare per conoscere e comunicare
Qual è la risposta suscitata dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? L’uomo, oggi come sempre, non può che percorrere, a sua volta, la strada del Testimone degno di fede. Di fronte a Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo, gli uomini sono chiamati a coinvolgersi. Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima»[50].
Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare»[51].
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la novità che viene da Dio. Di tale irriducibile novità però nessuno dovrà avere timore se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia, sapranno fare della loro differenza la via di una proposta umile e tenace.
Essa è propria del soggetto cristiano personale e comunitario in cui, per dirla con Guardini, la Chiesa avviene nelle anime (persone). Parliamo di un soggetto capace di assumere la dimensione ecumenica e quella del dialogo interreligioso come intrinseche alla vita di fede. Questo soggetto può proporre senza pretese egemoniche, in una società plurale, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche.
La grammatica del narrare Dio è la grammatica testimoniale che domanda un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita[52]. Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime perché la riduce, per lo più, al tema della coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla invece in tutta la sua integrità, come metodo di conoscenza pratica e di comunicazione della verità e come valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc[53].
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli apostoli e soprattutto così fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione.
Come ha ricordato efficacemente Benedetto XVI, si diventa testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» (Sacramentum Caritatis 85).
5. Alla scuola dei martiri
Il percorso compiuto ha voluto in un primo momento, più descrittivo a livello socio-culturale, evidenziare quale sia, nell’età post-secolare, lo spazio della questione di Dio e insieme l’ambiguità con cui essa si pone.
Nel secondo momento si è tentato di delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa postmoderna e il Dio di Gesù Cristo. Condizioni in cui sono decisivi tanto i contenuti, che il metodo.
I contenuti, che sono stati troppo sinteticamente presentati, sono costituiti dall’intreccio (plesso) antropologico. Ne abbiamo individuati tre:
1. capacità di conoscenza veritativa, desiderio del bene e libertà (esperienza umana nella sua semplicità);
2. soggetto relazionale;
3. l’unità ricostituita per misericordia (unità e perdono) cioè l’esperienza del male e il bisogno di salvezza.
Questa sintesi ha voluto raccogliere sia un’eredità teoretica (antropologia ontologica, non spiritualista) (1), sia un’eredità esistenziale personalista (2), espressioni di una importante tradizione antropologica, rileggendole alla luce dell’esperienza del male e della domanda di salvezza, senza le quali restano religiosamente inerti (se non ostili) (3).
Questa struttura triangolare è connessa ad una chiave di lettura della Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica. Tale scelta intende giustificare l’interesse per la sua venuta nel mondo: nella persona storica di Gesù Cristo si trovano veramente unificate e proiettate, nell’escatologia del mondo nuovo/cieli nuovi, tutte le dimensioni antropologiche. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo senza il quale l’interesse per Cristo è nominale e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto.
La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Il metodo coerente che è stato suggerito è perciò quello della testimonianza intesa come conoscenza pratica e comunicazione della verità.
La narrazione che Dio fa di Sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a Suo nome, trova così nel martirio cristiano, «col quale il discepolo è reso simile al suo maestro» (LG 42), la sua piena manifestazione.
Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi[54] e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia.
Non è un caso che il Servo di Dio Giovanni Paolo abbia voluto, come uno dei segni emblematici del Grande Giubileo dell’Anno 2000, la commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo XX°[55].
Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il Suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei Suoi figli. Una consegna di sé che vince il male, perfino quello “ingiustificabile”[56], perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide. Come Gesù prende il nostro male su di Sé perdonandoci in anticipo, così il martire abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente (verità).
Restano sempre commoventi, a questo proposito, le parole del testamento spirituale di Padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine, Algeria, da lui scritto ben tre anni prima (in anticipo) di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, chi mi avesse colpito…
Non vedo infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, “la grazia del martirio”, il doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dicesse di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam […] alla fin fine io sarò stato liberato dalla curiosità più lancinante che mi porto dentro: affondare il mio sguardo in quello del Padre per vedere i suoi figli dell’Islam come lui li vede: tutti illuminati della gloria di Cristo, anche loro frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà di ristabilire la comunione e la somiglianza giocando con le differenze. Di questa mia vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io ringrazio Dio che sembra l’abbia voluta tutta intera proprio per questa gioia, contrariamente a tutto e malgrado tutto. E..
Anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche per te voglio io dire questo grazie, e questo a-Dio, nel cui volto io ti contemplo. E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due».