BUONE RAGIONI PER LA VITA IN COMUNE – Viene proposta qui di seguito un’intervista al Patriarca pubblicata da “Vita”, venerdì 11 novembre, sull’ ultimo libro del cardinale, “Buone ragioni per la vita in comune. Religione, politica, economia” (Mondadori 2010, pag. 120, euro 17,50):
Comunque la pensiate, le parole e i ragionamenti del Patriarca di Venezia, Angelo Scola, hanno la virtù di essere sempre interessanti perché capaci di aprire discussioni e perché riescono sempre a toccare e nominare i temi veri, quelli della nostra vita reale. Studioso da sempre, saggista (centinaia le sue pubblicazioni), docente orientato all’antropologia teologica – che ha insegnato alla Pontificia Università Lateranense di cui è stato anche rettore -, ha un motto episcopale che recita: «Sufficit gratia tua» (2Cor 12, 9), “basta la tua grazia”. Il cardinale sa che questo è un motto che non esonera dal fare, ma piuttosto libera dall’esito. Infatti, la sua è vita pienissima. I suoi discorsi in occasione della festa del Redentore a Venezia, hanno sempre segnato i nodi delle sue riflessioni capaci di non negarsi mai all’attualità: il meticciato, la laicità, lo spazio pubblico e le religioni, la libertà di educazione, il rapporto tra fede e ragione nell’era della neuro-etica, il bell’amore e la sessualità. Ora, con un libro uscito da Mondadori, (Buone ragioni per la vita in comune), tocca un nervo scoperto del nostro tempo: quali ragioni per vivere insieme e quale sorgente per una moralità condivisa?
Uno dei nodi del suo libro è tremendamente attuale, quale può essere oggi la sorgente della moralità comune. Lei dice che occorrerebbe una rivoluzione copernicana,«non più alla base dell’universale politico una procedura formale fondata sull’universalità astratta dei diritti umani, ma il valore stesso dell’essere in società». Ma davvero le pare una rivoluzione possibile?
Direi che più che possibile è necessaria, addirittura inevitabile. Quello che lungo tutta la modernità è stato garantito dall’ideologia come punto di coagulo, può essere solo garantito dalla percezione che il dato sociale, il “dobbiamo” vivere insieme, è anche un bene sociale. lo penso che bisogna invitare tutti i soggetti che abitano questa società civile plurale a raccontarsi, a narrare la propria concreta esperienza dell’umano e, attraverso questo appassionato racconto e questo lasciarsi raccontare dagli altri, tendere a quello che Ricoeur chiamava “il riconoscimento” reciproco. Solo così, mi pare, possiamo trasformare questo vivere insieme da costrizione o da paura in valore positivo. In questo senso la rivoluzione è copernicana: il passaggio da un dato di fatto (che alternativa abbiamo? Farci la guerra?) a un valore riconosciuto. E può proprio essere questo l’universale politico nuovo del terzo millennio: il bene dell’essere insieme nella pluralità. Questo va contro l’individualismo neutro oggi dominante. Neutro nel senso che è un individualismo in cui ciascuno sceglie senza più alcun riferimento al bene e al male. In una società senza riferimenti, l’individualismo è fenomeno molto conflittuale. Allora chi teologizza questo individualismo assoluto postulando un neutralismo assoluto sbaglia. In una situazione così la cosa fondamentale è che io proponga tutta la mia esperienza dell’umano. Per esempio, come voi fate col vostro settimanale, ognuno dia le sue ragioni: chi reputa un grande valore il volontariato o chi la famiglia, o chi ancora la cooperazione, si racconti e si faccia raccontare. Si proponga quello in cui si crede, non lo si taccia per paura di offendere qualcuno. Poi asseconderemo le procedure che una democrazia pattuita ha stabilito, per vedere quale è l’opinione prevalente che lo Stato dovrà registrare senza sacrificare i diritti fondamentali, ma solo quelli, non qualunque diritto e non i capricci scambiati per diritti.
Lei scrive che in un’epoca in cui nascita e morte sono messe esse stesse in questione occorre, anche alla Chiesa, riconsiderare da dove possa sgorgare l’idea, l’esperienza, di una moralità comune. E scrive, ..Credo si debba partire dall’esperienza elementare del bene, esperienza che ogni uomo fa». In che modo?
Questo è davvero il punto: in base a che cosa un uomo diventa morale? Certamente la sua moralità si misura a partire dalla legge, tanto più che secondo la tradizione classica (purtroppo oggi sepolta sotto il proceduralismo assoluto), la legge è fatta per educare ad agire secondo virtù, come dicevano Aristotele e San Tommaso. Ma la genesi dell’atteggiamento morale viene prima della legge, viene dalla relazione buona. L’esempio del Giovane ricco nel Vangelo di Matteo è chiarissimo. Lui domanda «Cosa devo fare?» e Gesù gli propone una relazione nuova, «Vieni dietro a me e dai tutto i poveri”. Cioè, Gesù dice che il centro della questione non è l’osservanza di regole, ma la riscoperta del nesso tra il bene e la relazione. Vieni dietro a me, ovvero fai esperienza di una relazione nuova che permette la scoperta del bene e che rende la vita un’avventura promettente. Questo è il salto di qualità che la nostra società oggi deve fare. Non significa sottovalutare la legge, come taluni critici mi hanno detto in maniera scorretta, ma significa situarla nel cuore della persona.
Possiamo allora dire che prima dell’educazione alla legalità c’è l’educazione al bene?
Certo, dobbiamo, dirlo. Altrimenti educhiamo solo alle procedure. Non esiste infatti nessuna educazione alla legalità se non dentro un’educazione al bene. Che è la prima legge, la prima virtù. Educazione all’agire secondo virtù, cioè fare il bene ed evitare il male.
Lei parla del primato della persona e della società civile anche in ambito economico. Viene in mente l’anatema che il Papa ha lanciato al capitali anonimi come potere distruttivo…
Il Papa, come sempre, è molto penetrante nel giudicare la nostra situazione e nell’aprire alla speranza. L’economia non è che la pratica scientifica che mi permette di produrre il massimo dei beni con il minimo dei mezzi, e la finanza è ciò che permette all’impresa di traguardare dal presente verso il futuro con una certa sicurezza. Dobbiamo ripartire da queste evidenze. La caduta nell’individualismo anonimo dell’impresa finanziaria è la ragione per cui, mancando le relazioni sostanziali con il mondo della produzione e fra uomini, si è creata questa crisi pesante e lunga. Come ne usciremo? Recuperando un’esperienza del bene-essere che tenga conto della giustizia effettiva e con uno stile di vita diverso, in cui il peso dell’altro nella mia esistenza diventi un fattore di allargamento della ragione economica. E qui s’innesta la grande sfida che la Caritas in veritate ha lanciato ma che purtroppo non è stata raccolta: dare un peso scientificamente economico all’elemento della gratuità e della fraternità, che sono tutt’altro del gratis, ma il porre in atto operazioni economico-finanziarie che siano tese al valore del bene che non si oppone all’elemento dell’utile che è necessario all’economia. II vostro quotarvi in Borsa è un modo di innestare il tema del gratuito nella pratica economica e finanziaria. Non più: faccio il guadagno e poi dopo aiuto, invece aiuto facendo guadagnare tanti.
(Riccardo Bonacina)