VENEZIA – In occasione della Festa della Donna viene pubblicata, di seguito, l’intervista che il card. Angelo Scola ha rilasciato alla redazione di Gente Veneta:
Otto marzo, festa laica che però ha il merito di invitare alla riflessione sul tema femminile. Come guarda lei, Eminenza, a questa festa?
La guardo come una occasione per approfondire, attraverso la questione della donna, quella della relazione costitutiva che il rapporto uomo donna rappresenta in ogni epoca della storia.
In particolare in quest’epoca, dopo il ripensamento del ruolo femminile, con la fase dell’antagonismo e del tentativo di abbattere a tutti i costi le differenze, oggi rimane sul campo una perdita di identità che comporta un profondo disorientamento, sia della donna che dell’uomo. Si ri-scopre così la differenza… Come si può concretizzare oggi il concetto di differenza, in particolare nell’ambito familiare?
Io non parlerei di ruolo, ma di identità, di fisionomia dell’uomo e della donna. Credo che il pensiero della differenza rappresenti uno degli sbocchi più interessanti e significativi di tutto il lavoro del femminismo, anche in Italia. Perché la differenza è proprio ciò che non è ancora adeguatamente pensato all’interno della nostra cultura. Oggi, per varie ragioni, la nostra sta diventando una cultura in cui, in nome della giusta e sacrosanta rivendicazione della assoluta parità dei diritti e delle opportunità, si tende ad omologare l’uomo e la donna, una cultura che rimuove la differenza. Invece la differenza è una dimensione interna all’io maschile e all’io femminile ed è grazie a questa dimensione che io scopro il peso e il posto dell’altro nella mia vita. Significa cioè che io, come uomo maschile, ho sempre davanti a me l’altro modo, per me irraggiungibile, di essere persona che è quello femminile. La differenza diventa quindi una provocazione a vivere l’altro non come un condizionamento da subire, ma come un’apertura da scoprire. E questo, in particolare attraverso l’esperienza quotidiana della famiglia, nell’amore dello sposo e della sposa, dei genitori e dei figli, diventa un fattore di maturazione personale e di coesione sociale imprescindibile.
Un concetto che nell’ambito familiare e in particolare nell’educazione dei figli ha un risvolto ancora più importante…
Certamente. È decisivo, perché l’educazione del figlio è un compito essenziale della generazione. Procreare infatti non è solo mettere al mondo, ma è generare. Cioè accompagnare il figlio, fin dalla nascita, nella grande avventura della vita. In questo senso la donna, che per sua natura tiene il posto dell’altro, quindi anche dell’Altro con la “A” maiuscola, esistenzialmente ha il compito di far accettare e far accogliere la figura del padre al bambino. Deve far capire al bambino, che tendenzialmente vede la mamma come un prolungamento del proprio io, che vicino alla mamma c’è un altro. La madre accompagna il figlio al padre, un passo necessario per la maturazione del desiderio del bambino e quindi anche per l’assunzione del valore della differenza sessuale in cui uno è situato. Il bambino così diventa capace di stare dentro alla realtà
Tornando alla figura della donna, nel suo libro “Maria, la donna” ha parlato di sponsalità, maternità e genio profetico come i <dati costitutivi dell’essere donna> di cui Maria è paradigma. Come si concretizzano e si coniugano con la realtà di oggi?
Innanzitutto occorre che tutti quanti noi nella società di oggi riscopriamo la famiglia nel suo valore di universale culturale. Mi ha impressionato leggere in questi giorni una affermazione di Lévi-Strauss, il grande antropologo scomparso di recente all’età di 100 anni, secondo il quale l’unione stabile di un uomo e una donna con dei figli è un universale che si ritrova in tutte le culture di tutti i tempi. Certamente la famiglia evolve, però questa fisionomia ultima permane. Se si scopre questo dato sarà più agevole ripensare la fisionomia della donna, coniugando questa insopprimibile dimensione di nuzialità, che implica da una parte la sponsalità e dall’altra la maternità, con tutte le forme espressive dell’umano, a cominciare dal lavoro. Ciò domanda alla donna creatività e gerarchia di impegni, ma necessita anche di una modificazione sostanziale delle relazioni uomo-donna così come del welfare, cioè delle politiche sociali.
Bisogna comprendere che la Chiesa è anzitutto mariana, perciò “femminile”. Quindi anche qui non è questione di ruoli ma di percepirsi in quanto comunità di fedeli, donne e uomini, come Sposa di Gesù, il quale genera la Chiesa sulla croce. Questo è il grande valore dell’appartenenza ecclesiale che pone ogni fedele, dal Papa al più piccolo dei battezzati, sullo stesso piano. I ministeri ordinati, quindi la cosiddetta “potestas” nella Chiesa, non hanno nulla a che fare con una concezione “politica” del potere. Il potere del ministro nella Chiesa è, come insegna Gesù, il potere “del servo sofferente e del buon pastore”. Quindi il potere dei sacerdoti, dei vescovi, del Papa è un potere dei “senza potere”. Nel senso che dipende totalmente da questa offerta di sé a Cristo propria di tutti. Ed il sacerdozio ministeriale è totalmente in funzione del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio. Questo implica quindi accettare serenamente che nessuno nella Chiesa, neanche il Papa, può modificare la scelta di Gesù di chiamare soltanto gli uomini di sesso maschile al sacerdozio ordinato.
Nello stesso tempo molti spazi di responsabilità sono oggi aperti alle donne: dai tribunali ecclesiastici, alle università cattoliche, alla conduzione degli uffici nelle curie, alla partecipazione all’educazione persino nella pastorale vocazionale e nei seminari. Senza contare che quasi sempre sono le donne a dare creatività capillare alle nostre parrocchie ed aggregazioni di fedeli. Credo che occorra demitizzare un po’ questa visione secondo cui la dignità della persona dipende soprattutto dal ruolo che esercita e dal potere che ne deriva. Come spesso ci mostra la situazione socio-politica anche nel nostro Paese, il potere senza un coinvolgimento sostanziale per il bene del popolo, è vuoto.