SUMMER SCHOOL ASSET – Ha preso avvio lunedì 6 settembre a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Giorgio, la Summer school internazionale promossa dalla nuova Alta Scuola Società Economia e Teologia (Asset) dello Studium Generale Marcianum dal titolo “Ripensare i diritti in una società plurale”. Ad aprire i lavori, che termineranno venerdì 10 settembre, i saluti di Mons. Edwin Brian Ferme, Rettore della Fondazione Studium Generale Marcianum e gli interventi del Patriarca e di Francesco Pizzetti (presidente Autorità garante privacy).
Viene qui di seguito pubblicato un intervento del Patriarca già pubblicato domenica scorsa da “Il Sole 24 ore”:
Il diritto costituisce ormai la lingua franca dei popoli e delle culture , sotto un duplice profilo.
In primo luogo, il diritto rappresenta palesemente un livello privilegiato di scambio, di confronto e di relazione tra le diverse tradizioni e i diversi popoli . Questo diviene evidente se si pone mente, in particolare, ai diritti umani, o a quelli che, con altro lessico, vengono definiti i “diritti fondamentali”. Il motore del cambiamento del diritto in un Paese è spesso rappresentato dalla recezione del diritto o della prassi di un altro Stato, o di soluzioni raccolte e rilanciate dai trattati internazionali . Quel che accade altrove, dunque, ha un peso per l’esperienza giuridica di ciascun Paese.
In secondo luogo, il diritto ha un ruolo specifico in ciascuna società: un ruolo che non è più ormai solo regolativo, di normalizzazione dei rapporti. L’idea di cambiamento sociale, di evoluzione all’interno di una medesima società sembra quasi inevitabilmente assumere dei connotati giuridici. Quando si parla di cambiamento, si attinge quasi sempre – e forse anzitutto – all’esperienza giuridica. Pare che quando una società giudica se stessa, o un’altra comunità, cerchi nel diritto i parametri del giudizio. Il diritto è divenuto, per così dire, uno dei linguaggi in cui parla l’universale.
Quale idea di uomo dietro i nuovi diritti?. Il sempre più insistente e diffuso richiamo alla dignità umana non mette al riparo da dubbi su quale idea di uomo sia implicata nei nuovi diritti. Il dibattito sull’argomento ha adeguatamente messo in luce come il catalogo di diritti fondamentali abbia subito consistenti variazioni negli ultimi decenni, in prospettiva sia internazionale sia interna ad ogni Paese. Due filoni interpretativi, forse incompatibili, si sono affermati in proposito: da una parte, un’idea gradualistica della dignità umana, che differenzia il valore e la tutela della vita in funzione delle circostanze nelle quali un individuo si trova; dall’altra, una visione dell’uomo quale soggetto singolo che prescinde dal contesto nel quale è inserito . Queste nuove concezioni dei diritti si sono innestate sull’antica radice lockeana del liberalismo, promuovendo una nuova stagione d’individualismo giuridico, dai caratteri largamente inediti rispetto a quelli cui ci aveva abituato il liberalismo tradizionale.
In estrema sintesi, l’esperienza giuridica, soprattutto di matrice americana , oggi sembra collocare il singolo al centro dell’ordinamento, saltando i legami sociali nei quali la sua vita concreta è inserita. Un aspetto non privo di ambiguità e di tutto rilievo, vista l’influenza che da alcuni decenni la cultura giuridica anglosassone ed americana va acquisendo anche sul Continente ed in particolare in Italia .
L’ambiguità del quadro di riferimento su cui si sviluppano i nuovi diritti, centrata sull’individuo, finisce per coinvolgere il rapporto tra società e Stato. Se il compito del diritto è consentire la mera contiguità di individui che si muovono su binari paralleli, la vita associata scompare dall’orizzonte del diritto. Staccare concettualmente il soggetto dal contesto sociale di riferimento, privarlo di legami e relazioni, o semplicemente disconoscere il ruolo decisivo che la società possiede nell’affermazione della personalità di ciascuno, ha delle implicazioni rilevanti. Infatti, quest’approccio impoverisce il ruolo della società civile e attribuisce alla sola autorità politica il compito di tutela e di cura degli individui. Siamo di fronte alla paradossale affermazione di una massiccia centralità dello Stato, proprio in un momento in cui gli ordinamenti vanno dando spazio, almeno formalmente, al principio di sussidiarietà.
Diritti sì, se sostenibili. Oltre alla nuova fisionomia dei diritti, va considerata la loro sostenibilità. La circolazione dei diritti, la trasmissione da un Paese all’altro di soluzioni giuridiche, o le decisioni prese dall’Unione Europea, presentano degli aspetti di grande complessità. Se il ventaglio di diritti e di doveri si allarga mentre l’orizzonte sociale si fa sempre più complesso, questo non può non generare degli scossoni agli equilibri di ciascuno Stato. L’ampliamento delle tutele o l’inserimento di nuovi doveri ha delle inevitabili ricadute sul piano economico, produttivo e sociale pressoché immediate. Non è realistico separare il tema dei diritti e dei doveri da quello delle esigenze sociali ed economiche, se non al prezzo di creare diritti non concretamente esercitabili o persino distruttivi per il futuro della società .
Una prospettiva che non tiene conto delle implicazioni sociali ed economiche dei diritti non è semplicemente miope; è già angusta in partenza. L’opposizione tra esigenze di tutela della persona ed esigenze economiche, che talvolta può senz’altro esistere nella pratica, non si dà sempre necessariamente. Riproporre il rapporto tra diritto ed economia in termini oppositivi significa replicare quell’antropologia individualista, questa volta di marca hobbesiana, che separa il soggetto dalle esigenze sociali del contesto in cui vive. Quando l’ipertrofia dei diritti soffoca la vita economica, rivela per ciò stesso dei difetti radicali ed intrinseci.
La sfida della modernità giuridica: il caso dell’islam. Un modello antropologico individualista non è forse nemmeno un buon terreno comune per affrontare i processi migratori, dal momento che non è di facile assimilazione da parte delle culture non occidentali. Si tratta di un aspetto non secondario del fenomeno di globalizzazione dei diritti, che si rivolge proprio al campo dell’immigrazione e ai Paesi nei quali la tradizione religiosa gioca un ruolo giuridicamente molto rilevante.
Il drammatico sorgere ovunque di una società plurale, nella quale è chiaramente in atto un processo di “meticciato”, termine che uso per indicare il processo di inesausta interazione tra le identità , non può non avere delle ripercussioni sull’esperienza giuridica sia nei Paesi d’immigrazione, sia in quelli d’emigrazione. I cosiddetti diritti di nuova generazione non possono non fare i conti con questa prospettiva: i “nuovi diritti” devono inevitabilmente misurarsi con una “società nuova”.
V’è un altro aspetto del problema da considerare. L’esperienza giuridica si può ragionevolmente trasmettere e affermare se coglie un profilo esistente nella cultura con la quale si relaziona . Si tratta di una sfida cui la riflessione giuridica attuale non può sottrarsi. L’esportazione della cultura giuridica che si va sviluppando nei nostri Paesi può essere interpretata in due sensi, diametralmente opposti. Può consistere in una sottile riedizione del colonialismo, grazie alla quale s’impone a una cultura altra una pratica ad essa estranea; oppure, al contrario, può essere la sincera proposta di un valore affinché un altro ordinamento lo riconosca: proposta attenta, a sua volta, ad accogliere le buone pratiche che quell’ordinamento suggerisce.
Questo vale innanzitutto per le società islamiche e per le rilevanti presenze islamiche nelle società occidentali. La capacità degli ordinamenti attuali di controllare i fenomeni sociali, di dare loro uno sbocco e una prospettiva, di integrarli nel quadro di una normalità di relazioni, è messa alla prova da una presenza religiosa, variegata eppure dotata di forte coesione interna, che s’impone su un piano collettivo,.
La tenace riedizione di logiche illuministiche, che puntano alla convivenza scommettendo sulla separazione tra arena pubblica e spazio privato, e tra ambito religioso e secolare, non sembra giocare a favore di questa normalizzazione dei rapporti . Non può essere il timore della presenza islamica a riproporre un modello già in crisi all’interno del contesto europeo tradizionale e che la dottrina giuridica non ha mancato di stigmatizzare ripetutamente , perché esclude dalla vita sociale proprio quanto le persone religiose hanno di più caro . Una netta separazione tra sfera secolare e sfera religiosa non sembra aiutare la convivenza, anzi la priva di ragioni.
Lo sfondo: il valore “pratico” di vivere insieme
È rimasto finora sullo sfondo di questa riflessione il tema che più direttamente chiama in causa la filosofia e la teologia. Maritain, all’indomani della felice chiusura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), affermava che l’accordo si era potuto raggiungere a prescindere dal tema del fondamento dei diritti stessi. In sostanza, i vari soggetti avevano convenuto sul contenuto della Dichiarazione, ciascuno a partire dai propri presupposti religiosi, filosofici, ideologici e culturali, senza trovare un terreno teorico d’intesa comune.
La più avveduta filosofia politica odierna, considerando la natura plurale delle democrazie, ha visto l’aspetto positivo di quella scelta, sviluppando organicamente quello che allora fu un semplice dato di fatto. È necessario, attraverso procedure pattuite, conferire valore politico al bene sociale primario di carattere pratico: il fatto di vivere insieme. Questo dato sociale deve essere elevato al rango di bene politico da tutti e promosso dalle istituzioni. Ciò non richiede nessun accordo preventivo circa la sua fondazione. All’interno di questo spazio, garantito a tutti, potrà attuarsi il dinamismo del riconoscimento dialogico tra i soggetti sui singoli contenuti di valore, in un confronto serrato ma sempre aperto tra mondovisioni diverse. In tale ottica, il bene pratico politico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione ha smarrito lungo la modernità .
Il compito. Qui s’innesta il ruolo specifico della dimensione teologica e della dottrina sociale della Chiesa, che il Marcianum può mettere in campo. Non si tratta di mettere “vino nuovo in otri vecchi”, ma di far riemergere il vero volto di quei diritti. Quest’operazione interpella l’intero orizzonte delle scienze umane e teologiche. Qualsiasi catalogo di diritti ha, da un lato, delle implicazioni economiche e sociali formidabili, ma a ben vedere è esso stesso il prodotto di un certo sguardo sull’uomo che è sempre io-in-relazione. Per recuperare il vero volto dei diritti è indispensabile affrontarne la dimensione antropologica e sociale: un obiettivo verso il quale convergono le diverse scienze e saperi, ciascuno con la propria specificità ma in una prospettiva che sempre più domanda transdisciplinarietà.