VENEZIA – Viene qui proposto un estratto – pubblicato da “Il Sole 24 ore” – dell’ intervento videoregistrato del card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, che ha aperto mercoledì 14 settembre, alla Fondazione Cini di Venezia, la Summer School di ASSET (Alta Scuola Società Economia Teologia del Marcianum) sul tema “The whole breadth of reason. Rethinking economic and political reason”.
Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Il prolungarsi della crisi economica mondiale e le rapide trasformazioni geo-politiche in atto, in particolare quelle che stanno interessando il Medio Oriente e il Nord-Africa, ci provocano a un ripensamento della nostra concezione della ragione umana, in particolare della ragione economica e di quella politica.
Una considerazione realistica della crisi suggerisce infatti che, per uscirne, non sarà sufficiente mettere in campo nuove soluzioni tecniche, né stabilire pur necessarie nuove regole che disciplinino il mercato.
Ripensare il paradigma finora dominante, e che ha di fatto ridotto la ragione economica al calcolo razionale e quella politica a mera realpolitik, esige di concentrarsi su un terzo aspetto della crisi, che è a mio avviso quello decisivo e che pesa forse in misura maggiore delle fragilità strutturali dei nostri sistemi economici e politici. Mi riferisco a quella sorta di paralisi culturale che la crisi ha da un lato evidenziato e dall’altro contribuito ad accentuare, e che si manifesta in alcuni atteggiamenti ormai piuttosto generalizzati in molte società europee: penso alla scarsa tendenza a progettare il futuro, al prevalere di legami revocabili a scapito di relazioni stabili, al bisogno interpretato come diritto esclusivo al benessere da soddisfare tramite il consumo.
La posta, ben più grande dei risultati che i sistemi economici riusciranno a conseguire, è stata bene messa in luce da Benedetto XVI nella sua recente visita a Venezia: «Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli».
Allargare la ragione, significa perciò innanzitutto rispondere alla domanda su chi sia – e chi voglia essere – il soggetto umano e quale sia la natura dei suoi bisogni. Secondo la rappresentazione hobbesiana dello stato di natura, che in un certo senso compendia la concezione moderna dell’essere umano, l’unico bisogno dell’uomo è infatti la sopravvivenza e il suo unico oggetto del desiderio è il potere quale mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Poiché tutti agiscono secondo tale movente, il conflitto è inevitabile. Questa concezione, variamente riformulata, è quella cui di fatto fa riferimento, più o meno consapevolmente, anche la scienza economica classica con il modello dell’homo oeconomicus, che ha ancora un forte peso nel regolare il mondo della produzione e del consumo. Si tratta di una visione non solo irrealistica ma anche ideologica perché trasforma l’uomo in un attore solitario e conflittuale del mercato e un suddito isolato e docile dello Stato. Al contrario, l’uomo è un essere originariamente in-relazione, è un io-in-relazione. Lo affermava peraltro anche Adam Smith, padre dell’economia moderna.
Penso allo Smith che ne La ricchezza delle nazioni, interrogandosi sull’origine della “propensione allo scambio (propensity to truck)”, si domanda se per caso essa non dipenda da ragione e linguaggio, proprio i fattori che già Aristotele invocava per giustificare la natura sociale del modo umano di abitare il mondo.
Smith tornerà sulla questione altrove, nelle Lezioni di Glasgow, dove significativamente evocherà la naturale inclinazione di ogni uomo a persuadére, cioè – potremmo dire – a fidarsi dell’altro e perciò a fare società.
Per riaffermare questa naturale inclinazione alla fiducia reciproca occorre allora passare da un concetto di ragione ridotta a puro calcolo a un concetto di ragione come capacità di identificare e condividere ciò che è bene per l’uomo. E, riecheggiando il famoso passo aristotelico della Politica, potremmo dire che non c’è bene umano personale che non sia un bene ricevuto in dono da altri e responsabilmente donato a propria volta. È su questo concetto impegnativo di Koinonìa che Aristotele fonda la città, il cui scopo non è la semplice sopravvivenza, come dirà Hobbes restringendo per l’appunto l’orizzonte della ragione, ma la vita buona che, non a caso, per Aristotele è – ad un tempo – del singolo e di tutti, oppure semplicemente non è.
È in questa luce che va inteso uno degli elementi più originali, e tutt’ora più incompresi, della Caritas in Veritate: lo sviluppo integrale dell’uomo deve fondarsi su un’antropologia adeguata in cui la persona e la società sono viste a partire dall’origine, da ciò che precede il puro fare. A cominciare dalla nascita, non esiste realtà, attività, azione o iniziativa umana, che non affondi le radici in un’origine che la precede, ossia nella «stupefacente esperienza del dono» (Caritas in veritate 34), la cui logica come «come espressione della fraternità» non va semplicemente invocata per correggere a posteriori le eventuali distorsioni che l’economia produce, ma è «un’esigenza della stessa ragione economica» (Caritas in veritate 36).
Soltanto un allargamento della ragione economica e politica sarà in grado di ridare senso e vigore a parole – penso per esempio a carità, solidarietà, responsabilità, cooperazione – su cui si registra puntualmente un vasto consenso ma che suonano poi molto spesso logore o depotenziate.
A richiamare la loro pertinenza per una corretta concezione della sfera economica ha pensato ancora una volta Benedetto XVI. Stimolato dalle domande dei giornalisti che lo accompagnavano a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù, il Papa è tornato sinteticamente, ma in maniera molto incisiva, sulla crisi economica riaffermando che «la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale».