ROMA – Vengono qui proposti alcuni estratti dell’intervento che il card. Angelo Scola ha pronunciato nel pomeriggio di giovedì 23 giugno  presso la Pontificia Università  Lateranense a Roma in occasione della cerimonia inaugurale del VIII Simposio Internazionale dei Docenti Universitari che fino al 25 giugno affronterà il tema “L’Università e la sfida dei saperi: quale futuro?”.

 

Card. Angelo Scola

Patriarca di Venezia

1. Un “lamento” ricorrente

Chi da anni frequenta gli ambienti universitari potrà senz’altro convenire sul fatto che poche affermazioni sono più ricorrenti e trasversali del lamento, espresso in tutte le sfumature possibili, sulla crisi dell’università. È una denuncia che accompagna la vita degli atenei e dei centri di ricerca, almeno dal 1870, quando Nietzsche, il tragico profeta del nostro tempo, a soli 25 anni scrisse: «l’Università è un ostacolo per chi voglia dedicarsi totalmente alla ricerca della verità»[1].

Non mi pare il caso di soffermarmi su un giudizio così severo e discutibile. Ad ogni modo la questione “università” rappresenta un problema che sicuramente continuerà a darci filo da torcere nei prossimi decenni. 

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2. Frammentazione del sapere e unità dell’io

Il dato della cosiddetta “frammentazione del sapere” è talmente evidente che non ha bisogno di particolare giustificazione. Tale frammetazione è stata forse favorita dall’inevitabile necessità di demarcazione dei saperi. Si tratta di una operazione di natura epistemologica tesa ad assicurare i confini di ogni singola disciplina per definirne, con il maggior grado di certezza possibile, la peculiarità.

La demarcazione viene stabilita a partire da una concezione complessiva del mondo, dell’uomo e di Dio fondata a sua volta su una determinata visione della conoscenza. Così il sistema di demarcazione medievale era basato generalmente sulla teoria dei “gradi dell’essere”, sia di stampo platonico che di stampo aristotelico. Con l’avvento del pensiero trascendentale i confini si modificarono ulteriormente in seguito all’influsso della fisica e della matematica. La filosofia idealistica tedesca, riferendosi ad una concezione dello “spirito”, ridisegna a sua volta tutto l’impianto della conoscenza cercando di ricondurvi la storia, la soggettività e la cultura come produzione di un “soggetto spirituale”. Qui la demarcazione è definita dai diversi livelli dello “spirito”. 

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Non si intende ovviamente affermare l’esistenza di un rapporto causa-effetto tra demarcazione dei saperi e loro frammentazione. Si vuole in ogni caso rilevare il dato di fatto di una frammentazione del sapere e dei saperi che conduce l’università ad essere sempre meno uni-versitas, sempre meno una. Non si tratta di negare, lo ripeto, che la de-limitazione sia implicata nella natura stessa delle diverse conoscenze e debba corrispondere a qualcosa che attiene originariamente al sapere umano. Bensí di riconoscere che nessuna conoscenza particolare si sviluppa a prescindere da uno scambio con le altre conoscenze, non foss’altro perché il singolo soggetto partecipa contemporaneamente ai diversi ambiti del sapere, aldilà di quello proprio della specialistica. Così, ad esempio, si rivela sempre più un’operazione destinata al fallimento quella di chi vuole staccare interamente la fisica e la biologia dalla matematica, la psicologia e la linguistica dalla filosofia, o la filosofia dalle matematiche. Basta sfogliare le pagine culturali dei giornali per renderci conto che oggi tale operazione è sempre meno realistica. Eppure continua spesso ad essere proposta come ideale anche nell’organizzazione degli studi.

Di fronte ad una tale situazione che cosa può costituire un punto di riscossa? Solo l’affermazione del soggetto del sapere, l’uomo reale, il cui impeto di conoscenza è caratterizzato da un’apertura integrale che si fonda su una capacità recettiva che domanda la sua unità. L’unità del soggetto del sapere è la imprescindibile fonte della conoscenza.

Infatti, in ogni conoscenza la ragione naturaliter si relaziona all’oggetto con un’apertura integrale, rivelando così una misura “adeguata” alla realtà totale. Questa proprietà essenziale della ragione – apertura integrale – non è ovviamente sinonimo di onnipotenza. Non si tratta di postulare una ragione infinita; “totale”, significa piuttosto che la ragione dispiega tutte le sue proprietà (memoria, percettività, proiettività, induttività, deduttività, speculatività…) nei confronti di tutto il reale, sia pure in modo discorsivo e limitato. 

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Non è però sui ben noti limiti della ragione che vogliamo qui attirare l’attenzione. Piuttosto notiamo come questa apertura integrale alla realtà totale sia la condizione che permette alla ragione di essere e restare “una” non solo nel singolo atto conoscitivo, ma anche nella elaborazione, tendenzialmente organica, di una determinata conoscenza. 

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In questa apertura integrale della ragione alla realtà totale si evidenzia un’altra proprietà essenziale della ragione stessa. Hans Urs von Balthasar la definisce con la categoria della ricettività: «Il soggetto diventa ricettivo in senso universalissimo… Ricettività dice appellabilità mediante altro essere, restare aperti per qualcosa d’altro che per il proprio soggettivo spazio interno, significa avere finestre per tutto ciò che esiste ed è vero. Ricettività dice il potere e la possibilità di ricevere in casa propria una realtà estranea e per così dire ospitarla»[2]. Con una bella metafora la ricettività viene definita, in ultima analisi, come «la capacità di farsi regalare da quest’esistente la sua propria verità»[3]. Questa ricettività non è passività, ma, al contrario, è l’espressione dinamica del «selvaggio e vivo intelletto dell’uomo»[4]. Colui che riceve, anche se i doni sono molteplici, è in se stesso capace di unità: il principio unificatore è un carattere insopprimibile della natura razionale del soggetto che riceve “il regalo”. 

Nell’apertura integrale della ragione alla realtà totale e nella sua capacità ricettiva si rivela quindi che l’unità del soggetto del sapere sta alla base della ricerca, dell’insegnamento e dello studio, cioè dell’Università.

 

3. Società plurale ed io-in-relazione

Voglio ora compiere il secondo passo con qualche riflessione riguardo al fatto che l’università oggi, almeno nei Paesi euroatlantici, vive nella cosiddetta “società plurale”. Essa è l’ambito in cui pertanto si deve porre la domanda quale uomo, in quale Università?

La constatazione che il nostro sia un mondo “pluralistico” e, soprattutto, che lo sia “sempre stato”[5] suggerisce soltanto l’idea che le diversità sono potute e possono ancora essere positive per una determinata società. Tuttavia l’espressione “società plurale” assume oggi, inesorabilmente, un certo significato tecnico. Essa infatti, parte sì dal prendere atto della pluralità dei soggetti in campo, ma intende soprattutto indicare che questa pluralità è divenuta così rilevante e così spesso conflittuale da domandare una inedita configurazione politica, etica, giuridica ed economica della società stessa.

L’università, in forza della sua stessa ragion d’essere, è attraversata dalle innumerevoli pressing issues che caratterizzano questa società plurale. 

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Propongo due considerazioni sull’argomento.

In primis occorre riconoscere che la società plurale esige di non trascurare mai un dato antropologico costitutivo e, quindi, insuperabile: l’uomo è sempre un io-in-relazione.

L’uomo, infatti, scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la libertà del singolo in ogni suo atto.

L’uomo della nostra epoca è però contraddistinto da una ricerca spasmodica di una identità puramente individuale che postula una rottura dei legami o almeno una loro riduzione agli aspetti funzionali. Questo fenomeno di vasta portata psicologica e sociale si riflette nell’università. Soprattutto esso rende fragile la trasmissione del significato della vita tra le generazioni. Indebolisce l’educazione come processo generativo. 

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Gli uomini dell’Università debbono proporre allora con forza una paideia intesa in senso generale e non sostitutiva della competenza. Far valere il fatto che l’uomo per l’università non può che essere l’io-in-relazione potrebbe rendere l’Università un ambito privilegiato per il riconoscimento pieno dell’humanum. Quella dell’università come communitas docentium et studentium è una proposta anche oggi realistica, percorribile.

Ma perché questo possa accadere è necessario far riferimento, anche in ambito universitario, alla benefica prassi di partecipazione. Non c’è dubbio che l’università debba essere, secondo la terminologia ormai d’uso, “laica”, purché con questo termine non si intenda concepirla come “indifferente” alle visioni sostantive, siano esse religiose o laiche. Essa sarà pertanto laica perché aperta al confronto che sta alla base, tra l’altro, dell’ormai necessaria pratica della transdisciplinarietà. 

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Note:
[1] Lettera ad Edwin Rohde del 15 dicembre 1870.
[2] H. U. von Balthasar, Teologica t. 1, op. cit., 48.
[3] Ibid. 49.
[4] Così Newman, che «mette la ragione al suo posto, come facoltà di persone concrete immerse nel vortice di passioni, relazioni, contingenze storiche. Non è semplicemente un ricettacolo passivo di dati sensibili, né un potere che compie la sua vera funzione nel mondo cartesiano o lockiano della pura matematica» J. M. Hass, La ragione al suo posto, op. cit., 102.
[5] R. Spaemann, La diceria immortale. La questione di Dio e l’inganno della modernità, Cantagalli, Siena 2008, 12.