L'auditorium

ROMA – In occasione della Festa dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum a Roma il card. Anegelo Scola,  nella mattinata di mercoledì 24 marzo,  ha tenuto una lezione dal titolo “Paideia e Università”.

Viene proposto qui di seguito il testo integrale della lezione:

1. Paideia e società post-moderna

«A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale» . Questa affermazione di Benedetto XVI acutizza la problematicità che il concetto di valore, usualmente associato alla nozione di educazione, possiede nel clima culturale odierno. Che la trasmissione dei grandi valori del passato da una generazione all’altra sia oggi incerta risulta evidente dal travaglio sociale relativo alle numerose pressing issues che caratterizzano la vita comune soprattutto nei Paesi euroatlantici. Mi riferisco in particolare alle problematiche che vanno dalla sessualità, al matrimonio e alla famiglia; dalla nascita all’aborto; dalla morte all’eutanasia; dalle libertà individuali alla rilevanza pubblica delle cosiddette visioni “sostantive” (siano esse religiose, agnostiche o atee); da una concezione della democrazia dipendente unicamente da pure procedure pattuite ad una, invece, che la ritiene bisognosa di presupposti; dall’identità dei soggetti comunitari al processo di “meticciato di civiltà”; dal posto del lavoro, del capitale e del profitto alle urgenze di uno sviluppo planetario integrale; dal naturalismo o dal riduzionismo scientifico al riconoscimento dell’irriducibile responsabilità spirituale e morale dell’uomo; dalla libertà della pubblica opinione al dominio della civiltà delle reti; dal rapporto con il creato fino ai presunti “diritti degli animali”; dalla neutralità dello Stato al riconoscimento di una sfera pubblica religiosamente qualificata… e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

D’altra parte, però, nel pensiero cosiddetto post-moderno non solo alcuni singoli valori si sono fatti evanescenti, anche quelli propri della modernità (progresso lineare e indefinito, autonomia ed assolutezza della ragione, fede incondizionata nelle scienze, esistenza di un codice morale universale), ma è il concetto stesso di valore ad aver perso di significato. Inoltre, se con Gevaert possiamo definire valore: «tutto ciò che permette di dare un significato all’esistenza umana, tutto ciò che permette di essere veramente uomo… (i valori non esistono senza l’uomo che con essi è in grado di conferire un significato alla propria esistenza)» , che dire del fatto che oggi è la stessa idea del soggetto come essere autocosciente e personale a essere messa in discussione . Basti pensare all’affermazione del filosofo delle scienze tedesco Jongen: «L’uomo è soltanto il suo proprio esperimento» .

In quest’ottica non sarebbe più possibile parlare di una vera e propria impresa educativa (paideia), ma ci si dovrebbe limitare a parlare di istruzione. Cosa significa allora, per riprendere le parole del Papa «che i valori non possono semplicemente essere ereditati» ma «vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una spesso sofferta, scelta personale»? In che modo la libertà dell’uomo può oggi essere spinta ad aderirvi? E quale sarà il compito delle istituzioni educative nel frangente storico attuale? Dovranno forse limitarsi a proporre un percorso professionalizzante, con contenuti e tecniche meramente finalizzati allo svolgimento di un ruolo?

Un’acuta osservazione di Jacques Maritain può aiutarci ad uscire da questa apparente impasse. Nel suo sempre attuale volume Per una filosofia dell’educazione il celebre pensatore francese afferma: «La cosa più importante nell’educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento…». Infatti: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso» .

Viene così introdotta ex-abrupto come categoria portante del processo educativo la complessa nozione di esperienza. Cominciamo allora col dire che la scelta di mettere a tema il termine paideia intende far riferimento a questo appassionante paradosso educativo nella sua articolata unità. Insegnamento ed educazione hanno bisogno di coinvolgimento reciproco di vita, di esperienza in senso pieno e tuttavia questa esperienza non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso.

In questa sede – si sarà compreso – non si intende riferirsi alla paideia in senso stretto come modello educativo in vigore nel mondo greco-romano, se non perché questo modello, rinascendo in continue trasformazioni col sorgere di nuove culture (non escluse quelle religiose e quelle cristianamente riferite), sottende, almeno descrittivamente, tutti i fattori (paideia fisica, paideia psichica, orientamento all’ethos e ai costumi dei popoli), fattori necessari ad identificare l’azione educativa propria non soltanto della scuola e dell’università stessa ma, più in generale, di tutta la società. Azione educativa che riguarda, inoltre, tutto l’arco dell’umana esistenza.

Tornando alla nozione di esperienza, essa, di primo acchito, può apparire altrettanto problematica quanto quella di valore. La grande diversità, spesso generatrice di conflitti, delle mondovisioni proprie dei soggetti che abitano una società oggi diventata tecnicamente plurale, consente ancora di parlare di un’esperienza umana comune? Al di là della criticità e della problematicità storicamente ben documentate della nozione di esperienza, l’inestinguibile ricerca di senso che anima il cuore dell’uomo trova un punto di sicuro approdo in quella che genialmente Karol Wojtyla, in Persona e atto, definiva come esperienza elementare, cioè comune ad ogni membro della famiglia umana. Afferma Wojtyla: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo, in quanto basato sull’intera continuità dei dati empirici. Oggetto dell’esperienza è non soltanto il momentaneo fenomeno sensibile, ma anche l’uomo stesso, che emerge da tutte le esperienze ed è anche presente in ciascuna di esse»… «L’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela. Esso ci permette nel modo più adeguato di analizzare l’essenza della persona e di comprenderla nel modo più compiuto. Sperimentiamo il fatto che l’uomo è persona, e ne siamo convinti poiché egli compie atti» .

La forza di quell’avversativa – «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo» – trapassa di colpo la complessità in cui versa oggi l’autocoscienza dell’uomo nella nostra società, soprattutto in ciò che ha a che fare con la paideia.

Su queste basi si può così riformulare il concetto di valore, tenendo conto della critica mossagli dal pensiero post-moderno, ma evitando di cadere nella tentazione di dire che, al fondo, non esistono valori giacché ogni loro significato sarebbe solo frutto di una negoziazione o di un rapporto di forza. L’equivoco circa la loro natura può essere risolto chiarendo che i valori non sono oggetti, né concetti astratti cui attenersi a priori, ma fanno parte del rapporto costitutivo tra il soggetto personale ed il suo stare in relazione con gli altri e “le cose” di cui è intessuta la realtà.

Un’educazione ai valori è quindi impossibile se si elude il rapporto tra la persona e la comunità – e quello di entrambe con il mistero, il «reale inafferrabile», come diceva Buber – all’interno del quale il valore può essere effettivamente comunicato e sperimentato dando un significato e una direzione all’esistenza . Resto convinto che la nozione di paideia, intesa nel senso largo suggerito da Maritain, sia anche oggi in grado di fornire il terreno di base per garantire quella “cura delle generazioni” che è il proprium di ogni impresa educativa. Ed è proprio la nozione di esperienza a consentire questa possibilità.

Come acutamente si afferma nel volume curato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, dal titolo “La sfida educativa” , «Ciò che dà vita e vigore a quanto vale (valore) è, dunque, ciò cui esso mira, cioè l’esperienza che se ne può fare…» .

2. Paideia: libertà e realtà

La validità della categoria di esperienza emerge dalla semplice constatazione di un dato di fatto: dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi (a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni). Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando ad una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato. Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già una sua unità e pertanto un logos. È intelligibile, come già affermava il realismo classico. A ciò corrisponde la capacità del soggetto di ospitare il reale. L’esperienza è luogo di incontro tra l’unità del reale e l’unità del soggetto. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda al soggetto che può ospitarla un atto di decisione. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l’atto «il particolare momento in cui la persona si rivela» . Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un’“antropologia adeguata”. Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”: «Noi possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica» .

Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza. Uno dei tratti propri dell’ “esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare –, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale. Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi esistenziale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto luogo di pratica e di esperienza, secondo la felice definizione di Blondel , la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”. Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale la persona non diventa capace di esperienza e di cultura .

Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio .

Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà. Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.

In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi. Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone) e il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente altro e quindi integralmente libero .

Nell’educatore questo rischio di possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa: l’amore. L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando ad un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come data (amore), è ultimamente segno del Mistero che si dona a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.

Quando si assume come ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità, che ha la sua radice nelle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono, come conseguenza antropologica, dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico: se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui ed ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo «ci ha scelti prima della creazione del mondo […], predestinandoci a essere suoi figli adottivi» .

3. Paideia e università

Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito. A partire dall’epoca moderna, in ambito euroatlantico, l’università pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, soprattutto se lette nella prospettiva della rivelazione cristiana, perché ritenuti estranei ad una rigorosa conoscenza scientifica . «L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo» .

Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte). Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente. Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza: l’amore, la nascita, la morte. È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa .

In questo quadro di rapida e talora traumatica transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e quindi non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti ad un unico principio sintetico e vitale di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per tutte le altre scienze. Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale. Ma oggi, benché comincino a riaffacciarsi tendenze contrarie, il principio unificatore che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime (sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose), ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca. La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso. Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità (pensiamo al bios, o alla “formazione dell’universo”, o alle neuroscienze) possiede solo un’utilità strumentale. Ci troviamo di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano. Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già sosteneva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità: teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica) . Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente ed unitariamente coltivate dall’università.

Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate. Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione .

A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.

Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che è la stessa esperienza elementare prima enucleata ad implicare l’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne. Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio. Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo: Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente (oltre la morte stessa) e consentendomi di amare, a mia volta, definitivamente?

Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere ad un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del Cardinal Newman: «Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri… L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie. Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri. Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito» .

Tale sguardo unitario viene esaltato dalla caratteristica ideale dell’università come communitas docentium et studentium. Certo, esso deve vivere nella persona ed esprimersi nella comunicazione tra docente e discente. Ma esso raggiunge la massima fecondità se espresso nella incessante e reciproca testimonianza che deve circolare fra tutto il corpo docente e tutti gli studenti. Quando la comunicazione appassionata dei primi trova nei secondi non solo degli uditori attenti, ma dei soggetti a loro volta impegnati in una inesausta ricerca della verità, l’università cessa di essere luogo di passaggio finalizzato all’ottenimento di un diploma e realizza la sua vocazione più autentica.

4. Paideia e teologia

Resta ora da compiere un ulteriore passo. Se, come abbiamo detto, alla teologia non è più unanimemente riconosciuto lo statuto di disciplina capace di operare l’adeguata sintesi tra i vari saperi, quale è il senso di un’università che considera la teologia il cuore della sua vocazione educativa e accademica? Come evitare, in un tale contesto di ridurre la teologia a una specializzazione tra le altre, utile magari per svolgere qualche determinato compito – il sacerdote, il teologo, l’insegnante di religione – ma in fondo socialmente e culturalmente irrilevante? Detto in termini più pertinenti con il tema che stiamo trattando qui: è in grado la teologia di contribuire all’educazione della persona? È capace di paideia?

Per rispondere a questi interrogativi è necessario ricordare che la pratica teologica, se rettamente intesa, rappresenta una modalità con cui il soggetto ecclesiale, a partire dall’incontro e dalla sequela di Gesù Cristo, vive nel qui ed ora delle circostanze storiche che gli sono offerte. Infatti, in forza della ratio sacramentalis della rivelazione cristiana, la storia, fatta di circostanze e rapporti, lungi dal rappresentare un elemento secondario della vita cristiana è il luogo provvidenziale in cui si realizza la necessaria inculturazione della fede . Questa non corrompe l’esperienza cristiana, quasi che l’integrità della rivelazione possa essere compromessa dal contatto con circostanze storiche contingenti. Essa richiede piuttosto l’assunzione critica del significato di circostanze, situazioni e rapporti storici e culturali nell’orizzonte della logica sacramentale. È perciò fondamentale che la teologia si misuri, in un confronto franco e aperto non solo con le altre discipline, ma con tutte le questioni – prima sommariamente richiamate – che, in maniera talvolta drammatica, caratterizzano la vita della nostra società. Ciò avverrà sulla base di una duplice attitudine.

Da una parte esibendo l’umile consapevolezza di non poter esaurire la conoscenza dell’umano e di avere perciò bisogno di mantenere il contatto con quello che accade negli altri rami della scienza. È un’esigenza che scaturisce dalla stessa idea di paideia come educazione integrale. Se pensiamo alle impressionanti ricerche e scoperte in atto, per esempio, nell’ambito della neuroscienza e della biologia, e alle relative questioni etiche ed antropologiche che tali scoperte sollevano, vediamo che la teologia non può esimersi dal farsi carico di un paragone serrato con questi saperi, pur nel rispetto degli statuti che sono propri di ciascuno di essi e senza avventurarsi nella ricerca di perigliosi quanto equivoci concordismi o eclettismi. Tanto più che si registra oggi una seppur timida esigenza verso l’unità del sapere che spinge non pochi cultori di vari settori della scienza a confrontarsi con altre discipline e con i e loro metodi. In alcuni ambiti della ricerca scientifica, persino in quelli più tentati di riduzionismo naturalistico, come appunto quelli delle neuroscienze o della biologia, non mancano d’altra parte ricercatori convinti dell’impossibilità di raggiungere un sapere compiutamente oggettivante sull’uomo e sulla realtà. L’uomo non può essere ridotto al suo proprio esperimento.

Dall’altra la teologia dovrà saper documentare la ragionevolezza dell’evento di Gesù Cristo quale ipotesi interpretativa del reale. Tale “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360° con la realtà. La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio. L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare (lavoro, affetti, riposo) – ecco riaffacciarsi la centralità di questa categoria –, e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità della propria persona (unità duale propria di ogni essere creato, contingente): anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità. Per indicare la ragionevolezza dell’esperienza cristiana i medievali parlavano di con-venientia, nel senso etimologico di con-venire: corrispondere all’essenza più profonda, alle esigenze costitutive dell’io. Non ci riferiamo qui pertanto ad una convenienza utilitaristica. Affermiamo invece quel livello ultimo della verità che muove la persona a scoprire la positività intrinseca del reale, il suo valore . E nel conoscere, integralmente inteso, l’uomo si ri-conosce. Questa prospettiva che afferma l’attualità della paideia per un lavoro universitario, se rettamente assunta perché efficacemente inculturata, è del tutto compatibile con i più avanzati saperi delle scienze quando siano rigorosamente praticati.

L’impegno della vostra università nel campo della bioetica, dell’etica economica o dell’ambiente, per citare solo alcuni ambiti del vostro lavoro, rappresenta quindi un’ottima espressione di una teologia capace di parlare all’uomo di oggi mostrandogli il fascino di Cristo, maestro di vita buona.