Proponiamo la trascrizione dell’omelia pronunciata dal cardinale Scola il 27 dicembre 2020, festa di San Giovanni Evangelista, III giorno dell’Ottava di Natale, presso la cappellina della sua abitazione di Imberido (LC).

Liturgia del giorno: Gv1, 1-10; Sal 96 (97); Rm 10,8c-15; Gv 21,19c-24

Fotografia: copyright Dario Ballabio


L’evangelista Giovanni, nella sua Prima Lettera, dopo aver descritto l’esperienza del Verbo della vita che egli con i primi aveva incontrato, aggiunge: «La vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi [è descritto qui lo stile dell’esistenza cristiana], tutto quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi .

Ecco la dimensione del rinnovamento, della rinascita dell’io, e quella della comunione, dell’io in relazione, come i due grandi pilastri che costituiscono la fraternità di coloro che, con Maria, sono capaci di circondare la presenza di Cristo dentro la storia. E la nostra comunione non è un sentimento legato alla nostra iniziativa, non è il gusto di essere spalancato all’altro. «La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo [nello Spirito Santo]». Quindi con la Trinità, nella potenza della sua comunicazione verso di noi, cioè della nostra creazione e della nostra redenzione. Con il Figlio fatto uomo morto e risorto che porta in sé il segno delle ferite e vive in questa nuova condizione dentro la Trinità stessa.

Ma è molto importante l’aggiunta che la Prima Lettera di Giovanni fa. «Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena». Se non si comunica questa novità – che poi, come abbiamo visto nell’Epistola di Paolo ai Romani, è la condizione necessaria per ottenere la giustizia e giungere alla salvezza – la gioia non è possibile.

E io penso che la fatica in cui tutti noi cristiani siamo immersi oggi, fatta eccezione per i martiri consapevoli – ma anche per quelli inconsapevoli, in grado diverso – la grande condizione di fatica, di passività, di reattività che si perde dentro i particolari, di incapacità di accettare la nostra fragilità… sia proprio dovuta alla scarsità di questa comunicazione di gioia che sola dà pienezza. Perché, come i bimbi ci confermano, un fatto bello è bello se può essere comunicato. La verifica della sua bellezza sta tutta nella comunicazione. E la comunicazione è che «Dio è luce, e in Lui non c’è tenebra alcuna».

L’evangelista Giovanni ci invita ad essere molto seri con noi stessi e a riconoscere il nostro essere peccatori. Le parole finali della sua Lettera sono assai dure: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se invece confessiamo i nostri peccati Egli è fedele e giusto, tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi».

Facciamo di lui un bugiardo perché in Gesù Dio ha promesso (e mantenuto la promessa) – attraverso Pietro, gli apostoli e i loro successori, che hanno poi concretizzato questo dato nel sacramento della confessione – che i nostri peccati saranno perdonati («tutto ciò che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto anche nei cieli» Mt,18,18). Quindi se diciamo di non averne vuol dire che Lo rendiamo un bugiardo.

Si vede bene qui come sia stretto il rapporto personale con Gesù. Soltanto che noi, per lo più, Lo cerchiamo sulla via del sentimento invece che sulla via della realtà, cioè riconoscendoLo realmente presente in noi e tra di noi. A vantaggio della Santa Chiesa e a vantaggio di tutta l’umanità.