roccellaLa sofferenza, il dolore dell’uomo e l’opera del Redentore: in merito ai temi affrontati dal Patriarca Scola nel discorso del Redentore, riportiamo qui il pensiero di Eugenia Roccella, Sottesegretario di Stato al Lavoro, alla Salute e alle Politiche sociali, pubblicato da Il Gazzettino del 27/07/2009.

“L’esperienza del dolore è sempre stata la più misteriosa e contraddittoria della condizione umana, il muro contro cui si sono infrante tutte le spiegazioni razionali, e tutti i tentativi di affermare l’orgogliosa autosufficienza dell’individuo. Non c’è un’etica laica in grado di dare senso al dolore, non c’è che il grido disperato contro il Dio che è morto, o la rassegnazione all’assoluta casualità dell’essere qui, confortata al massimo da una consapevolezza dignitosa e sommessamente eroica. Oggi anche questa consapevolezza leopardiana tende ad affievolirsi, e prevale la volontà di scansare il problema: sempre giovani, in buona salute, attivi e disposti al consumo, speranzosi nelle infinte possibilità della tecnoscienza, allontaniamo il pensiero della morte e affidiamo il dolore, anche quello interiore, ai farmaci. Solo la Croce è rimasta a ricordare a tutti che l’uomo è impastato di sofferenza, solo il simbolo del divino è rimasto a testimoniare i limiti dell’umano.

La grandezza del cristianesimo, che il Patriarca di Venezia illumina con questo discorso, è proprio nel rovesciamento di ogni canone del sacro, nella condivisione assoluta dell’esperienza del dolore umano da parte del figlio di Dio. Gesù ha sperimentato la sofferenza fisica estrema, ma anche l’estrema sofferenza morale, quella dell’abbandono, della solitudine, della mancanza d’amore. Ed è questo, che noi siamo chiamati a fare nella nostra esistenza: a condividere le nostre e le altrui sofferenze nelle relazioni di amore e fratellanza. Il dolore non si può eliminare, ma si può lenire e consolare, così come il male si può riparare. Non sarà la scienza, spesso ormai accompagnata da un’enfasi ingenuamente miracolistica e assai poco scientifica, a salvarci dalla morte e dal dolore, nemmeno manipolando e trasformando radicalmente l’umano: è illusoria la prospettiva di una sconfitta assoluta del dolore, che resta parte profonda di noi, capace di produrre creatività e di fecondare il nostro pensiero e la nostra azione.

Una buona legge sulle cure palliative, come quella che la Camera sta preparando, finanziamenti consistenti e vincolati, come quelli che il governo ha già destinato allo scopo, sono testimonianza di civiltà e di un’attenzione doverosa verso i malati più fragili. Non c’è, nella nostra esistenza, momento più intimo, e insieme più esposto, di quello in cui la morte si avvicina, e in cui siamo inermi, affidati alle relazioni personali e a quelle sociali. Strutturare una rete efficiente di cure palliative, combattere il dolore è un obiettivo che qualifica l’organizzazione sanitaria, e verifica la capacità della politica di rispondere ai bisogni dei cittadini. Ma la battaglia per il diritto a morire non ha niente a che fare con il sollievo del dolore: è una battaglia tutta ideologica, per affermare da una parte l’assoluto diritto all’autodeterminazione, dall’altra l’idea della “qualità della vita” come standard oggettivo, che lascia fuori la malattia e la disabilità.

Non è casuale che i testamenti biologici raccolti su Internet siano in grande maggioranza di giovanissimi in ottima salute, convinti però che sia meglio morire che vivere in condizioni di disabilità, e che la vita è un bene come un altro, a nostra totale disposizione. Dobbiamo quindi stare molto attenti, come legislatori, affrontando il nodo delle Dichiarazioni anticipate di trattamento, a tracciare un confine netto tra la libertà del paziente di rifiutare un trattamento medico e il diritto a morire. Raccogliamo, su questo tema, l’invito alla prudenza espresso dalla Cei e ribadito nel suo discorso dal Cardinale Scola: varcare quel confine vuol dire consegnare l’uomo al freddo della solitudine, che nessuna rivendicazione di diritti può scaldare.”