Dalla disputa di Gesù con i giudei nel tempio, narrata dal Vangelo della III Domenica di Quaresima, si sviluppa la riflessione del cardinale Angelo Scola sul rapporto tra la libertà dell’uomo e la sua responsabilità in ordine al peccato.

«Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato». Questa affermazione di Gesù, nella disputa con i giudei narrata dal Vangelo di questa domenica, costituisce un annuncio decisivo e dirompente. Lo fu per gli ebrei di duemila anni fa, fieri di essere figli di Abramo, il credente per eccellenza. Ma lo è ancora di più per noi, uomini del terzo millennio, che forse a nulla teniamo di più che alla nostra libertà. Non mi sembra di esagerare nel dire che la difesa della libertà personale – indipendentemente da come essa venga concepita – accomuna uomini e donne del nostro tempo. Costumi, prassi sociali, leggi… tutto è sottoposto a rigoroso esame per verificare che non attenti alla libertà personale.

Forse è proprio questa ipersensibilità a rendere la stessa parola “peccato” decisamente ostica ai giorni nostri. Ma come lo si può considerare peccato – si pensa e si dice – se è espressione della libertà personale? Eppure le parole di Gesù non possono essere più chiare: «Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato». Tentiamo almeno di intuire cosa ci vogliono indicare.

Anzitutto dicendo “chiunque” Gesù ci aiuta a riconoscere che ogni uomo e ogni donna è protagonista della propria esistenza. In ultima istanza nessuno può sostituirsi a lui. Tutti i tentativi totalitari non sono riusciti a cancellare la grandezza incommensurabile dell’io. La partita pertanto si gioca nella vita di ciascuno di noi. Nessuno può dire ultimamente “io non sapevo” oppure “sono stato costretto”: anche nei casi estremi resiste sempre un livello di autocoscienza, magari non espresso ed impenetrabile all’altro, in cui l’io è se stesso e, quindi, misteriosamente, libero e responsabile.

In secondo luogo Gesù non ha paura di usare la parola “peccato”. Egli è ben consapevole che non tutto ciò che l’uomo compie è necessariamente buono, che tutti possiamo fare e farci del male, possiamo scegliere ciò che non è bene. Non tutto ha valore: nell’attuale frangente storico – finalmente superate le restrizioni mentali di altri tempi – è doveroso decidersi a riconoscere che il bene è bene, e il male è male, e che la nostra libertà è tale perché responsabile del bene e del male che compiamo.

Per farlo non c’è strada migliore che riconoscere l’esito del peccato in noi: esso ci fa veramente schiavi. Nell’illusione di raggiungere la libertà, imbocchiamo percorsi di autosufficienza che conducono inesorabilmente al vicolo cieco della solitudine. E quando l’uomo resta solo, non ci vuole tanto a renderlo schiavo. Basti pensare quanti desideri indotti dai poteri dominanti popolano le nostre giornate!

Quale cammino, allora, verso la libertà? Gesù lo suggerisce con discrezione: «Lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero». È la strada della filiazione. Il figlio è fino in fondo se stesso – libero! – perché generato ed amato dal Padre. Egli riceve la sua libertà ed è chiamato a giocarsela in proprio nel rapporto col Padre e, quindi, con gli altri. La narrazione più impressionante di questa esperienza umana è la parabola del Padre pieno di misericordia verso il figliol prodigo. Dall’autonomia al rapporto carico di amore reciproco tra Padre e figlio. Un rapporto indubbiamente drammatico, eppure l’unico all’altezza della verità del nostro essere uomini. Abramo, per questo, è la figura emblematica dell’uomo libero.