La sofferenza, il dolore dell’uomo e l’opera del Redentore: in merito ai temi affrontati dal Patriarca Scola nel discorso del Redentore, riportiamo qui il pensiero di Giovanni Salmeri, filosofo ed insegnante di Storia del pensiero teologico all’Università di Roma Tor Vergata.
(testo non rivisto dall’autore)
“Il card. Scola afferma che sempre più sta prendendo piede un atteggiamento molto pragmatico che vuole aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli e nasce dal potere scientifico e tecnologico che soprattutto nel campo medicina sembra rendere l’Uomo padrone della salute, ma salute e malattia riguardano sempre tutto l’Io e l’attuale ossessione salutista non risponde poi alle domande profonde dell’uomo.
Si tratta di un’osservazione che interpreta la cultura nostro tempo da cui è giusto partire, perché rivela in modo forte e drammatica la perdita capacita dare senso a sofferenza. Già anni ‘80 Michel Henry, uno dei più brillanti filosofi cristiani degli ultimi decenni, scrisse libro per identificare il rifiuto della sofferenza con la barbarie perché rifiutare sofferenza significa rifiutare la logica stessa vita: la sofferenza è un qualcosa di così intrinseco alla vita che la capacità di comprenderla e integrarla in un progetto complessivo di esistenza diventa cruciale per l’uomo stesso.
C’è proprio un’ossessione salutista che sta assumendo dei tratti patologici; ma c’è anche il rovescio di questa medaglia: il suicidio. È davvero triste che l’attenzione dell’opinione pubblica sia attirata così tanto dai problemi relativi al fine vita (gli stati vegetativi permanenti, il coma…) e così poco dall’aumento del numero dei suicidi, soprattutto giovanili o addirittura dei bambini che leggiamo oggi sui giornali. Il suicidio rappresenta la forma totale di rifiuto più estremo della sofferenza che nella nostra cultura sta raggiungendo un ruolo non solo di dignità ma quasi di ammirazione.
È triste vedere come nei giorni in cui infiammava il dibattito su Eluana Englaro ci fu il tragico episodio del suicidio della femminista Roberta Tatafiore che venne accolto come un grande gesto di libertà e dignità salvo poi sentire i commenti tristissimi della nipote e delle amiche, che dicevano in sostanza:«state equivocando il gesto disperato di una persona depressa». Trovo che il suicidio rappresenti il gesto più drammatico e triste dell’incapacità di comprendere la sofferenza.
È giusto che la fede cristiana cerchi di interrogarsi su questi temi: non solo per chiamare in causa Dio ma l’uomo stesso e le sue capacità.”