Giovedì 5 novembre, in mattinata, a Molfetta, per il Dies Academicus della Facoltà teologica pugliese il Patriarca ha tenuto la prolusione sul tema “Lo studio della teologia oggi nella formazione dei presbiteri” . L’occasione è coincisa con la celebrazione conclusiva dell’Anno centenario di fondazione del Pontificio Seminario Regionale Pugliese “Pio XI”.

Qui è disponibile il testo della lezione del card. Scola.

1. L’orizzonte adeguato della formazione presbiterale

Per trattare il tema che mi è stato affidato in questa prolusione, lo studio della teologia oggi nella formazione dei presbiteri, si rende anzitutto necessaria una premessa solo apparentemente accessoria: lasciar emergere l’orizzonte integrale adeguato della formazione presbiterale. Oggi è infatti diffusa una riduzione del concetto di formazione, dalla quale non è immune la formazione presbiterale, sempre più spesso pensata e praticata come un percorso professionalizzante, con contenuti e tecniche finalizzati allo svolgimento di un ruolo. Letto in quest’ottica, il contenuto proprio della formazione del presbitero finisce per coincidere con una disciplina, la teologia, intesa come insieme ben demarcato di saperi riguardanti la fede cristiana, necessari per esercitare il ministero sacerdotale.

Per sgomberare il campo da questo equivoco e ricollocare sia la formazione, sia la teologia nel loro orizzonte proprio ci viene in soccorso il decreto conciliare Presbyterorum ordinis, in particolare al terzo capitolo (nn. 12-22). Dopo aver tratteggiato la natura del presbiterato ed esposto il contenuto del ministero, si descrive la vita dei presbiteri. Tale riferimento alla vita richiama immediatamente un’integralità che impedisce qualsiasi riduzione della missione del presbitero alla mera erogazione di determinati competenze e servizi a utenti che gli rimangono sostanzialmente estranei, finendo per separare la sua persona dal pulsare concreto dell’esperienza della comunità cristiana e della famiglia umana.

Il primo antidoto contro la perniciosa riduzione cui abbiamo accennato è il riferimento al soggetto educante del candidato sacerdote: il presbitero inerisce ad una Chiesa particolare che è «immagine della Chiesa universale» e costituisce il medium intrinseco dell’Avvenimento di Gesù Cristo ad ogni singolo membro del popolo santo di Dio . Solo all’interno di questa consapevolezza è possibile riconoscere nei luoghi specificamente deputati alla formazione del presbitero (il Seminario, le Facoltà o gli Istituti teologici) spazi pienamente integrati nella vita del popolo. E ciò è possibile soltanto in presenza di una reale immanenza, assicurata dal Vescovo in quanto pastore della Chiesa particolare, del Seminario e della Facoltà o Istituto teologico al concreto svolgersi della vita della Diocesi.

Essa si esprime, primariamente, nella vocazione di tali istituzioni ad essere luoghi di autentica comunione. Quell’ambito di vita generato dall’incontro fra educatori ed educandi che caratterizza ogni impresa educativa ed ogni proposta cristiana. Mandati dalla comunità cristiana, superiori e professori devono rischiare la propria libertà con la libertà di quanti sono stati loro affidati invitandoli a coinvolgere, sempre più radicalmente, tutta la loro esistenza con l’avvenimento di Gesù Cristo. In questa prospettiva, come ebbe a dire una volta il Servo di Dio Giovanni Paolo II, per realizzare il loro compito educativo le comunità del Seminario e della Facoltà teologica devono concepirsi come comunità di discepoli: «Cristo è il maestro e noi i discepoli. Tutti: professori e studenti. Anche il Vescovo di Roma: siamo tutti suoi discepoli» . In quest’ottica il modello più appropriato cui il Seminario e la Facoltà teologica possono ispirarsi è quello della famiglia (non dell’azienda!), con la sua dinamica educativa fatta di quell’intreccio di autorità e libertà che è in grado di assicurare la maturazione della persona. Da un lato l’autorità paterna e materna rischia in prima persona, dall’altro essa stimola la libertà del figlio e il suo personale coinvolgimento.

Già da questo livello si intuisce l’impossibilità di separare il metodo educativo, l’appassionato scambio testimoniale tra docenti e discenti, dal contenuto centrale della proposta offerta al futuro presbitero: l’avvenimento di Gesù Cristo, morto e risorto per noi e reso, dalla mediazione intrinseca della Chiesa, effettivamente contemporaneo alla libertà di ogni uomo. L’approfondirsi di questo incontro induce nella persona quell’esperienza di unità interiore che necessariamente prelude all’assunzione di ogni missione. Essa poggia su due fattori che giova qui indicare. Da una parte la ratio sacramentalis della rivelazione cristiana, secondo l’espressione dell’enciclica Fides et Ratio . Dall’altra, la tendenziale unità nel presbitero tra persona e missione. Sono due elementi irrinunciabili della formazione integrale che i Seminari e Istituti Teologici sono instancabilmente chiamati a garantire.

Il primo elemento – il carattere sacramentale della Rivelazione (Scheeben) – fa riferimento al fatto che l’Incarnazione permane nella storia, per l’azione dello Spirito Santo, in quella che il catechismo della Chiesa cattolica definisce economia sacramentale . Questa trae origine e trova il suo culmine nell’Eucaristia, permanentemente assicurata dal sacramento dell’ordine. In questa prospettiva si può facilmente cogliere la radice del presbiterato cattolico, che esiste appunto per comunicare il carattere sacramentale dell’evento cristiano. Non solo, ma in forza dell’analogia la ratio sacramentalis illumina la natura profonda del rapporto dell’uomo con la realtà perché chiama il cristiano a vivere ogni rapporto e circostanza a partire da questa logica. La concezione della vita come vocazione e la “pretesa” cristiana di non aggiungersi estrinsecamente all’esperienza umana ma di svelarne la pienezza trovano in queste notazioni un’ulteriore conferma.

Il secondo elemento – la tendenziale unità di persona e missione – identifica un tratto fondamentale della vita dei presbiteri. Essa si radica nell’unione a Cristo, «nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato» . È dalla conoscenza commossa di questo mistero e dalla paziente educazione ad esso che trae alimento l’unità tra persona e missione che deve caratterizzare l’esistenza di ogni cristiano e di ogni sacerdote. Lo ha ricordato Benedetto XVI parlando, in occasione dell’apertura dell’anno sacerdotale, della straordinaria figura di Giovanni Maria Vianney: «Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro» .

2. La teologia: un contenuto adeguato alla formazione dei presbiteri?

Enucleate le caratteristiche fondamentali della formazione integrale del presbitero, possiamo ancor oggi sostenere, in modo convincente, che la ricerca, l’insegnamento e lo studio della teologia siano il sapere più adeguato ad alimentare la vita del sacerdote? O dovremmo piuttosto concludere che, di fronte alla pretesa di altre discipline di comprendere l’esperienza umana di più e meglio di quanto il cristianesimo abbia fatto finora, la teologia abbia esaurito la sua pur preziosa funzione? E ancora: posto che essa non abbia perso il suo valore formativo, in che rapporto dovrà entrare con i saperi nella società attuale, tecnicamente plurale?

Prima di rispondere a queste domande conviene soffermarci un poco sul frangente culturale che caratterizza tale società. In proposito si apre subito un’ulteriore domanda: la grande diversità, spesso generatrice di conflitti, delle mondovisioni, propria dei soggetti che pur sono costretti a vivere insieme, consente ancora di parlare di un’esperienza umana comune? Che dire delle profonde lacerazioni causate dalle numerose pressing issues che caratterizzano l’odierno clima sociale? Mi riferisco alle problematiche che vanno dalla sessualità, al matrimonio e alla famiglia; dalla nascita all’aborto; dalla morte all’eutanasia; dalle libertà individuali alla rilevanza pubblica delle cosiddette visioni “sostantive” (siano esse religiose, agnostiche o atee); da una concezione della democrazia dipendente unicamente da pure procedure pattuite ad una, invece, che la ritiene bisognosa di presupposti; dall’identità dei soggetti comunitari al processo di “meticciato di civiltà”; dal posto del lavoro, del capitale e del profitto alle urgenze di uno sviluppo planetario integrale; dal naturalismo o dal riduzionismo scientifico al riconoscimento dell’irriducibile responsabilità spirituale e morale dell’uomo; dalla libertà della pubblica opinione al dominio della civiltà delle reti; dal rapporto con il creato fino ai presunti “diritti degli animali”; dalla neutralità dello Stato al riconoscimento di una sfera pubblica religiosamente qualificata… e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Una lettura adeguata della società plurale non può non avere come prospettiva privilegiata la vicenda storica del secolarismo. È tale processo infatti, soprattutto nell’area euroatlantica, ad essere in ampia misura la causa dell’attuale configurazione sociale (la società plurale). Senza dover qui riproporre le note precisazioni di vocabolario legate al significato proprio dei termini secolarizzazione (laicizzazione), secolarismo e secolarità , è illuminante rifarsi all’analisi svolta da Taylor nella sua poderosa opera L’età secolare , in cui l’autore formula una triplice articolazione, che individua anche con una triplice fase, del fenomeno della secolarizzazione.

Il primo livello registra il fatto che le società moderne, a differenza delle precedenti, non si considerano più legate nelle loro istituzioni (a partire dallo Stato) a «qualche devozione o fede in Dio» . Le Chiese sono ormai separate dalle strutture politiche e la religione tende a ridursi ad un affare privato.

Su questo primo livello si innesta per Taylor la Secolarizzazione 2 che mostra una «diminuzione della credenza e della pratica religiosa» . In questo senso l’area euroatlantica appare, in grande prevalenza, come un’area ormai secolarizzata. Un simile giudizio è ovviamente assai generale per non dire generico. L’Italia e la Spagna, ad esempio, presentano in proposito un quadro molto diverso rispetto alla Francia o alla Germania e gli Stati Uniti, che fin dall’inizio hanno adottato la separazione tra Stato e Chiesa, continuano a registrare una percentuale assai elevata di pratica religiosa .

Per Taylor tuttavia il nucleo della secolarizzazione delle odierne società euroatlantiche va ricercato più in profondità. Egli parla di una Secolarizzazione 3 che è comune alla 2 e non slegata dalla 1. La sua natura consiste nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre. Siamo passati da una società in cui era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre» . La nascita di un “umanesimo esclusivo”, in cui è diventata concepibile l’eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità terrena dell’umanità, elimina ogni possibilità di una considerazione “ingenua” della fede religiosa e apre il campo a una pluralità di opzioni. Tutti, credenti e non credenti, debbono ormai, secondo Taylor, far riferimento ad un nuovo sfondo “riflessivo” che ha cambiato radicalmente il peso ed il posto della religione nella nostra società.

Per descrivere la fase attuale del processo di secolarizzazione Pierapaolo Donati ha molto acutamente coniato una formula assai efficace: «La società plurale dell’inizio del secolo XXI è caratterizzata da una fondamentale contraddizione: la contemporanea esaltazione delle differenze culturali e delle uguaglianze fra le differenze. La cultura della globalizzazione porta con sé l’idea che siamo “tutti differenti, tutti uguali”» . Questo vale per le “visioni sostantive” ed in modo particolare per le religioni. Paradossalmente l’esaltazione della differenza, nel quadro dello sfondo riflessivo tayloriano, porta all’in-differenza.

In questa sede non è possibile, neppure limitandosi ad uno schema per titoli, delineare l’insieme dei processi storici che hanno prodotto l’odierna «età secolare» .

Due rilievi sono tuttavia utili.

L’età secolare non registra una scomparsa del religioso dalla vita personale e sociale. Senza voler assumere la tesi provocatoria di Rémi Brague, secondo il quale una società secolare semplicemente non può esistere , è tuttavia indubitabile che la nostra età procede riferita al religioso inteso, nel caso limite, come il suo negativo fotografico. Non è un caso che alle espressioni secolarizzazione e secolarismo si sia sostituita quella di società post-secolare. Spaemann ha giustamente rilevato che la formula indica un paradosso: che cosa può significare il post-secolare se non un ritorno al pre-secolare, e quindi al “religioso” ?

Da qui il secondo rilievo. Società post-secolare può significare soltanto l’inedita modalità con cui oggi si presenta il processo di secolarizzazione incominciato – stiamo pensando all’area euroatlantica – con la modernità. Effetti diretti o inattesi, tra loro contraddittori, di tale processo caratterizzano la società post-secolare. Taluni confermano, altri – e sono i più – smentiscono le previsioni d’antan. Basti pensare a come ci appare oggi ingenuo, per stare all’ambito teologico, il tema, in auge a partire dal ’68, di un cristianesimo che, ridotto al “mondo mondano”, parli di Dio in maniera secolare . Ciò ovviamente non ci autorizza per nulla ad acritici entusiasmi per il cosiddetto ritorno del sacro, il cui carattere “selvaggio” è pieno di contraddizioni e di ambiguità .

Possiamo ora tentare una risposta sintetica circa l’attuale necessità della teologia come dimensione della formazione integrale del presbitero. In proposito ci si deve anzitutto rifare allo statuto proprio del sapere teologico. Esso, da una parte, come le altre scienze si rifà, pur nella sua specificità di scientia fidei, all’esperienza elementare di incontro tra l’uomo e la realtà, e alla capacità della persona di ospitare il reale. A differenza però delle altre discipline, che attengono a un aspetto particolare dell’uomo o ad una funzione circoscritta del suo spirito, la teologia investe la totalità del suo essere personale e della sua relazione con Dio. E ciò non in ragione di una conoscenza quantitativamente più completa ed esaustiva sull’uomo o sulla realtà, quanto piuttosto in virtù del fatto che il suo termine ultimo è lo stesso Dio Uno e Trino, che è, propriamente parlando, il soggetto stesso della teologia.

Considerata in quest’ottica e collocata nella giusta prospettiva dell’incontro tra la persona umana e le persone Divine che liberamente le si rivelano, la teologia manterrà necessariamente i tratti che caratterizzano la “drammatica dell’incontro”, a cominciare dal coinvolgimento reciproco dell’integralità delle persone che si incontrano. Ritroviamo qui il contenuto centrale della proposta educativa offerta al candidato presbitero: l’avvenimento di Gesù Cristo reso contemporaneo ad ogni uomo dalla mediazione intrinseca della Chiesa. La teologia rappresenta allora una modalità di relazione tesa ad un sapere del reale e non potrà essere ridotta alla sua mediazione intellettiva. Se saldamente mantenuta in quest’orizzonte, la necessaria dimensione teologica della formazione sfugge immediatamente a uno dei più gravi rischi che sempre la minacciano: l’astrazione intellettualistica . Corollario di questa dinamica è il fatto che la riflessione teologica non può partecipare a posteriori all’avvenimento ecclesiale di Gesù Cristo, ma è costretta a ragionarvi dall’interno. D’altra parte pretendere di poter afferrare l’ “oggetto” del sapere teologico dall’esterno, o pensare che possa essere staticamente osservato, equivarrebbe a disconoscere il fatto che la rivelazione di Dio è fondamentalmente un dono offerto alla libertà dell’uomo. Per approfondire la conoscenza del Mistero della comunione delle persone divine il teologo dovrà allora invocare la Loro amicizia.

La comunicazione che il Dio unitrino fa di se stesso all’uomo implica inoltre una rivelazione dell’uomo a se stesso. La conoscenza di Dio produce cioè una maggiore conoscenza di sé e induce una singolare corrispondenza tra la conoscenza stessa della Trinità e quella di se stessi. Ci troviamo ancora una volta di fronte alla “pretesa” della fede cristiana di rappresentare non qualcosa di giustapposto alla vita, ma lo svelarsi dell’esperienza umana elementare propria di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Si capisce, in quest’ottica, perché il presbitero non sia un semplice addetto alle questioni religiose, bensì il testimone privilegiato di un’umanità compiuta. E si comprende anche perché, come afferma il decreto conciliare Optatam totius, il fine della formazione presbiterale sia pastorale , deve cioè esprimere la natura salvifico-sacramentale della missione della Chiesa. A questo proposito è bene rimuovere l’equivoca opposizione tra pastorale e dottrinale, che troppo spesso condiziona la formazione sacerdotale, minando alla radice la necessaria collaborazione tra Seminari e Istituti di Teologia. La dimensione pastorale, e perciò salvifico-sacramentale, è una dimensione costitutiva della dottrina. Certo non si tratta di risolvere la prima nella seconda, ma di accettare che la loro dualità non comporti un dualismo perché è una all’origine nella stessa figura di Gesù Cristo. Come sostiene Balthasar «il magistero ecclesiastic [e a fortiori la teologia] può ripresentare la verità di Cristo solo sotto il punto di vista della dottrina [e della scienza], non sotto quello della vita, mentre in Cristo vita e dottrina sono identiche. Questa identità è essenzialmente singolare, è legata all’unione ipostatica e può essere imitata dalla chiesa, nella misura in cui questa è composta da uomini, solo in una dualità: come dottrina infallibile nel ministero apostolico e petrino, da una parte, e come santità della vita nella chiesa (mariana) dei santi dall’altra. Anche se nella chiesa ambedue le attualizzazioni del Cristo sono intimamente unite, l’una legata all’altra e ad essa rimandante, tuttavia una non può sostituire l’altra e pretendere di costituire tutta la rappresentazione del Cristo» . La formazione del candidato sacerdote dovrà mirare all’approfondimento della proposta cristiana dall’interno di una unità duale, che sempre implicherà una polarità (tensione) tra il polo petrino e quello mariano. Mantenere l’unità tra i due livelli permetterà inoltre di educare alla tendenziale identità tra persona e missione cui ho accennato in precedenza. Infatti, il pernicioso dualismo che spesso tende a separare la persona del ministro dal suo ministero, spingendolo a ritagliarsi degli spazi “privati” per coltivare il cosiddetto “umano”, si traduce nella sterile opposizione spiritualità-studio e pastorale-studio. Si ha spesso la sensazione che lo studio sia considerato da alcuni candidati al sacerdozio come un fattore ultimamente estraneo a una spiritualità considerata in senso equivoco. Essa è irrispettosa della logica dell’incarnazione propria del cristianesimo perché spinge alla disobbedienza alla circostanza vocazionale della formazione integrale di cui lo studio è dimensione decisiva. La figura del teologo, così come di quella dello studente di teologia, non può mai essere separata dalla missione universale della Chiesa che è l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto nell’oggi della storia.

3. La teologia oggi: una proposta al qui e ora dell’uomo contemporaneo

Con questa breve esposizione abbiamo sinteticamente delineato i tratti fondamentali di una concezione adeguata della teologia e mostrato la corrispondenza profonda tra il suo contenuto e le esigenze della formazione integrale del presbitero. Resta tuttavia da compiere l’ultimo passo. Consiste nel definire in modo più esplicito la posizione che la teologia può e deve occupare nell’odierno clima culturale, cui prima abbiamo fatto riferimento. Esso è segnato, da un lato, dalla frammentazione dei saperi e dall’altro dal pregiudizio che, in forza di una presunta radicale estraneità tra fede e ragione, pretende di privare la teologia della dignità di scienza e di escluderla dal dibattito pubblico.

È necessario ribadire che la pratica teologica non può non rappresentare una modalità con cui il soggetto ecclesiale vive nel qui ed ora delle circostanze storiche a lui offerte. Infatti, in forza della ratio sacramentalis della rivelazione cristiana, la storia, fatta di circostanze e rapporti, lungi dal rappresentare un elemento secondario della vita cristiana è il luogo provvidenziale in cui si realizza la necessaria inculturazione della fede . Questa non conduce a uno svilimento dell’esperienza cristiana, quasi che l’integrità della rivelazione debba corrompersi nel contatto con l’urgenza delle circostanze storiche. Essa richiede piuttosto l’assunzione critica del significato di circostanze, situazioni e rapporti storici e culturali nell’orizzonte della logica sacramentale. È un’esigenza intrinseca alla dinamica sacramentale della rivelazione cristiana.

È perciò fondamentale che la teologia si misuri, in un confronto franco e aperto, con le altre discipline, con le questioni – prima sommariamente richiamate – che, in maniera talvolta drammatica, caratterizzano la vita della nostra società. Ciò avverrà sulla base di una duplice attitudine. Da una parte esibendo l’umile consapevolezza di chi sa di non poter esaurire la conoscenza dell’umano e ha perciò bisogno di non perdere il contatto con quello che accade negli altri rami della scienza. Se pensiamo alle impressionanti ricerche e scoperte in atto, per esempio, nell’ambito della neuroscienza e della biologia, e alle relative questioni etiche ed antropologiche che tali scoperte sollevano, non possiamo pensare che la teologia possa esimersi dal farsi carico di un paragone serrato con questi saperi, pur nel rispetto degli statuti che sono propri di ciascuno di essi e senza avventurarsi nella ricerca di perigliosi quanto equivoci concordismi o eclettismi.

D’altra parte mostrando la conoscenza che l’uomo può raggiungere di sé in forza dell’autorivelazione divina nell’incarnazione di Gesù Cristo (cfr. Gaudium et Spes 22) e affermando tutta la convenienza (cum-venientia) della proposta cristiana. Tanto più in un mondo come quello attuale in cui, come scrive Balthasar «la possibilità di diventare cristiani sta, fra la moltitudine delle concezioni globali a disposizione, come una scelta fra tante». La fede cristiana dovrà allora, sempre secondo il teologo svizzero, «a tutta prima porsi in riga con gli altri concorrenti, ognuno dei quali innalza la sua pretesa di verità universale o quantomeno legittimità, e deve, là sul posto in cui si trova, esaminare la giustezza di tutte queste pretese e riconoscere la loro relativa parte di verità; in questo modo, a partire dal suo punto di vista, nascerà qualcosa come una scala di verità riconoscibili, che si possono coordinare secondo il principio: “chi ha più verità ha più ragione e diritto”» .

Fanno ben sperare, in quest’ottica, talune ancor timide ma già rilevabili aperture all’unità del sapere a partire dall’oggetto provenienti dalle scienze, anche da quelle più tentate di riduzionismo naturalistico. Il superamento della modernità sembra infatti liberare il campo da almeno due ostacoli sorti con essa: l’abolizione delle domande ultime sull’uomo, quelle che secondo Comte non aveva senso porsi, e la riduzione della verità a puro processo storico. È vero che a queste si sono sostituite, nella cultura contemporanea, altre gravi tensioni e contraddizioni, ma ciò non ci impedisce di registrare un’esigenza verso l’unità del sapere che spinge non pochi cultori di varie discipline a confrontarsi con altri saper e con i e loro metodi. In alcuni ambiti della ricerca scientifica, persino in quelli più tentati di riduzionismo naturalistico, come per esempio quello delle neuroscienze o della biologia, non mancano ricercatori convinti dell’impossibilità di raggiungere un sapere compiutamente oggettivante sull’uomo e sulla realtà. L’uomo non può essere ridotto al suo proprio esperimento.

Al tempo stesso c’è ormai chi ritiene riduttivo il ricorso alla pura indagine interdisciplinare e propone metodi e saperi transdisciplinari che, evitando di separare la parte dal tutto, sono maggiormente in grado di abbracciare sinteticamente la realtà . A ciò va aggiunta la progressiva presa di coscienza della non neutralità dell’impresa scientifica, le cui scoperte e applicazioni incidono in profondità sulle diverse sfere della vita umana e contribuiscono alla sua stessa definizione. Di qui la necessità che i saperi non solo si parlino fra loro, ma sappiano parlare all’uomo e dell’uomo, inteso nella sua integralità e nella sua unità duale di anima e corpo.

Tale salutare consapevolezza non solo apre uno spazio di dialogo e di paragone tra i diversi ambiti della conoscenza, compresi quelli che derivano dalle tradizioni religiose, ma rende ormai del tutto anacronistica la separazione tra sapere scientifico e sapere umanistico che purtroppo non ha ancora finito di determinare i più diffusi metodi pedagogici. L’apertura di quest’orizzonte è un bene se evita di cadere in uno storicismo ottimistico come quello, ad esempio, della cosiddetta bioconvergenza, nuova prassi scientifica che fonde avanzate tecnologie informatiche e scienze biologiche.

La tensione ad una maggior unità del sapere, dal punto di vista dell’oggetto, non potrà però avvenire a carico di una disciplina che subordini a sé tutte le altre attraverso l’elaborazione di sistemi comuni a tutte le scienze. Essa dovrà piuttosto far leva su quell’allargamento della ragione più volte richiamato da Benedetto XVI e sul riconoscimento delle sue multiformi modalità di esercizio, cui corrispondono quelli che Maritain chiamava i diversi gradi del sapere. Anche da questo punto di vista appare chiaro che la tensione alla maggior unità del sapere oggettivo richiede un orizzonte più largo della pura interdisciplinarietà.

Non si tratta ovviamente di una verità astratta da imporre ad altri soggetti o ad altre mondovisioni, quanto di proporre all’uomo contemporaneo, distratto e disilluso, la bellezza di Cristo, Verità vivente e personale. Che la teologia possa legittimamente misurarsi con altri saperi senza rinunciare al proprio statuto specifico è stato recentemente ed efficacemente mostrato da Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate. Confrontandosi con la scienza e con la ragione economica (CV 36), il Papa teologo ha declinato praticamente il suo precedente invito all’allargamento della ragione, mostrando come né la fede, né l’esperienza di vita delle comunità cristiane siano estranee alle più urgenti esigenze del mondo. È un’affascinante provocazione lanciata alla libertà di ogni uomo e un prezioso suggerimento elargito alla vita di tutta la Chiesa.

Di questa sfida deve farsi carico anzitutto la formazione dei presbiteri.