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L’IDENTITA’ E LA SPIRITUALITA’ DEL PRESBITERO – Si è tenuto giovedì 7 ottobre nella Basilica di San Marco a Venezia il tradizionale incontro di inizio del nuovo anno pastorale con i sacerdoti del Patriarcato. Qui di seguito viene pubblicato il testo dell’istruzione al clero pronunciata dal Patriarca:

Note introduttive 

Testo guida: Gv 10,1-18 

1 In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. 7 Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. 11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio“. 

1. Pastori in Cristo

La scelta di questo brano evangelico con cui intendiamo oggi approfondire un poco il tema della identità e della spiritualità del presbitero è legata, da una parte, al cammino da noi effettuato lungo l’anno sacerdotale, dall’altra all’approfondimento domandato, già da qualche anno, da parte dei Vicari foranei e del Consiglio di curia, sfociato in una doppia Due giorni, svoltasi l’una in gennaio, l’altra in questo settembre al Cavallino.

La scelta del celebre passaggio del capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, oltre che dal suo intrinseco nesso con il nostro tema, è corroborata anche dal fatto che il nostro amato predecessore, il Beato Giovanni XXIII, ha a lungo riflettuto su questo testo giungendo ad elaborare una peculiare e significativa pratica e dottrina sul rapporto pastore-padre.

Roncalli interpreta e vive il suo ministero episcopale richiamandosi all’immagine evangelica del Buon Pastore, come mette in evidenza scrivendo il 17 maggio 1953, poco dopo l’ingresso solenne in diocesi, durante gli esercizi spirituali: «Ciò che mi prende è la gravità delle mie responsabilità di pastore: non sono più di me, ma delle anime dei miei fedeli». In una comunicazione in occasione del secondo anno del suo episcopato veneziano, il 23 febbraio del 1954, pensando alla diocesi e parlando del suo compito, scrive: «Qui si vive come in famiglia, con rispetto, con sincerità, con evangelica carità. Riprenderò dunque il mio passo. “Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis: il buon Pastore dà l’anima sua per le sue pecorelle”. Questo è tutto per me: il mio proposito, la mia vita»[1]. D’altra parte, proprio questo chiede a Gesù, buon pastore, nel corso degli esercizi spirituali con l’episcopato triveneto nel maggio 1955: «Per altro il pastor deve essere soprattutto bonus, bonus. Diversamente senza essere lupus come il mercenarius, rischia, se dormitat, di divenire inutile e inefficace. O Gesù, bone pastor, che il tuo spirito mi investa tutto: cosicché la mia vita sia, in questi anni ultimi, sacrificio ed olocausto per le anime dei miei diletti veneziani»[2]. Queste ultime parole aiutano a comprendere come il suo ripetuto meditare il capitolo 10 del Vangelo di Giovanni corrisponda alla riscoperta continua delle sorgenti più autentiche della sua vita di vescovo, che proprio nella dimensione pastorale – che tanto peso avrà nella concezione roncalliana del Concilio Vaticano II – trova il suo modo d’essere.

È questo, dunque, lo stile, ispirato dalla figura di Gesù, da cui è consapevolmente caratterizzato il servizio veneziano del Beato.

In seguito, nella prima e terza allocuzione al clero durante il sinodo del 1957, Roncalli svilupperà ulteriormente la riflessione sul pastore, interpretando il pastor come pater: la “pastoralità” diventa paternità e questa dice il “farsi tutto a tutti” per salvare ad ogni costo qualcuno[3].

Dalla lettura delle Agende Veneziane questa fisionomia di Roncalli emerge non tanto nella forma di una riflessione articolata, bensì attraverso il racconto delle continue visite, incontri, attività che popolano la sua giornata. Con semplicità il Patriarca constata il 9 novembre 1957: «A Venezia. Sempre lieto lo spirito nella constatazione del dovere compiuto giorno per giorno».

Il tema del Buon Pastore raggiunge così il cuore della nostra persona, cioè il contenuto oggettivo della nostra vocazione, da cui non può non dipendere la nostra identità e a cui non può non rifarsi ogni discorso sulla spiritualità del presbitero. Commenta in proposito Benedetto XVI: «Si può essere pastore del gregge di Gesù Cristo soltanto per mezzo di Lui e nella più intima comunione con Lui. È proprio questo che si esprime nel Sacramento dell’Ordinazione: il sacerdote mediante il Sacramento viene totalmente inserito in Cristo affinché, partendo da Lui e agendo in vista di Lui, egli svolga in comunione con Lui il servizio dell’unico Pastore Gesù, nel quale Dio, da uomo, vuole essere il nostro Pastore»[4].

La vita di tutti noi presbiteri, in forza del sacramento dell’Ordine, è letteralmente definita da questo essere stati presi a servizio dell’unico Pastore, per vivere, in comunione, con Lui a favore del Suo popolo.

Questo essere stati presi e inseriti in Lui dice compiutamente la salvezza che Cristo ha portato agli uomini. Infatti, Sant’Agostino ci ricorda che «nessuno può avere speranza vera e certa di vivere in eterno, se non riconosce che Cristo è la vita, e non entra per la porta dell’ovile»[5]. Noi per primi riconosciamo che Gesù, il Pastore, è la vita. E non sarà inutile ricordarci una volta in più che le espressioni vita eterna, vita in abbondanza (cfr Gv 10, 10) e salvezza (cfr Gv 10, 9) sono sinonimi ed indicano la piena riuscita dell’io, il realizzarsi della promessa inscritta nella vocazione che Dio dona ad ogni uomo. Nell’esperienza cristiana, infatti – ciascuno di noi custodisce indelebilmente dei volti che lo testimoniano – il al compito affidato dal Padre sempre realizza il compimento dell’umana personalità.

 2. “Il campo è il mondo”

Prima di procedere nella nostra riflessione conviene però fare subito un’importante precisazione. È ovvio per noi tutti, al punto che rischiamo normalmente di darlo per scontato, che il nostro essere pastori ha senso se è in favore del gregge, e del gregge non indistintamente preso ma assunto concretamente in ogni persona, in particolare nella pecorella smarrita. Il presbiterato è un dono che ultimamente si spiega solo con l’offerta della nostra vita a tutto il popolo di Dio e, per usare la celebre espressione di Karl Barth, al nostro fratello uomo. Detto con le diverse sfumature dei Vangeli Sinottici: Il campo è il mondo (Mt 13,38). Pertanto riflettere sulla nostra identità e spiritualità non può mai essere separato dalla nostra missione, cioè da una apertura a 360 gradi che ci conduce a vivere tutte le dimensioni del mondo, in tutti gli ambiti dell’umana esistenza. Basta guardare al nostro stesso ministero quotidiano che si colora di diverse forme a partire dalle diverse vocazioni e missioni personali. E questa pluriformità lungi dall’impoverire la ricchezza del nostro presbiterio non cessa di potenziarla. Questa costatazione fornisce una decisiva chiave di lettura della figura del Buon Pastore-Padre come Persona salvifica. Rende infatti pienamente comprensibile l’interesse per la venuta nel mondo del Salvatore: nella persona storica di Gesù Cristo si trovano veramente unificate e proiettate, nell’escatologia del mondo nuovo/cieli nuovi, tutte le dimensioni antropologiche. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo senza il quale l’interesse per Cristo è nominale e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto.

La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede. Essa invece documenta che  non esiste dualismo né frattura tra l’umano ed il cristiano. Anzi, distinguendo nell’unito le due imprescindibili dimensioni, può trovare risposta la domanda-scommessa divenuta oggi bruciante: “Chi vuole essere l’uomo del terzo millennio?”. Questa posizione riceve una conferma molto efficace da una bella affermazione del nostro Protopatriarca San Lorenzo Giustiniani, contenuta nel volume La passione di Cristo che mi ha folgorato: «… l’esperienza di ogni giorno è sempre una prova luminosa e fortemente persuasiva per tutto quanto intraprendiamo nella nostra vita… non disdegniamo di prendere l’esempio dalle cose umane per attuare quelle spirituali, e giungere così mediante gli ammaestramenti del mondo visibile alla conoscenza dei misteri invisibili»[6]. 

3. Immedesimati al Buon Pastore

Proviamo, quindi, a immedesimarci con il brano del vangelo del Buon Pastore, per individuarne alcuni tratti fondamentali. Sono tratti di Gesù e perciò nostri, almeno come orizzonte e strada segnata alla nostra vita sacerdotale.

Il primo è espresso dall’evangelista attraverso un’opposizione: «Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore» (Gv 10, 1-2). Il ladro si avvicina alle pecore solo per impadronirsene. Per servirsene invece che per servirle. «il Figlio dell’uomo infatti – ci ricorda San Marco – non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10, 45). Sappiamo che la Scrittura utilizza i termini ladri e briganti rispettivamente per Giuda e per Barabba. E questo indica che anche per noi è sempre in agguato la tentazione dello stesso peccato. Esso si traduce in forme di rapina e di violenza certo molto meno evidenti, più sottili, ma altrettanto distruttive. Come tante volte ci siamo ripetuti, siamo chiamati a vivere un amore che libera, non lega a sé[7].

Solo Colui a cui le pecore appartengono le conosce «e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10, 3). Ciascuno di noi è chiamato per nome dal Buon Pastore – come la Maddalena dal Risorto – e, come lei, possiamo riconoscerne la voce. Ecco l’affascinante e imprescindibile dinamica della vita come vocazione, che permette la crescita dell’uomo nuovo «fino a raggiungere la piena misura di Cristo» (Ef 4, 13).

Molto acutamente Giovanni ci mette subito di fronte all’orizzonte sterminato della compagnia del Buon Pastore. Egli non rinchiude le pecore nell’ovile, ma «le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse» (Gv 10, 3-4). Il condurre fuori allude, in primo luogo alla destinazione escatologica dell’esodo proposto da Gesù ai Suoi: la vita è un pellegrinaggio, noi siamo cittadini del cielo in cammino lungo questa vita verso la patria definitiva. La caparra di vita eterna che fin da ora il cristiano vive – in forza della Vita divina a cui partecipa per il battesimo e che si esprime nella sua vita come fede, speranza e carità nella chiesa- non lo attarda su questo mondo, ma lo aiuta a comprendere ancora di più quale sia la sua dimora definitiva.

Ma questo fuori evangelico allude anche allo spazio sconfinato (fino agli estremi confini della terra) della missione che il Pastore affida ai Suoi. A questo proposito, gli studiosi del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis evidenziano che la riflessione del Vaticano II sul ministero e sulla vita dei presbiteri è inserita nell’orizzonte missionario proprio di tutta la Chiesa. E così l’inizio del n. 2 – il paragrafo più importante di tutto il decreto poiché parla della natura del presbiterato – imposta con chiarezza in termini missionari tutta la riflessione: «Nostro Signore Gesù, “che il Padre santificò e inviò nel mondo” (Gv 10, 36), ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione dello Spirito che egli ha ricevuto: in esso, infatti, tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per mezzo di Gesù Cristo, e annunziano le grandezze di colui che li ha chiamati dalle tenebre nella sua luce meravigliosa. Non vi è dunque nessun membro che non abbia parte nella missione di tutto il corpo [attenzione, questo dato è fondamentale!], ma ciascuno di essi deve santificare Gesù nel suo cuore e rendere testimonianza di Gesù con spirito di profezia» (PO 2).

Il Padre ha santificato, ha consacrato e inviato Gesù al mondo -in questa affermazione giovannea vediamo l’impossibilità di separare consacrazione e missione, sacramento e ministero- perché il mondo sia salvo. Gesù dice infatti: «se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). La promessa che Gesù fa a chi lo segue, e di cui il discepolo sperimenta le primizie (albore di resurrezione), viene declinata in queste forme verbali. Sarà salvato: niente del suo io andrà perduto; entrerà ed uscirà: è un’espressione popolare che si riferisce, mediante l’idea della totale libertà di movimento, alla nuova dignità del figlio nel Figlio, dotato di una libertà sovrana; troverà pascolo: un’espressione che allude alla soddisfazione piena e definitiva offerta da Cristo Pastore. Già con la moltiplicazione dei pani e col discorso nella sinagoga di Cafarnao questo concetto era stato affermato: dopo che sul monte tutti avevano mangiato a sazietà e ne era avanzata una grande quantità, segno della sovrabbondanza del dono messianico, Gesù disse esplicitamente: «chi viene a Me non avrà più fame e chi crede in Me non avrà più sete» (Gv 6, 35). E anche alla samaritana aveva fatto una promessa simile (cfr Gv 4,13-14).

E come ci salva Gesù? «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 11). Va fino in fondo nel dono di Sé, carattere costitutivo dell’amore oggettivo ed effettivo: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1). Vive con i Suoi la più profonda reciproca conoscenza – «conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10, 14-15) – in una relazione sponsale che si radica nell’amore Trinitario e vi partecipa. Emerge con chiarezza che il primo aspetto (dono di sé fino a dare la vita) e il secondo (profonda conoscenza reciproca) si trovano non l’uno accanto all’altro, ma l’uno dentro l’altro, poiché la conoscenza tra il Padre e il Figlio fa tutt’uno con la loro perfetta donazione reciproca e perciò anche la conoscenza tra Gesù e i Suoi fa tutt’uno con la perfetta donazione di Gesù ai Suoi. Il che implica inclusivamente, come dice von Balthasar, l’unità di conoscenza e di dedizione della vita del cristiano, in particolare del presbitero, per il suo Signore.

Mediante il sacramento dell’Ordine il Signore ha chiamato ognuno di noi a partecipare in modo singolare a questa Sua missione. Dentro questo orizzonte si colloca la nostra vocazione presbiterale. L’opzione, da parte del Vaticano II, della categoria di presbitero rispetto a quella di sacerdote, ha tra l’altro lo scopo di radicare più saldamente il ministero presbiterale nel sacerdozio oggettivo e soggettivo di Cristo. Come dice san Tommaso: «Unus sacerdos vester, alii autem ministri eius». Tuttavia parlare di presbiterato non significa ridurre il ministero a una funzione. In altre parole: il presbitero non è un funzionario della comunità. Certamente noi siamo solo ministri, ma ministri di Cristo.

Ma ritorniamo sullo stesso numero 2 di Presbyterorum Ordinis, per ascoltare come vi si descrive la partecipazione alla consacrazione e missione sacerdotale di Gesù da parte dei chiamati: «Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però “non tutte le membra hanno la stessa funzione” (Rm 12,4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell’ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale. Pertanto, dopo aver inviato gli apostoli come egli stesso era stato inviato dal Padre, Cristo per mezzo degli stessi apostoli rese partecipi della sua consacrazione e della sua missione [ecco che compaiono di nuovo i due termini in intrinseca unità!] i loro successori, cioè i vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai presbiteri. Questi sono dunque costituiti nell’ordine del presbiterato per essere cooperatori dell’ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo» (PO 2).

Il Signore, in questo suo farci partecipi della Sua missione – «E quando ha spinto fuori…» – non ci lascia  soli: «cammina davanti a esse» (Gv 10, 4). Il dono oggettivo della partecipazione alla consacrazione e alla missione di Gesù, così come ci viene conferito dal sacramento dell’Ordine, chiama in causa la libertà del discepolo invitata a seguire il Signore, a lasciarsi accompagnare dal Buon Pastore. Ovviamente la prima ‘mossa’ è Sua, ma poi (e questo ‘poi’ non è anzitutto temporale) entra in gioco la nostra libertà. Niente avviene meccanicamente, senza il gioco della libertà. Seguirlo tocca a noi. Cristo chiede a ciascuno un’adesione libera ed esplicita alla sua proposta. Indica la via percorrendola Egli stesso. O ancora più chiaramente: Cristo indica la via da percorrere personificandola visibilmente nella propria umanità: «Io sono la via» (Gv 14, 6). 

4. Chiamati alla conversione

Nell’immedesimazione con la Sua persona domandataci da Gesù consiste la nostra conversione. Il richiamo alla conversione è uno dei più frequenti ed accorati del magistero del Santo Padre di quest’ultimo anno, anche alla luce dei gravissimi peccati commessi da parte di alcuni ministri ordinati.

Dalla parola conversione noi spesso, consapevolmente o inconsapevolmente, ci difendiamo perché abbiamo paura che ci venga tolto qualcosa; invece è l’esatto contrario: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). La ‘strana necessità’ del sacrificio, come abbiamo detto al Redentore quest’anno, è condizione perché l’amore sia effettivo.

E questa conversione ha inizio dal riconoscimento di essere di Cristo, di appartenerGli da sempre e per sempre. La vita come vocazione, infatti, si può vivere solo nell’appartenenza. Tutti abbiamo in mente la scandalosa vicenda della lavanda dei piedi nell’incalzante e drammatico dialogo tra Gesù e Pietro, ben rappresentato nei mosaici di questa Basilica patriarcale: «Se vuoi aver parte con me, amico mio, i piedi te li devi lasciar lavare, perché non farti lavare i piedi, ultimamente, è un orgoglio. È un modo per dire che tu non vuoi la salvezza che io ti sto portando. Tu non mi tratti come Salvatore».

Il fatto che nessuno può darsi la vita da sé, ma può solo riceverla da un altro ci sta davanti come un’evidenza incontrovertibile. Nessun uomo può non appartenere. Se uno dice di non appartenere a nessuno se non a se stesso, di fatto appartiene ai poteri dominanti, perché l’uomo è fatto per appartenere (come ci documentava la sapienza cristiana delle vecchiette delle nostre parrocchie quando ci incontravano da bimbi: “Tu, di chi sei figlio?”). 

5. L’unità di vita del presbitero

Il cammino della conversione che tutti noi siamo chiamati a compiere non potrà in nessun modo essere pensato solo come una pura premessa per lo svolgimento del nostro ministero. Al contrario, esso si identifica con il cammino di santità proprio del ministero stesso e trova in esso l’ambito di compimento. In proposito possiamo ricorrere ancora una volta all’insegnamento conciliare sul ministero e sulla vita dei presbiteri, in uno dei suoi brani più celebri e riusciti. Mi riferisco al numero dedicato alla “carità pastorale”.

Insegna il Concilio: «Per ottenere questa unità di vita [con l’espressione unità di vita ci si riferisce alla conversione, alla santità di cui stiamo parlando] non bastano né l’organizzazione puramente esteriore delle attività pastorali, né la sola pratica degli esercizi di pietà, quantunque siano di grande utilità». Promulgate quasi mezzo secolo fa, queste parole conservano tutta la loro freschezza e costituiscono una indicazione preziosa per la nostra vita oggi. Sotto sotto, infatti, siamo spesso convinti che, alla fine, basterebbe organizzarsi un po’ meglio oppure essere più seri nelle pratiche di pietà, perché il nostro cuore sia “soddisfatto”, cioè, compiuto, un cuore reso felice dal Signore. E così siamo presi da sconcerto quando percepiamo che la soddisfazione non arriva né da un’ottima organizzazione, né da uno scrupoloso ma meccanico adempiere a tutte le pratiche di pietà! Entrambe le cose hanno il loro posto nella vita di un presbitero, ma l’unità della nostra persona non dipende da queste.

Prosegue questo decisivo numero 14: «L’unità di vita può essere raggiunta invece dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l’esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera. In effetti Cristo, per continuare a realizzare incessantemente questa stessa volontà del Padre nel mondo per mezzo della Chiesa, opera attraverso i suoi ministri. Egli pertanto rimane sempre il principio e la fonte della unità di vita dei presbiteri. Per raggiungerla, essi dovranno perciò unirsi a lui nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato. Così, rappresentando il buon Pastore, nell’esercizio stesso della carità pastorale troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà la unità nella loro vita e attività. D’altra parte, questa carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, cosicché lo spirito sacerdotale si studia di rispecchiare ciò che viene realizzato sull’altare» (PO 14).

Il principio e la fonte dell’unità di vita, della conversione, della santità e, quindi, del compimento e soddisfazione delle nostre persone non è altro che lo stesso Cristo Gesù, il Buon Pastore. O meglio, l’unione con Lui che ci consente di offrire con Lui il dono della nostra vita. Questa e solo questa è la carità pastorale cui ultimamente fa riferimento l’identità e la spiritualità del presbitero. E non è un caso che in proposito il decreto citi in nota la celeberrima affermazione di Sant’Agostino: «Sia dovere d’amore pascere il gregge del Signore»[8].

Questa deve essere la nostra speranza più elevata. Traggo questa espressione, e non vi sembri irriverente in questa sede, da una terribile affermazione contenuta nel Così parlò Zarathustra del tragico profeta anche del tempo presente, Friedrich Nietzsche: «Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: salva restando la salute. ‘Noi abbiamo inventato la felicità’ – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neppure mete effimere. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito che ora striscia per terra… Ma, ti scongiuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!».

NOTE:
[1] Scritti e discorsi I, 175.
[2] Giornale di un’Anima 292.
[3] Scritti e discorsi III, 318-320 e 349.
[4] Benedetto XVI, Omelia in occasione dell’ordinazione di 15 diaconi della Diocesi di Roma, 7 maggio 2006.
[5] Agostino, Tract. in Jo 45, 2.
[6] Lorenzo Giustiniani, La Passione di Cristo, Opera Omnia, V, Marcianum Press, Venezia 2010, 3.
[7] In proposito, il Papa, descrivendo l’amore proprio dei pastori, afferma che esso si attua «solo se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l’uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto».
[8] Agostino, Tract. in Jo 123, 5.