Viene qui proposto un articolo del Patriarca pubblicato da “L’Osservatore Romano“, sabato 21 maggio 2011:
Angelo Scola
Ogni autentica esperienza dell’amore si fonda su un’evidenza elementare: la persona, in quanto tale, è corpore et anima unus, come insegna Gaudium et spes (n. 14). L’amore e l’amare sono di tutto l’uomo e non sopportano alcun dualismo né alcuna separazione. Ogni divisione inflitta agli amanti nell’esperienza concreta del loro amore ha l’amaro sapore della violenza.
Oggi, in Occidente, una tra le più diffuse radici del dualismo antropologico è una sorta di «spiritualismo disincarnato». L’uomo, contro ogni immediata evidenza, non viene più considerato come unità duale di anima e di corpo, ma viene ridotto ad un’unica dimensione. A parole si esalta lo spirito, ma poi ci si concentra quasi esclusivamente sul corpo riduttivamente considerato, come con sempre maggior successo sostengono alcune correnti della neuroetica. Nulla di più lontano dalla equilibrata visione cristiana della persona. Per essa l’autoevidenza del corpo veicola la dimensione spirituale dell’io. La visione cristiana, infatti, parla del corpo come sacramento di tutta la persona.
Paradossalmente, la più grave conseguenza di questo sguardo «mutilato» sull’umano è una pesante svalutazione del corpo. Esso non viene visto in tutta la sua capacità espressiva della libertà dell’uomo. In un certo senso non è considerato come pienamente «umano», ma ridotto a puro bios.
Invece, l’esperienza dell’amore, a partire dall’eros non più visto in opposizione all’agape (Deus caritas est, nn. 3-4), dice la profonda unità di anima e corpo che caratterizza l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. «L’epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: “O Anima!”. E Cartesio replicava dicendo: “O Carne!”. Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso» (Deus caritas est, n. 5).
Ognuno di noi è uomo o come maschio o come femmina: questo dato, come insegnano anche talune importanti correnti della psicanalisi, è assolutamente insuperabile. L’uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Una differenza che pervade tutto l’essere umano: in ogni sua cellula, infatti, il corpo dell’uomo è maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale si presenta così come quella dimensione dell’io che lo apre all’altro. Un fattore intra-personale, non anzitutto inter-personale. Una capacità costitutiva della persona come tale che ne segna la strutturale insufficienza svelandole l’altro come risorsa: «Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”» (Genesi 2, 18). L’altro è per me tanto inaccessibile quanto necessario. La differenza sessuale rappresenta per ogni persona una condizione costitutiva in cui l’uomo fa l’esperienza della propria contingenza creaturale. «La decisione del creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina o come maschio» (Mulieris dignitatem, n. 1) intende educarci a comprendere il peso dell’io e il peso dell’altro. Si rivela così come via privilegiata di accesso all’esperienza elementare, comune a ogni uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla cultura, dalla religione. Si tratta di imparare l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io. E lo si impara in quanto creatura «una di anima e di corpo».
Da dove viene, allora, la riduzione dell’uomo a una «sola dimensione»? Viene da molto lontano.
L’uomo è finito — nasce, cresce, invecchia, si ammala e muore — irrimediabilmente legato alla contingenza dal tempo e dallo spazio. Eppure il suo cuore brucia di inestinguibile sete! Desidera essere amato e amare per sempre e in modo esclusivo (cfr. Deus caritas est, n. 6). E la sua ragione è inarrestabile nella ricerca della verità tutta intera. Egli appare come l’enigmatico portatore di una singolare eccentricità: è finito, eppure capace di infinito (capax Dei, come dicevano i medioevali).
Interpretando questa evidente e strutturale «sporgenza» dell’anima sul corpo come un’irriducibile inconciliabilità, il pensiero occidentale — complice anche una lettura non sempre rigorosa di Platone (cfr. Joseph Ratzinger, Escatologia, Assisi 2008, 144-147) — ha elaborato una visione dualistica secondo la quale soltanto l’anima, una volta liberatasi dal corpo — inesorabilmente condannato alla corruzione e alla morte — sarebbe destinata all’immortalità.
Non è difficile capire che da questa concezione deriva quella svalutazione del corpo che, sia pure con diverse espressioni e diverso peso, avrà tanta fortuna nella storia dell’uomo, influenzando a tratti anche certe letture cristiane.
Ben diversa è la visione che emerge dalle Scritture! Prima di creare la donna, Dio aveva presentato ad Adamo tutti gli esseri viventi perché imponesse loro la propria signoria, ma Adamo non aveva trovato «un aiuto che gli fosse simile» (Genesi 2, 20). Attraverso il corpo, plasmato da Dio, in cui Dio stesso aveva soffiato l’alito della vita — chiamando l’uomo a partecipare alla sua stessa natura («Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza», Genesi 1, 26) — ogni persona scopre la propria unicità, si riconosce irriducibile a tutti gli altri esseri viventi. Ma proprio lo stesso corpo che lo ha condotto alla scoperta della propria «solitudine», indica al «primo uomo» la strada per uscirne. La corporeità, infatti, non si dà mai in modo astratto, essa si dà sempre dentro la differenza sessuale. La differenza sessuale, inscritta nell’io corporeo, apre la persona a quella possibilità di agape che la compie (cfr. Deus caritas est, n. 6). L’uomo non è a immagine di Dio solo in forza del suo essere persona singola, ma lo diventa altresì in forza della communio personarum tra l’uomo e la donna (Mulieris dignitatem, nn. 6-8).
Attraverso il corpo l’uomo riconosce la propria sublime dignità che lo fa dominus di tutte le altre creature. Vicino, eppure irrimediabilmente distante da esse. Ancora, nel suo corpo l’uomo scopre la tensione all’unità con il tu (la donna per l’uomo e viceversa) che gli diventerà familiare fino all’una caro.
I due poli del disegno originario sull’uomo, così come emergono dal Libro della Genesi — la sua irriducibile unicità e la sua strutturale relazionalità — individuano così la natura personale dell’io. La nozione di persona, nella sua pienezza, è tutta cristiana. Infatti, anche se il significato del termine affonda le sue radici nelle civiltà precristiane, esso assume la sua compiuta fisionomia dalla rivelazione di Gesù Cristo, la seconda Persona della Trinità, il Figlio di Dio incarnato. In ultima analisi, la persona umana è l’uomo che vive la sua umanità secondo la forma dell’umanità di Cristo.
L’intera civiltà europea, di cui l’Occidente è figlio, è costruita intorno al perno inviolabile della singola persona. La prospettiva antropocentrica rinascimentale o le Dichiarazioni dei diritti del Settecento, su cui si fondano tutte le Costituzioni democratiche moderne, non sarebbero concepibili al di fuori di questo essenziale riferimento cristiano. E le aree culturali del globo — come l’Oriente asiatico o il mondo islamico — che non hanno come humus la fede cristiana sembrano faticare maggiormente a pensare il singolo nella sua unica, irripetibile e autonoma dignità.
Nell’orizzonte della persona «una» di anima e di corpo appare il significato della differenza e dell’unità di eros ed agape (Deus caritas est, nn. 3-8).
«Ti ho amato di un amore eterno» (Geremia 31, 3): dall’eterno ogni singolo è custodito dall’amore personale di Dio. All’origine dell’io — come abbiamo visto considerando la differenza sessuale — c’è sempre un Tu. Perché io incominciassi ad esistere è stato necessario che un a/Altro mi abbia voluto. Perché io continui ad esistere pienamente è necessario che un a/Altro continui a volermi.
Nell’immediatezza del suo essere sempre situato nella differenza sessuale l’io, lentamente, attraverso «un cammino di ascesa e di purificazione» che realizza interamente l’amore (cfr. Deus caritas est, n. 6), si educa a quell’essere per l’altro (pienezza della libertà) che apre all’amore per il vero bene di sé.
L’uomo non può produrre nessun atto di amore effettivo rinunciando alla totalità di anima e corpo di cui è costituito.
Per questo il sacramento del matrimonio, oltre che il reciproco consenso degli sposi, domanda anche la loro unione carnale aperta alla vita.
Essendo il corpo sacramento di tutta la persona, si comprende bene perché Gesù si consegni alla morte nel corpo. Se Dio non si fosse incarnato per morire in nostro favore, noi uomini non riusciremmo a pensarlo come nostro Salvatore. E questa logica dell’incarnazione si perpetua nell’Eucaristia, nel corpo ecclesiale, nella compagnia vocazionale della famiglia o della consacrazione.
La Chiesa propone agli uomini di vivere l’amore, in tutte le sue manifestazioni, come occasione privilegiata per riconoscere il proprio vero volto e imparare l’agape come strada che conduce al Paradiso, dove, per dirlo con gli impareggiabili versi di Dante, «come la carne gloriosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta» (Paradiso XIV, 43-45).