L’EDUCAZIONE COME ANTIDOTO ALLA VIOLENZA E AL FONDAMENTALISMO – Vengono pubblicati qui di seguito ampi stralci della relazione pronunciata nella mattinata di lunedì 21 dal Patriarca al convegno del Comitato Scientifico di Oasis a Beirut sul tema «L’educazione come paideia: una proposta per il nostro tempo» e proposti dall’Osservatore Romano:
Angelo Scola
L’educazione, in prima approssimazione, è quel processo fatto anzitutto di buone relazioni e di pratiche virtuose, di trasmissione (traditio) di un’interpretazione complessiva della realtà, offerto alla verifica della libertà dell’educando. Parlarne in Libano è poi un’opportunità straordinaria perché questo è un Paese che ha scelto di legare le proprie sorti al successo o al fallimento dell’impresa educativa. Qui l’educazione si rivela come il caso serio per eccellenza: dove riesce, assicura un «essere-insieme» — «convivenza» mi pare un termine riduttivo e logoro — che si è guadagnato l’ammirazione di tutto il mondo; ma quando fallisce, lascia il campo alle peggiori violenze.
Eppure — non è il caso di nasconderselo — l’impresa educativa è in affanno un po’ a tutte le latitudini. Lo è certamente in Occidente, dove ormai si parla apertamente di «emergenza educativa» e dove non di rado sembra smarrita l’idea stessa di educazione, ma lo è anche nel resto del globo. Come scrive con lucida critica l’intellettuale algerino Mustapha Cherif, già ministro dell’Insegnamento superiore e della Ricerca scientifica, «nel mondo musulmano la società è presa tra due fuochi: quello degli ignoranti che censurano la società e la livellano verso il basso e quello dei gruppi che praticano un mimetismo ispirato a un modernismo immorale». In molte società post-coloniali il sistema delle scuole statali e non-statali non riesce ancora ad assicurare un’istruzione di massa di qualità. Eppure — scrive ancora Cherif — «nella difesa della propria sovranità un Paese dipende dalla capacità di produrre e assimilare conoscenze». In molti casi è la questione linguistica che diventa specchio del difficile rapporto con la modernità. Che cosa significa per uno studente ricevere la formazione umanistica e religiosa nella propria lingua nazionale e quella scientifica in inglese o francese? Non si insinuerà l’idea che le due aree del sapere siano incomunicabili, aprendo la strada ad atteggiamenti schizofrenici che facili concordismi tra scienza e fede non possono sperare di guarire?
Per educare occorre un’idea di uomo e soprattutto una pratica dell’humanum. Non un’idea astratta quindi, ma quella inevitabilmente legata all’esperienza integrale ed elementare di ogni singolo. Redemptor hominis afferma con convinzione: «Non si tratta dell’uomo astratto, ma reale, dell’uomo concreto, storico». Purtroppo però l’idea di uomo implicita in buona parte della prassi educativa corrente, certamente in Occidente, ma anche a livello globale, per quanto concerne almeno la formazione delle élites transnazionali, è sempre più quella di un soggetto scisso: da un lato starebbe l’oggettivismo razionale e, dall’altro, come complementare, il soggettivismo emotivo. Solo la prima sfera sarebbe di pertinenza dell’educazione, che consisterebbe pertanto in una corretta trasmissione di informazioni, tecniche, abilità e competenze. Educazione in questa prospettiva diventerebbe dunque sinonimo di addestramento all’uso di una ragione per giunta ridotta alla sua componente strumentale. Fuori dal campo della ragione, e in ultima analisi dell’educazione, giacerebbe invece il mondo degli affetti, esclusivo dominio di un soggetto che si costruisce e si inventa in un’autonomia tendenzialmente autoreferenziale e pericolosamente fragile. Inoltre, si deve almeno accennare al fatto che questa concezione dualista dell’umano sta sempre più cedendo il passo a un positivismo assoluto. Quello che, soprattutto in forza delle strabilianti scoperte delle neuroscienze e delle bioconvergenze, riconduce tutte le espressioni della sfera emotiva, affettiva e morale a pure attività cerebrali che in prospettiva potrebbero, secondo taluni, diventare addirittura artificiali. Siamo così confrontati a una concezione di ragione limitata alla sfera empirico-strumentale, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano e che devono stare alla base di un’idea adeguata di educazione.
Sono solito riferirmi ad essa utilizzando il termine classico di paideia, reso celebre dagli studi di Werner Jaeger, ma qui ripreso in un senso largo suggerito da Maritain. La nozione di paideia ha, per il nostro incontro di cristiani e musulmani, il grande vantaggio di rinviarci a una delle due tradizioni che, in modalità diverse, condividiamo: l’eredità classica e più propriamente tardo-antica, nella quale cioè inizia a prendere corpo il confronto tra pensiero ellenico e messaggio biblico.
Si potrebbero illustrare agevolmente le ricchezze che questa visione della paideia racchiude rispetto a un’educazione ridotta a mero addestramento, chiusa, a causa di un’acritica riduzione dell’ampio spettro della ragione, a quella domanda sulle cose ultime che, secondo la celebre espressione di Comte, non si sarebbe dovuto più porre.
Di forte interesse sarebbe l’indagare che cosa significhi, per cristiani e musulmani, la convinzione che non solo la realtà si dà al soggetto che la ospita, ma è essa stessa data — o, per usare il termine teologicamente più preciso, creata — e rimanda perciò oltre se stessa a un Primo Donatore.
Ma, l’enfasi sulla capacità da parte del soggetto di ospitare il reale intelligibile rappresenta soltanto una dimensione della paideia. L’altra, altrettanto importante, è il suo chiamare in causa la libertà, anzi le libertà, di educatore e di educando sempre inserite in una trama di relazioni sociali. E qui è appropriato parlare di rischio educativo. Infatti, l’introduzione a un’ipotesi esistenziale unitaria circa il reale non avviene senza un duplice rischio. Rischio prima di tutto dell’educando, che non può chiamare «sua» alcuna verità se non la fa propria con la sua libertà, come ha visto genialmente Goethe: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, fallo tuo, per poterlo possedere».
D’altro canto anche l’educatore non può esimersi da un’auto-esposizione. Non educa colui che dice «fai così» ma colui che così invita: «Fai con me così». Egli, infatti, comunica ciò che più gli sta a cuore e così facendo si mette in un certo senso a nudo. L’educazione — insegna da sempre la Chiesa — è una forma di carità, un atto di amore nel quale l’educatore offre tutto se stesso nella testimonianza di quella verità che egli già vive come adeguata chiave interpretativa del reale.
L’educazione è pertanto in ultima analisi «generazione» e rappresenta, in tutte le culture, un’esperienza di paternità e di figliolanza.
Per noi cristiani essa ha la sua radice nelle relazioni intratrinitarie, relazioni che assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù con il Padre e con lo Spirito.
Riflettendo su questo «incontro di libertà» che costituisce la seconda dimensione della paideia, occorre riconoscere con molto realismo che non sempre le religioni, soprattutto quando hanno assunto o si sono viste imporre la funzione di collante sociale, hanno saputo mantenersi al riparo dalla tentazione di immaginarsi portatrici di una verità «talmente evidente» da rendere del tutto estrinseco e quindi superfluo l’assenso da parte della libertà dell’interlocutore. Così oggi succede che mentre si diffonde, almeno a livello delle élites transnazionali, la tendenza a celebrare una libertà svincolata da ogni riferimento veritativo alla «verità-bene», si manifesti, per reazione uguale e contraria, la spinta ad affermare una verità che non domanderebbe il coinvolgimento della libertà del soggetto per attestarsi come verità. La verità non sarebbe dono vitale ma solo insegnamento formale. È il fondamentalismo, una patologia dell’educazione grave quanto la rinuncia a riconoscere l’obiettiva «pretesa» della verità. Essa può arrivare fino all’uso della violenza, nella quale lo spirito di parte lacera la comunità distruggendo il «bene politico dell’essere insieme»: quel bene sociale pratico sul quale il Libano ha scelto di scommettere la sua stessa esistenza come nazione.
Si ripete di frequente, e non senza ragione, che il migliore antidoto al fondamentalismo e alla violenza è l’educazione. Occorre però aggiungere: non qualsiasi educazione, ma un’educazione che sappia tenere insieme verità e libertà. E quest’ultima nella sua dimensione personale e in quella comunitaria — comprendendo dunque la libertà d’espressione e di critica, anche dolorosa, ove necessario e, quanto alla libertà religiosa, anche la conversione. Solo un’adeguata antropologia, fondata sull’«io-in-relazione» con Dio, con gli altri e con se stessi, permetterà quindi di evitare una deriva violenta, senza cedere a un insoddisfacente agnosticismo. È a questo livello che si giocherà la partita decisiva per le religioni.
Un grande scrittore italiano del Novecento, Cesare Pavese, intitolò i suoi diari Il mestiere di vivere. Insegnare il mestiere di vivere, insegnare a essere uomo, liberamente capace di aderire alla verità, è il compito inesausto dell’educazione. Esso si ripresenta sempre nuovo a ogni generazione, perché, come afferma con acutezza Benedetto xvi nella Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione, «a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni».