sacconiRiportiamo il commento di Maurizio Sacconi, Ministro del  Welfare, pubblicato da Il Gazzettino domenica 26 luglio, al Discorso del Redentore pronunciato dal card. Scola:

“Il Patriarca di Venezia ha opportunamente voluto dedicare la sua omelia in occasione della Festa del Redentore al senso e al valore della vita. Si tratta di temi che impegnano anche i decisori istituzionali chiamati a nuove responsabilità dalle crescenti evoluzioni della scienza e dai conseguenti interrogativi posti dal rapporto tra essa e l’etica.
La prima, semplice osservazione del Cardinale è quella decisiva, che va al cuore dell’esperienza cristiana: non esiste una teoria adeguata a spiegare il mistero del dolore.

Neppure Colui che è venuto in suo nome sulla terra – per chi crede – ce ne ha lasciata una. Perché non sono mai le parole a consolare dal dolore, e neppure a spiegarne fino in fondo il senso, il significato che può avere nella vita di ciascuno di noi. L’unica certezza è quella che, sicuramente, ognuno di noi farà esperienza di dolore su questa terra, se non altro perché ognuno di noi affronterà, inevitabilmente, la propria morte.
Non esiste una teoria, e infatti il dolore più grande non è quello fisico, ma quello dell’abbandono. Quando si sta male fisicamente avere qualcuno vicino che stringe una mano è già consolante, aiuta a sopportare. L’uomo dolorante è l’uomo abbandonato, tanto che neppure i cadaveri, dopo morti, vengono lasciati soli. Quindi per spiegare il dolore, e per lenirlo, ciò che serve non è una teoria, ma un’esperienza di condivisione, di compagnia, dentro l’esperienza del dolore. Gesù Cristo non ci ha spiegato il dolore, l’ha patito insieme a noi, e con questo ce ne ha dato un senso, misterioso, ma allo stesso tempo con un’indicazione chiara: da soli non siamo capaci di affrontarlo, di starci davanti.
Questo non significa certamente che non dobbiamo alleviare le pene di chi soffre; dalle cure palliative – delle quali si è occupato il Governo con un finanziamento annuale di 100 milioni e per le quali il Parlamento sta varando un provvedimento specifico – al supporto ai malati nel fine vita, ma anche nel sostegno ai più fragili dal punto di vista sociale. La politica e la legge sono innanzitutto chiamate a tutelare i deboli, i fragili, coloro che da soli non ce la fanno.
Tra costoro si collocano le persone in «stato vegetativo persistente», la cui condizione è ben lontana da quella di coloro che sono in condizione di morte cerebrale. Nel primo caso sussistono le funzioni vitali e una certa attività cerebrale. Nel secondo caso tutto questo manca al punto che è consentito ed è eticamente riconosciuto l’espianto degli organi ai fini di un loro trapianto in un’altra persona. Come opportunamente ricorda il Patriarca si tratta di persone fortemente disabili per le quali alimentazione e idratazione costituiscono bisogni vitali non negoziabili e che devono essere ancor più garantiti nel momento in cui non sono in grado di provvedere a se stesse. Alla luce del provvedimento giudiziario «creativo» che ha consentito di condurre a morte Eluana Englaro deve essere ora completato l’iter della legge sulla regolazione della fine di vita in termini tali da distinguere l’accanimento terapeutico da ciò che non costituisce terapia. Il Governo su questo punto si è pronunciato con decisione unanime del Consiglio dei ministri secondo contenuti condivisi dal Senato e, ci auguriamo, prossimi ad essere condivisi anche dalla Camera dei Deputati.
Nell’attraversare questa grande transizione, la nostra società, resa insicura e disorientata dai cambiamenti epocali che la caratterizzano, ha la necessità di apprezzare il senso e il valore della vita quale premessa per ritrovare in sé le motivazioni di un rinnovato vitalismo economico e sociale. E’ difficile pensare che una comunità pervasa da una visione scettica della vita possa essere capace di generare una nuova stagione di sviluppo umano.
Tutto ciò non significa peraltro che la migliore soluzione politica sia in grado di risolvere il problema ultimo del dolore. Potrà solo spostarne i confini. Sta a noi riconoscere il mistero del dolore all’interno dell’esperienza umana e avere l’onestà di stare laicamente davanti alle domande che questa esperienza ci pone.