Proponiamo una riflessione dell’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, pubblicata sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” del 27 dicembre 2014.

«Quella vita che è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Con l’anno nuovo, il caso comincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri e si principierà la vita felice. Non è vero?” “Speriamo”». Così il Leopardi conclude il serrato Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, mettendo a nudo con la consueta, amara lucidità un dato a un tempo contraddittorio e profondamente umano.

Guardando alle vicende, personali e sociali dell’anno trascorso, potremmo avere più motivi di preoccupazione, quando non di vera e propria angoscia, che motivi di soddisfazione o di vera e propria gioia.

Il rapporto Censis, che puntualmente a dicembre fotografa lo stato di salute del nostro Paese, descrive l’Italia del 2014 come il paese del “capitale inagito”. E non si riferisce solo alle risorse economiche, ma anche a quelle umane. Nel bilancio della vita della nostra società prevale il segno meno: meno figli, meno iscritti all’università, meno imprese, meno investimenti, meno consumi, meno cibo… Sembriamo a prima vista diventati un poco come l’uomo della parabola evangelica che, ritrovandosi un solo talento, rinuncia a trafficarlo. E, per l’angoscia di perderlo, lo seppellisce.

Il quadro internazionale poi non è certo rassicurante. Se con il crollo dei muri l’Occidente opulento era perfino arrivato a parlare di “fine della storia” coltivando l’idea tenacemente ricorrente del progresso ineluttabile, oggi l’illusione è crollata sotto i colpi di una storia tragica che ripropone le terribili violenze del passato, anzi sembra averne escogitate delle nuove. Con implacabile tempestività e precisione i mass media ce ne danno notizia in tempo reale e noi non abbiamo neanche la possibilità di assimilare le une che già le altre ci sovrastano.

Eppure il Leopardi ha ragione: anche quest’anno, con il 2015 alle porte, ogni uomo si ritrova pieno di una irriducibile speranza. Che cosa la rende ragionevole?

Dove l’uomo del terzo millennio immerso in un travaglio che lo infragilisce e lo smarrisce, posto di fronte alle strabilianti scoperte delle tecno-scienze o interrogato dalla necessità di pensare a un nuovo ordine mondiale, può ritrovare libertà e senso del vivere? Dove può rigenerarsi sperimentando una liberazione che sia veramente tale? E dove può trovare un senso, una buona ragione, per ripartire tutte le mattine e un sentiero su cui incamminarsi?

La sapienza della Chiesa, maturata lungo secoli, ci fa concludere ogni anno con il canto di lode a Dio: Te Deum laudamus. Per molti potrebbe suonare come una provocazione. Che razza di gratitudine può esprimere chi per povertà estrema – come abbiamo visto in tante zone di quartieri periferici della nostra Milano – è spinto a occupare le case, o gli homeless, ogni giorno più numerosi, o i disperati, cacciati sempre più ai margini della società? Su che cosa possono fare leva per rendere grazie i nullatenenti, i giovani scoraggiati e ridotti all’inerzia dalla mancanza di lavoro, gli uomini e le donne di mezza età che si trovano espulsi dal circuito produttivo?

Come possono rendere grazie i figli costretti a fare i conti con il fallimento del matrimonio del papà e della mamma, le tante famiglie ferite da prove pesanti e spesso affrontate in solitudine, le vittime che invocano giustizia? E le vittime, per fede, di orrendi e brutali uccisioni? Di cosa devono rendere grazie i milioni di profughi, costretti a lasciare tutto?

Non sottaciamo la notizia per eccellenza, eppure spesso ignorata: il Salvatore è tra noi. Col Dio che si fa bambino l’eterno è entrato nel tempo e il tempo ha cambiato di segno. Non ci porta più verso il nulla ma ci ha già introdotto nella vita per sempre.

La nostra esistenza quotidiana prende respiro: l’amore di Cristo ci urge al dono totale di noi stessi e la partecipazione a questo amore è sempre possibile a tutti.

L’amicizia civica è un bene reale. È la grande condizione per uscire dalla crisi.

Il riscatto, come non si stanca di dirci Papa Francesco, non può che avere come motore primario la libertà di ognuno di noi.

Un segno riempie di speranza: si percepisce meno lamento e più impegno da parte di molti cittadini.

Come scrive san Paolo ai cristiani di Roma, «tutto coopera al bene di coloro che amano Dio». C’è bisogno di chi – cristiani, fedeli delle diverse religioni, uomini e donne amanti della giustizia – si prenda cura del bene comune in tutte le sue forme.