“Compito dell’università – sono parole del card. Angelo Scola – non è solo quello di opporre una visione corretta delle cose ad una visione distorta di esse, ma è quello di consentire agli studenti di giungere fino alla realizzazione della loro umanità. Come? Anche attraverso lo studio rigoroso delle discipline nelle quali sono impegnati. E questo mediante il ricorso ad uno sguardo critico che non sia sterile obiezione, ma autentica capacità di discernimento di ciò che è vero, uno, buono e bello. In una parola l’università è tale se sospinge la mente, il cuore e l’azione dei soggetti che la abitano nell’affascinante avventura (ad-ventura) di scoprire il ragionevole dono della verità”.
Qui il testo integrale della prolusione che il Patriarca di Venezia ha tenuto sabato 4 aprile al Dies Academicus della Sisf alla Gazzera- Venezia.SCUOLA SUPERIORE INTERNAZIONALE DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
1. Educazione: neutralità e “valori”
«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» . Nell’esprimere una radicale sfiducia nelle formule che pretendono di risolvere d’incanto l’enigma dell’umano e la conseguente incapacità dell’io di definirsi in altro modo che con la negativa, i versi di Montale preannunciano tutto il travaglio dell’uomo contemporaneo, che è immerso in una appassionante ricerca del suo volto, ma è ancora smarrito dopo il fallimento delle utopie novecentesche.
Benché in una forma più edulcorata, ma solo apparentemente più innocua, quel ciò che non siamo, ciò che non vogliamo si traduce oggi, in ambito educativo, in una dichiarata ed equivoca scelta di neutralità. Questa, col pretesto di non ledere il diritto di nessuno, ambisce a formare i giovani senza proporre loro esplicitamente un’ipotesi sintetica di interpretazione della realtà per tenerli al riparo da ogni visione sostantiva della vita. Essa registra nel contempo la problematicità che il concetto di valore, usualmente associato alla nozione di educazione, possiede nel clima culturale di quella che si è ormai abituati a chiamare post-modernità. Il pensiero post-moderno infatti, non solo contesta i valori propri della modernità (progresso lineare e indefinito, autonomia ed assolutezza della ragione, fede incondizionata nelle scienze, esistenza di un codice morale universale) ma finisce per negare ogni validità al concetto stesso di valore.
Se con Gevaert possiamo definire valore: «tutto ciò che permette di dare un significato all’esistenza umana, tutto ciò che permette di essere veramente uomo…(i valori non esistono senza l’uomo che con essi è in grado di conferire un significato alla propria esistenza)» , vediamo come il postmoderno, nel rigettare la plausibilità di un significato globale dell’esistenza, finisca per mettere in discussione non solo la nozione di valore ma la stessa idea di soggetto come entità autocosciente e personale . Perciò non sarebbe più possibile parlare di una vera e propria impresa educativa (paideia), ma ci si dovrebbe limitare a parlare di istruzione.
A mio avviso, la rinuncia ad offrire, attraverso la paideia, un’ipotesi interpretativa di tutto il reale (significato: ciò che ha valore) e la conseguente pretesa di neutralità delle istituzioni scolastiche rivelano tutta la loro debolezza di fronte ad una triplice considerazione.
La prima è di ordine pedagogico: un approccio educativo neutralista impedisce la formazione nei ragazzi di una vera intelligenza del reale. Affermando che l’acquisizione della loro capacità critica si attua alla fine del percorso educativo – quando cioè, si dice, avendo potuto vagliare le diverse posizioni incontrate nel confronto con tutti i professori, essi sarebbero finalmente in grado di operare una sintesi adeguata – si indebolisce la stessa capacità di apprendimento dello studente, perché l’assenza di un’ipotesi esplicativa della realtà amputa la facoltà di assimilare in profondità qualsivoglia disciplina di studio e soprattutto di farla propria in organico rapporto con tutte le altre.
In secondo luogo la posizione neutralista è un’astrazione fuorviante: è inconcepibile scindere la mondovisione con cui il docente intenziona la realtà dalla modalità con cui propone allo studente la disciplina che insegna. Ogni conoscenza scaturisce innanzitutto da una affezione in grado di muovere le proprietà della ragione (memoria, percettività, proiettività, induttività, deduttività, logica, ecc.).
Infine, una concezione neutralista dell’educazione rivela una visione antropologica irrispettosa della costitutiva natura personale – e perciò relazionale – e libera del soggetto umano, che genera dall’origine una sua irreprimibile tensione ad adeguare tutto il reale (verità).
Proprio quest’ultima notazione può aiutarci a riformulare il concetto di valore, tenendo conto della critica mossagli dal pensiero post-moderno ma evitando di cadere nella tentazione di dire che, al fondo, non esistono valori giacché ogni loro significato sarebbe in fondo frutto di una negoziazione o di un rapporto di forza. L’equivoco circa la loro natura può essere risolto chiarendo che i valori non sono oggetti, né concetti astratti cui attenersi a priori, ma fanno parte del rapporto costitutivo tra il soggetto e le persone, le cose e le circostanze identificandone una “consistenza” qualitativa. Un’educazione ai valori è quindi impossibile se si elude il rapporto tra la persona e la comunità – e quello di entrambe con il mistero, l’ «inafferrabile realtà», come diceva Bonhöffer – all’interno del quale il valore può essere effettivamente comunicato dando un significato e una direzione all’esistenza .
2. Educazione: introduzione della persona alla realtà totale e libertà
Dall’inizio della sua esistenza, infatti, e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti (a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni) che lo costituiscono. Il suo impatto con la realtà ha il carattere dell’avvenimento, dentro al quale il mistero dell’essere gli si fa incontro nella forma del dono. Ecco perché, in un certo senso, è la struttura stessa del reale in quanto evento (dal latino e-venio) a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando ad una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato. Anche in questa luce si capisce l’illusorietà di una proposta educativa neutrale. Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra di possedere già un logos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico. Ciò impedisce che l’io possa in modo astratto (ab-[s]tractus/separato) elaborare una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda un atto di decisione del soggetto. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l’atto «il particolare momento in cui la persona si rivela» . Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'”antropologia adeguata”. Un’antropologia che tiene conto del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”: «Noi possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica» .
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza, che a sua volta costituisce un’altra radicale obiezione a ogni ipotesi di neutralità educativa. Uno dei tratti propri dell’ “esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale. Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto luogo di pratica e di esperienza, secondo la felice definizione di Blondel , la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”. Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura .
Avendo così sommariamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata in ogni esperienza conoscitiva, possiamo legittimamente individuare il fattore “critico” insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e la volontà. Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.
In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore, che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi. Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone) e il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente altro e quindi integralmente libero .
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa: l’amore. L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando ad un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità. San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione: «Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore… Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave» . Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico: se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui ed ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo «ci ha scelti prima della creazione del mondo […], predestinandoci a essere suoi figli adottivi» .
3. Paideia e università
Indicati i tratti di un’educazione come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito. Partendo dalla nostra osservazione iniziale, dobbiamo registrare che, in ambito universitario, il concetto di neutralità si trasforma a partire dall’epoca moderna per lasciare spazio, in ambito occidentale e in tutti gli ambiti connessi alla sua “mind”, ad un più esplicito principio di esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, soprattutto se lette nella prospettiva della rivelazione cristiana, perché sono ritenute estranee ad una rigorosa conoscenza scientifica . «L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica – marxismo e positivismo scientifico di ogni genere – piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo»
(…)
4. Per un’università cristianamente orientata
Quanto abbiamo detto assume un valore particolare in un’istituzione che, come la vostra, è impegnata ad offrire agli studenti una conoscenza approfondita in ambiti di studio (la psicologia, la pedagogia, la comunicazione) i cui metodi e i cui contenuti rischiano oggi di essere pericolosamente compromessi da una visione falsata dell’uomo e delle sue facoltà. La psicologia si trova infatti a dover fare i conti con la pretesa di ridurre spirito e mente a puro cervello; la pedagogia è esposta alle distorsioni di cui abbiamo trattato; la comunicazione viene spesso concepita come “creatrice” di verità, finendo per diventare strumento di interessi particolari in competizione tra loro.
Compito dell’università, della vostra università, non è tuttavia solo quello di opporre una visione corretta delle cose ad una visione distorta di esse, ma è quello di consentire agli studenti di giungere fino alla realizzazione della loro umanità. Come? Anche attraverso lo studio rigoroso delle discipline nelle quali sono impegnati. E questo mediante il ricorso ad uno sguardo critico che non sia sterile obiezione, ma autentica capacità di discernimento di ciò che è vero, uno, buono e bello.
In una parola l’università è tale se sospinge la mente, il cuore e l’azione dei soggetti che la abitano nell’affascinante avventura (ad-ventura) di scoprire il ragionevole dono della verità.