Il Patriarca Scola è intervenuto a Lublino, in Polonia, invitato dall’Istituto Giovanni Paolo II a tenere una lezione nell’ambito di un ciclo di conferenze su Eros e Agape, in occasione del XXXI anniversario dell’elezione di Karol Wojtyla al soglio di San Pietro.
È qui disponibile il testo dell’intervento.
1. Originalità e centralità della riflessione sull’amore nel ministero di Giovanni Paolo II
La centralità del tema dell’amore umano nella riflessione e nell’insegnamento di Giovanni Paolo è ampiamente dimostrata non soltanto dalla sterminata produzione di Karol Wojtyla prima e di Giovanni Paolo II poi su tale argomento, ma anche dal fatto che esso occupa un rilievo del tutto particolare in tutta l’estensione e poliedricità dei suoi scritti, dalle opere filosofiche e poetiche a quelle teologico-pastorali, fino all’insegnamento magisteriale nelle sue varie forme.
La recente pubblicazione, in Italia, di tre suoi saggi giovanili inediti sul tema – due lo sono per il lettore italiano , uno è un inedito assoluto –, getta, se mai ve ne fosse bisogno, ulteriore luce sulla qualità e l’ampiezza di questa produzione.
Non si coglierebbe tuttavia la portata di tale impegno umano e intellettuale, sempre svolto in chiave pastorale, se lo si riducesse a un interesse settoriale e circoscritto. Scaturito nel secondo dopoguerra, come lo stesso Giovanni Paolo II ci ha rivelato, dalle domande che i giovani gli ponevano circa il modo di vivere l’amore e il matrimonio, questo interesse trovò una prima risposta in Amore e responsabilità . Ma si dilatò in seguito fino a comprendere gli interrogativi sull’esperienza elementare propria di ogni uomo. Di questa è dimensione decisiva il tema dell’amore umano . Il modo più adeguato per trattare le problematiche connesse con l’amore umano in tutte le sue dimensioni, dall’eros all’agape, è quello di leggerlo attraverso il prisma del mistero nuziale. L’espressione mistero nuziale, svelando il carattere profondo dell’amore perché manifesta la sua capacità di mettere in campo l’uno, l’altro e l’unità dei due, conduce al cuore dell’esperienza umana elementare . Il fatto poi esso sia un mistero non rinvia ad una sua assoluta inconoscibilità. Dice solo che essendo una delle dimensioni con cui la libertà personale di ogni uomo entra in relazione con il Fondamento, rimane in ultima analisi inafferrabile e indeducibile. Colta in questa chiave, la riflessione sull’amore – è questo uno degli aspetti più potentemente coraggiosi e originali di tutto il ministero di Giovanni Paolo II – mostra una straordinaria e inedita capacità di spalancare nuove e promettenti prospettive in molti ambiti, dall’antropologia, all’etica, alla teologia. Il mistero nuziale può fornire una chiave metodologica privilegiata per una rinnovata comprensione di questi saperi .
2. Dall’unità duale al Fondamento
Gli studi giovanili di Karol Wojtyla e le sue preoccupazioni pastorali ricevettero un ricco ed ancora, per molti versi, inesplorato approfondimento nelle Catechesi sull’amore umano di Giovanni Paolo II.
Partendo dalla considerazione dei due racconti genesiaci sulla creazione dell’uomo (Gn 1,27 e Gn 2,18-25) il Papa individua nella natura sessuata dell’essere umano una dimensione costitutiva dell’antropologia. Che l’individuo si dia sempre e solo come maschio o come femmina attesta che nessun uomo può esaurire in sé tutto l’uomo. L’uomo non può esistere “solo” (Gn 2,18), ma è sempre in relazione. L’uomo-donna è una manifestazione del principio ontologico dell’unità-duale, per cui nella realtà contingente l’unità si afferma sempre con una interna polarità. Mentre ne indica la finitudine, tale contingenza spiega la vocazione dell’essere umano ad auto-trascendersi e ad aprirsi all’altro. D’altra parte questa caratteristica non è accidentale, ma si radica nel suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Anzi, dice Giovanni Paolo II, che «l’uomo è diventato “immagine e somiglianza di Dio” non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche attraverso la comunione delle persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’inizio. L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli, infatti, è fin “da principio” non soltanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente, immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone» .
Il rapporto tra maschile e femminile chiede ovviamente di essere ulteriormente pensato nella sua simultanea implicazione di identità e differenza. Mentre la prima è riconducibile alla natura personale dell’uomo e alla conseguente pari di dignità dei due, la seconda non è priva di problematicità, come ben documenta il travaglio della cultura contemporanea nella sua radicale difficoltà a pensare la differenza sessuale. Questa infatti non rimanda a una banale questione di ruoli, né si riduce, come pensava Aristofane nel Fedone di Platone, ad una complementarietà destinata a risolversi nella ricostituzione di un’unità perduta attraverso la fusione delle due metà. Lo si capisce bene se si riflette sulla natura asimmetrica della reciprocità uomo/donna. Non ci riferiamo in questa sede al tema pur importante della discriminazione femminile. Pensiamo al dato ontologico che fa della reciprocità qualcosa di diverso dalla pura pacifica complementarietà. Infatti l’insopprimibile differenza che si esprime fin dentro l’una caro dell’atto coniugale tiene il posto del terzo, cioè del figlio.
Se rinvia al nucleo indistruttibile di ciò che fin dall’origine del pensiero occidentale è stato chiamato physis, la differenza sessuale rivela allo stesso tempo quella che Tommaso d’Aquino chiamava la distinctio realis e Heidegger la differenza ontologica: come accade per l’insuperabile distinzione tra essere ed ente, nell’unità delle creature anche la differenza sessuale si rivela ultimamente come un’offerta dell’infinita libertà di Dio alla libertà dell’uomo. L’assunzione consapevole del proprio essere situato nella differenza sessuale realizza per ogni uomo un’apertura all’altro e indica alla mia autodeterminazione un cammino di conoscenza di me che, tuttavia, non può mai abolire la differenza (differe: portare altrove lo stesso).
A partire dall’analogatum princeps uomo/donna, analizzato fino nella sua radice corporale-erotica, Wojtyla-Giovanni Paolo II ha instancabilmente percorso e ripercorso in senso analogico (ascendente) e catalogico (discendente) tutte le forme dell’amore , mettendone a tema il suo carattere assoluto, che potremmo chiamare “trascendentale”.
Non è qui possibile riandare all’analisi con cui, fin dalla sua attività pastorale tra i giovani universitari di Cracovia, Karol Wojtyla approfondisce il fenomeno dell’amore in tutte le sue implicazioni. Se potessimo farlo vi troveremmo già tutte e tre le decisive e inscindibili dimensioni del mistero nuziale, dall’irriducibilità della differenza sessuale, all’oggettiva disposizione al dono di sé (amore), aperto alla vita.
La sua risposta all’obiezione mossa alla forza profetico-culturale di Humanae vitae , che culminerà in Veritatis splendor ed Evangelium vitae, poggia su una riflessione che, a partire dall’autoevidenza immediata del fenomeno erotico, vede l’essere dell’uomo e della donna, in quanto situato nella corporeità della differenza sessuale, strutturalmente orientato all’altro in vista della procreazione. Per Wojtyla-Giovanni Paolo II qui si rivela la responsabilità morale che l’amore tra l’uomo e la donna reca con sé. Questo significa «comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio» . In questo senso, quelli che sono stati definiti i fini, i beni e i doni del matrimonio trovano una spiegazione adeguata nella comunione fedele-indissolubile e nell’apertura alla vita che devono essere proprie degli sposi . Benché messe radicalmente in discussione da buona parte dei costumi e della cultura contemporanei, queste dimensioni costitutive dell’amore nuziale sono sempre in grado di mostrare la loro attualità. Se colte nella semplicità dell’esperienza elementare e affrontate con un’analisi teoretica rigorosa, continuano ad essere, per l’uomo d’oggi, la via maestra per sperimentare il fascino del per sempre, la verità del desiderio e la dolcezza del frutto dell’amore (fecondità). Certo, la fragilità umana sembrerebbe in apparenza smentire la possibilità del “per sempre”, negare la bontà del sacrificio – considerato come un ostacolo invece che come ginnastica del desiderio (Agostino) -, e indurre a pensare il figlio nell’ottica del “prodotto” anziché del frutto. Ma a ben vedere la fragilità certifica in realtà la verità dell’amore. Come mostra il magistero di Giovanni Paolo II, riconoscersi sproporzionati alla fedeltà e all’esclusività dell’amore restando tuttavia disponibili all’accoglienza del figlio, urge l’uomo e la donna a volere la definitività del loro amore come un dovere. È la sproporzione tra la grandezza della vocazione cui sono chiamati e la loro capacità di realizzarla da soli a deciderli attraverso il giuramento che essi fanno di amarsi finché morte non li separi, a poggiare la loro reciproca fedeltà non sulle sabbie mobili dell’umana fragilità ma sul Fondamento stesso, sul Dio che è amore fedele (cfr. 1Gv 4,16). «L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio, solo Lui è l’Eternità» . Come le parole di Wojtyla attestano, nel decidersi per un amore fedele, indissolubile e aperto alla vita, attraverso una promessa che non si basa sulle loro forze periclitanti ma sulla fedeltà del Fondamento stesso (Dio) , l’uomo e la donna si aprono la strada per un’adeguata conoscenza di sé.
3. Amore di Cristo e amore trinitario
Individuare, nell’unità duale dell’uomo-donna, la possibilità dell’accesso al mistero nuziale non significa affermare che questo sia esigibile nella sua pienezza da parte dell’essere umano a partire dall’autoevidenza erotica propria del suo essere situato nella differenza sessuale. Scriveva Wojtyla nel 1951: «Nelle nature stesse, nella loro psicofisica differenza sessuale non si trovano ancora le basi sufficienti di quell’amore a cui la coppia deve il suo principio e la sua esistenza» . Senza escludere la capacità naturale di cogliere le tre dimensioni costitutive del mistero nuziale (differenza, apertura all’altro, fecondità) Wojtyla si concentra sull’apporto che la rivelazione cristiana offre in vista della penetrazione di questo mistero (nuziale). Anticipando l’insegnamento del celebre passaggio di Gaudium et Spes 22 («In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo») che lo ispirò in tutta la sua attività ministeriale e in tutta la sua riflessione, il futuro Giovanni Paolo II affermava che «tutte le questioni dell’uomo che suppongono la corporeità e si compiono in modo evidente nel suo [di Gesù Cristo] corpo, sono entrate nell’orbita di questo Evento nuovo» . Se l’amore tra uomo e donna rimanda al mistero dell’amore divino, allora esso può essere nitidamente compreso solo alla luce di Colui che ha amato per primo, Gesù Cristo.
Fin dagli anni di Persona e Atto e degli studi sull’etica, tutto il portato della svolta antropologica viene ricollocato da Wojtyla in un critico orizzonte teocentrico . Ciò significa un’attenzione eminente al singolo, all’uomo storicamente e concretamente situato la cui “figura” è quell’uomo singolare, perché Figlio di Dio, che è Gesù Cristo Nostro Signore. Così, anche le encicliche trinitarie di Giovanni Paolo II – Redemptor hominis, Dives in misericordia e Dominum et vivificantem – non possono essere afferrate in tutta la loro potente estensione se non si prende in considerazione un’affermazione decisiva contenuta in Dives in misericordia, 1: «Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve conformarsi e realizzarsi teocentricamente cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre».
Mostrandoci come l’amore di Dio non cessa di anticiparci e di prendere l’iniziativa , Gesù Cristo si rivela, nella sua incarnazione, morte e risurrezione, come il nome proprio della misericordia. «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10). Nella consapevolezza che in Cristo si dà il vero amore, Giovanni Paolo II si dichiarò convinto, come ebbe a dire all’Angelus del 22 novembre 1981, che proprio la misericordia era il particolare compito che la Provvidenza gli aveva assegnato .
Traendo spunto dagli scritti giovannei, non senza guardare alla visione agostiniana dell’amore e alimentato dalla frequentazione di San Giovanni della Croce , più volte Giovanni Paolo II si sofferma sulla considerazione del rapporto tra conoscenza e amore. Nel suo magistero, l’amore non è semplicemente la forma pratica della conoscenza della fede, ma la sua consumazione. E questo a tal punto che solo nell’unione trasformante con Lui, come tra l’amante e l’amato, è possibile la conoscenza adeguata di Dio e, in modo derivato, di ogni altra realtà. Si colloca a questo livello un decisivo approfondimento, compiuto da Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II circa il fenomeno dell’amore: egli vede chiaramente che la comprensione di un concetto adeguato di amore non può prendere la mosse dalla formulazione di una teoria previa che venga in seguito realizzata in una prassi, ma esige che l’uomo si sorprenda in azione, cioè mentre ama. L’amore eccede ogni conoscenza (cfr. Ef 3, 19) e se ne può parlare in modo appropriato solo nella misura in cui, riconoscendo questa sua natura propria, lo si viva all’interno della vocazione che il Signore ha assegnato ad ognuno di noi. Nel senso proprio del termine e in tutte le sue dimensioni soggettive ed oggettive, l’amore dice in qualche modo l’essere associati, eucaristicamente ed ecclesialmente, alla “gestione dell’eredità” cui Cristo ci chiama, come ci insegna la celebre parabola dei talenti. È impossibile cogliere la profondità e la ricchezza della sapiente dottrina della Chiesa sui fini, sui beni e sui doni del matrimonio, mantenuti in articolata unità, se non si giunge a percepire l’amore in questa chiave essenziale.
L’amore di Cristo, Colui che ci ha amato quando eravamo ancora peccatori, quando eravamo suoi nemici (cfr. Rm 5, 5-11), rompe con ogni logica di scambio per affermare la più assoluta gratuità. Solo chi ama per primo e solo chi ama in ogni istante come se fosse l’ultimo istante ama effettivamente.
Ma per capire che cosa è propriamente l’amore di Gesù Cristo bisogna anzitutto ricordare che la singolarità della persona di Gesù si spiega in quanto Egli è, in senso assoluto, l’apostolo, il mandato dal Padre (cfr. Eb 3,1) cioè Colui nel quale vi è piena identità tra persona e missione . A rivelarLo come tale è lo Spirito Santo, ad un tempo amore sussistente e dono increato. L’affermazione giovannea che Dio è amore (1Gv 4, 16) diventa per Giovanni Paolo II la chiave che sostiene tutto lo sviluppo delle tre encicliche trinitarie. Individua il circolo ermeneutico tra l’amore di Dio in quanto rivelato nella storia della salvezza e l’amore di Dio in sé, nella Trinità immanente.
4. Chiesa, Maria e mistero nuziale
Affrontato il tema del mistero nuziale nella sua radice antropologica (l’unità duale) e teologica (cristologica e trinitaria) se ne può meglio cogliere il valore ecclesiologico.
Come spiega Balthasar, il mistero dell’uomo e della donna «riceve la sua ricchezza massimamente misteriosa solo nel mistero del Cristo-Chiesa (Ef 5,27-33)» . È questa la coppia originaria che consente di derivare la coppia uomo-donna. L’archetipo definitivo dell’unità duale si trova nelle nozze tra Cristo crocifisso e risorto e il Suo Corpo che è la Chiesa , secondo la potente immagine della Lettera agli Efesini. Questa ci consente di vedere la Chiesa come interlocutore femminile di Dio, che da Lui riceve la sua fecondità: Dio ama il suo popolo come lo sposo ama la sposa, e offre liberamente la sua vita per salvarlo. A ben vedere è da questo rapporto nuziale originario che prende forma la polarità uomo-donna. Ed è in questa chiave che va letta la vittoria di Cristo sulla morte. Una vittoria che inaugura una nuova forma di fecondità che non si esprime nella procreazione umana, ma nella fecondità per il Regno, segno della nuzialità tra Cristo e la Chiesa. Quest’ultima è incomprensibile se si prescinde dalla figura di Maria. Il significato delle nozze mistiche dell’Agnello riceve tutta la sua luce nella maternità della Vergine. Quest’ultima è archetipo della Chiesa, archetipo di ogni uomo – perché realizza il fine soprannaturale di ogni uomo: essere figli nel figlio – e archetipo della donna, come Giovanni Paolo II ci ha ricordato in Redemptoris Mater.
Solo l’appassionata indagine del grande Papa sul rapporto nuziale tra Gesù Cristo e la Chiesa consente di individuare la radice profonda della sua incessante difesa e promozione di Humanae vitae e il suo insegnamento su tutti gli aspetti del Vangelo della vita. Ma è a sua volta solo a partire dal suo frutto, la communio ecclesiale di coloro che, per grazia, sono figli nel Figlio, che questo rapporto, letto dal Papa in concretissima chiave eucaristica e mariana , può essere compreso. Emerge a questo punto il valore della fecondità. Esso incomincia dalla recettività, intesa da Wojtyla, con accenti che rimandano senza dubbio a San Giovanni della Croce, come ascolto che è la vera condizione della fecondazione.
Si spiega allora perché oggi il senso dell’amore coniugale, fino al livello dello stesso atto coniugale, è così radicalmente messo in discussione. Perché si è perduto l’autentico modus recipientis, quello per cui l’altro va sempre considerato come un potenziale amante, quindi come colui che mi feconda, colui all’ascolto del quale io conosco me stesso e mi dispongo a mia volta all’amore, cioè a dare frutto.
Alla luce di queste brevi considerazioni ecclesiologiche si capisce meglio l’inedito quanto straordinario contributo di Giovanni Paolo II alla riflessione sul mistero nuziale in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue articolazioni, dalla persona, al matrimonio, alla famiglia. Egli ha favorito in tal modo uno sviluppo teologico di questi temi che hanno cessato di essere un semplice corollario del trattato sul matrimonio. Dall’acuta percezione della natura in qualche modo sempre sacramentaria della famiglia , alla potente riflessione sulla generazione (nella biologia di ogni uomo è sempre implicata la sua genealogia) come atto che, dando accesso all’origine, è eminentemente umano, il suo apporto ha spalancato orizzonti oltremodo fecondi all’azione pastorale, alla ricerca teologica, ma soprattutto al bisogno di compimento dell’uomo contemporaneo. Basti citare qui a titolo di esempio le implicazioni che l’archetipo mariano-ecclesiale suggerisce in ambito educativo. La Chiesa infatti, attraverso il battesimo, non genera soltanto nuovi figli di Dio, ma ha anche il compito di educarli. In questa luce viene ribadito il prezioso e insostituibile ruolo della madre all’interno della famiglia, che consiste eminentemente nell’accompagnare il figlio alla dipendenza dal padre come segno della paternità divina.
5. Il mistero nuziale: una chiave per lo sviluppo integrale della persona
Per concludere questa mia riflessione, per forza di cosa rapsodica vista l’estensione del tema e la profondità con la quale Giovanni Paolo II l’ha indagato, vorrei solo richiamare la vastità di orizzonti potenzialmente contenuti nell’indagine sull’amore e sul mistero nuziale. A partire da questo tema e a dimostrazione della profonda unità del Magistero di Giovanni Paolo II, si può notare che esso è ben presente nelle sue grandi encicliche sociali – Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus. Esse sono infatti comprensibili fino in fondo solo nell’ottica dell’amore misericordioso di Dio. L’appassionata promozione dell’oggettivo ed universale ordine di giustizia in tutte le sue espressioni è in ultima analisi nutrita dalla convinzione che la misericordia è il «secondo nome dell’amore colto nel suo aspetto più profondo e più tenero, nella sua attitudine di farsi carico di ogni bisogno, soprattutto nella sua immensa capacità di perdono» .
Benedetto XVI ha efficacemente approfondito, nella sua Deus Caritas est, l’argomento dell’unità tra eros e agape come forme dell’unico amore. Una eccezionale centralità per uno sviluppo integrale dei popoli nella Caritas in Veritate rivestono il tema del dono («L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza», n. 34) e quello della fecondità e della disponibilità alla generazione («Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie per adoperarsi al vero bene dell’uomo», n. 28).
Ciò documenta che il mistero nuziale, nella sua inscindibilità di differenza, amore e fecondità, è una chiave appropriata per suggerire all’uomo la via del suo compimento integrale.
È merito del Papa che, per noi italiani, veniva da lontano, e del suo straordinario magistero aver donato alla Chiesa un insegnamento di tale ricchezza. Esso è un’autentica pietra miliare del bimillenario Magistero ecclesiale. Ed è stato un nostro privilegio poter vedere come la sua riflessione, prima ancora che dalla sua acuta forza intellettuale, scaturisse da un’indomabile e affascinante testimonianza personale.