(Il Sole 24 Ore – 29 novembre 2014)

«Abitanti senza casa e case senza abitanti». Così i parroci delle fasce periferiche di Milano hanno efficacemente fotografato un problema di antica data che sta assumendo, in questi ultimi mesi, aspetti di grave e pericolosa emergenza.

Le notizie fanno impressione: migliaia di case occupate per citare solo Milano e Roma e disordini intorno ai campi nomadi. Il fenomeno degli sgomberi, le proteste dei cittadini e le loro iniziative tese a “difendersi”, l’opposizione alle forze dell’ordine che vede talvolta insieme poveri, gente di malaffare e collettivi ideologici, i pianti, le grida e i silenzi di tanti volti impotenti…

L’avere una casa è esigito dall’umana dignità e rappresenta, quindi, un valore sociale indispensabile. Dall’avere una casa dipende anche la tenuta della famiglia e la possibilità di formare nuove famiglie. I tristi fatti di cronaca delle ultime settimane ci dicono che molti, soprattutto tra i più poveri e i più deboli, si vedono negato o minacciato questo diritto. D’altra parte senza legalità non si può perseguire il necessario bene comune.

Fino agli anni ’60-’70 gli abitanti delle case popolari erano in prevalenza gente di estrazione operaia, e comunque lavoratori stabili. Ai nostri giorni in certe zone di quartieri periferici le persone e le famiglie stabili e con reddito sicuro rappresentano invece una minoranza (a Milano non più del 20-25%). Inoltre, pur essendo gli edifici di queste zone ormai vetusti e le case fortemente deteriorate, non si provvede ai lavori essenziali per mancanza di risorse. Pertanto il degrado continua, anzi, cresce perché non viene arginato. Si creano così condizioni per il prosperare di micro delinquenza e non solo. L’illegalità o la semi-illegalità diffusa tende a diventare una prassi, un dato di fatto a cui ci si rassegna.

Da noi non esistono fenomeni di emarginazione clamorosa come gli slums, le bidonvilles o le favelas che caratterizzano soprattutto le megacities. Tuttavia i “senza fissa dimora” (espressione che Papa Francesco ha definito un eufemismo: «È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi») a Milano sono probabilmente un terzo del totale nazionale.

In questa situazione, la paura – sentimento che nasce dall’avvertire una realtà come minaccia – aumenta sempre più, come i fiumi in piena che purtroppo conosciamo bene. Rischia di superare i livelli di guardia e di allagare i cuori, annegando la speranza di chi è più fragile e vulnerabile. La paura nasce in noi quando qualcosa viene a invadere in modo inquietante il nostro quotidiano. La reazione più immediata diventa allora la fuga, spinti dal nostro istinto di sopravvivenza. Ma quando fuggire non è possibile?

Dalla paura impotente alla rabbia e da qui alla violenza e alla rivolta il passo è breve. E in questi casi, lo sappiamo bene, «il gruppo violento» finisce per tacitare la responsabilità personale. Diventa così difficile riconoscere che la violenza non è mai una soluzione. Oltretutto la violenza rischia di «far sparire» lo stesso problema che ha provocato paura. Genera una dinamica di «esclusione» della gente e dei suoi bisogni e, in forma apparentemente meno brutale, produce «individualismo rassegnato».

D’altra parte non si può cadere nella trappola di pensare che l’emergenza casa sia semplicemente riducibile a un’emergenza di ordine pubblico. L’ordine di una società, infatti, nasce ed esprime il bene comune diffuso e condiviso. Un bene fatto di libertà, giustizia e solidarietà. Queste istanze sono tra loro indisgiungibili.

Che fare dunque? Rafforzare quella che in altre occasioni, in questa stessa rubrica, ho chiamato «amicizia civica», compiendo tutti – in primis le istituzioni, poi i corpi intermedi e le singole persone – il proprio dovere. È questa una parola in disuso nella mentalità dominante, eppure tutte le Costituzioni degli Stati moderni e democratici ne trattano, affiancandola ai diritti, parola questa, invece, talmente ricorrente da rischiare l’abuso. Dobbiamo tutti mettere in gioco la nostra responsabilità, in forma diretta e insieme.

Occorre anche che le istituzioni – Comune e Regione a livello locale, ma anche, a livello nazionale, lo Stato – ascoltino, valorizzino ed elaborino nuove adeguate politiche per la casa.

Nell’esercizio di questa responsabilità la Chiesa, come altri soggetti sociali, è in prima linea. Fa molto, e farà, se possibile, ancora di più.

«Non temere, non lasciarti cadere le braccia», dice il Signore al suo popolo, attraverso il profeta Sofonia. Il Dio che si fa bambino suscita speranza affidabile per ogni uomo, soprattutto per quelli più provati. Rimanere uniti e solidali, vincere la tentazione della violenza, scegliere ogni giorno il bene è un’impresa ardua, certo, ma possibile.

Cardinale Angelo Scola,
arcivescovo di Milano