Venezia, la Terra Santa, ma anche iniziative culturali come Oasis: tutto questo nell’intervista di Giuseppe Cafulli per Terra Santa a S.Em. Rev.ma cardinale Angelo Scola
D – Giovanni Paolo II definiva la Terra Santa come la «patria del cuore». Qual è stato il suo primo incontro con la terra di Gesù? Quali ricordi di quel viaggio?
R – E’ stato per me un dato veramente imponente perché ha cambiato il mio modo di celebrare l’Eucaristia. Ho compreso per la prima volta la straordinaria corporeità dell’evento eucaristico. Poter riandare a quei luoghi impressi nella mia mente e nel mio cuore nell’ascolto della Parola di Dio e soprattutto nell’agire in persona Christi quando pronuncio la formula “Questo è il mio corpo, questo è mio sangue” – è stato di aiuto a vivere la presenza di Cristo nel mio quotidiano.
D – Ha un particolare spazio la Terra Santa nella sua vocazione sacerdotale?
R – Sì, come ho già detto. Il peso dell’Eucaristia, che è il cuore della relazione quotidiana del fedele con Dio attraverso Gesù e del sacerdote in modo particolare, muta radicalmente dopo che si sono calpestati i siti in cui Gesù è vissuto.
D – Lei regge una diocesi che per vocazione guarda a Oriente. Come appare la Terra Santa da Venezia?
R – Da Venezia vedo la Terra Santa sempre di più come me la descrisse un giorno a tavola il Patriarca Sabbah a Gerusalemme: la terra del venerdì santo permanente, il luogo in cui la croce di Cristo si evidenzia in tutta la sua radicalità, a partire da questo dolorosissimo conflitto. Ma poiché la croce è destinata alla gloria, la vedo anche come un luogo carico di speranza e di resurrezione per tutta l’umanità.
D – E a Venezia Lei ha fondato Oasis…
R – Oasis è solo uno strumento a servizio dei cristiani che vivono in paesi a maggioranza musulmana. Come tutta la loro vita ci insegna, in essi è ardente il bisogno di conoscere gli islam e di trovare la strada perché le religioni, consentendo ai popoli un’esperienza di autentica universalità, diventino sempre di più un fattore di pace e di giustizia nel mondo. Sempre di più spalanchino al Dio dell’amore misericordioso e della giustizia piena.
D – Oggi l’islam fondamentalista fa paura, cresce il senso d’insicurezza a livello mondiale. Come vescovo, quale indicazione offre ai cristiani che vivono nelle nostre Chiese d’Europa, ormai alle prese con una crescente immigrazione dal Paesi a maggioranza musulmana?
R – Anzitutto i cristiani che vivono nelle chiese dell’Europa devono uscire da una sorta di letargo che li caratterizza pesantemente. Un letargo spirituale nel senso profondo della parola, una sorta di afasia, di mancanza di comunicazione. E da questo punto di vista il fondamentalismo – che sfocia nelle forme tragiche del terrorismo – è una violenta provocazione per noi europei. Dobbiamo ritrovare il gusto della ricerca di Dio e del volto vero dell’uomo. Solo questo alla fine ci può assicurare. Se ci fosse questo scatto in tutto il popolo, darebbe vita ad un circuito virtuoso. E i governi sarebbero spinti a cercare soluzioni giuste per la pace, per la sicurezza e per la giustizia.
D – Oggi la fede subisce gli attacchi di una secolarizzazione crescente e del relativismo morale… L’esperienza della Terra Santa può aiutare a ritrovare le proprie radici e l’entusiasmo di una fede più pura e genuina?
R – Sì. Si tratta però di intendersi su cosa sia questa secolarizzazione. Molti parlano di un’epoca post-secolare perché, da un certo punto di vista, negli ultimi quindici anni assistiamo ad un risveglio del sacro, sia pure del sacro selvaggio. Quando si cominciò a parlare di secolarizzazione questo era del tutto inimmaginabile. Quindi lascerei da parte questa espressione per dire che l’uomo di oggi, l’europeo di oggi soprattutto, rischia una grande involuzione e un grande ripiegamento su di sé.
I cristiani poi rischiano di relegare la fede all’insignificanza o comunque di trattenere in un privato sterile la risposta alla domanda di salvezza che attraversa anche oggi gli uomini.
Una domanda che, paradossalmente, non trovando risposta cerca evasione in una sorta di droga tesa alla ricerca di una sequenza indefinita di piaceri spiccioli nei quali dimenticare. Invece la domanda che abbiamo nel cuore non è quella del piacere ma è quella del godimento. Il piacere è sempre puntuale: il godimento, che gli antichi chiamavano gaudium, dura per sempre. È la risposta al desiderio di Infinito che abbiamo nel cuore.
D – Tra i temi più spinosi della realtà della Terra Santa oggi è quello del conflitto tra israeliani e palestinesi e delle tante ingiustizie che in quella terra si perpetuano ogni giorno. Come vede Lei la situazione attuale? C’è secondo Lei un grado sufficiente di informazione in merito nelle nostre comunità ecclesiali?
R – Io credo che bisogna decidersi a vedere queste situazioni con realismo storico sapendo stare dentro i processi e rifuggendo dalle letture ideologiche che spesso, secondo me, affliggono anche le nostre comunità cristiane. Bisogna accompagnare, nei tempi e nei modi che la Provvidenza permetterà, palestinesi e israeliani a vivere insieme perché ormai questo dato è irreversibile. Per questo ci vuole una lenta e paziente educazione. La collaborazione di tutta la comunità internazionale, soprattutto a livello di popolo e in particolare a livello di Chiese, sarà preziosa nella misura in cui, superando il pregiudizio ideologico, aiuterà questo processo di pace che, ripeto, non può non vedere la coesistenza di questi due popoli.
D – Abbiamo celebrato da poco i quarant’anni della Nostra Aetate. Il tema delle relazioni ebraico-cristiane è oggi più che mai centrale. Quali iniziative crede possano essere messe in atto per una vera conoscenza tra ebraismo e cristianesimo?
R – La parola giusta su cui insistere è proprio la parola “conoscenza”. In questa direzione le iniziative sono numerose sia da parte dei cristiani che degli ebrei. Penso, per esempio, all’incontro tra vescovi e rabbini che il compianto Card. Lustiger ha propiziato da anni con il World Jewish Congress. Solo per citare un’importante esperienza che ho vissuto. Bisogna assolutamente insistere su questa strada. Conoscersi reciprocamente è il punto di partenza per un incontro fecondo che obbedisca al grande disegno di Dio. Ha voluto nel popolo ebraico il popolo eletto e – dal punto di vista della fede cattolica a cui aderisco – ha inviato il Figlio per compiere questo disegno. Compimento non è qualcosa di meccanico o di statico, non implica affatto sottovalutazione, sottostima. Il compimento cristiano è un dinamismo che, se è ben compreso, non può che rendere ancor più evidente il compito del popolo ebraico. Mi hanno sempre impressionato le parole che mi disse, nel lontano 1985, il Card. Henri De Lubac: se il cristianesimo si deve inculturare, visto che alla nostra radice c’è il popolo ebraico, allora si deve inculturare nella storia di questo popolo che è tuttora in atto.
Giuseppe Cafulli