“La sfida educativa” è il titolo del primo rapporto-proposta curato dal Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana (Edizioni Laterza) che è stato presentato giovedì 26 Novembre presso la Fiera di Verona nell’ambito di Job Orienta. Con il card. A. Scola sono intervenuti il ministro M. Sacconi, l’on. E. Letta, la prof. E. Scabini e il prof. S. Belardinelli.
Ecco le immagini dell’incontro.
Il quotidiano Il Sole24 ore pubblica oggi un’anticipazione dell’intervento del Patriarca di Venezia, che qui è disponibile:
«Le crisi dell’insegnamento non sono crisi di insegnamento; denunciano crisi di vita e sono crisi di vita esse stesse». Ancora una volta è il genio di un poeta come Péguy che, sbaragliando una serie di luoghi comuni e analisi superficiali, sa andare al cuore di quella che ormai da tutti è riconosciuta come l’emergenza educativa. Una questione posta a tema, studiata e rilanciata come sfida educativa dal Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana che vi ha dedicato il suo primo Rapporto-proposta (divenuto un volume dal titolo La sfida educativa, Ed. Laterza).
Péguy colpisce nel segno: dove non esiste una vita adeguata non si può comunicare nulla, non si può educare. Il Rapporto-proposta è stato costruito e redatto sulla convinzione documentata per cui «l’attuale crisi dell’educazione ha a che fare non soltanto con singole difficoltà, ma piuttosto con l’idea che abbiamo dell’uomo e del suo futuro. Perciò è indispensabile non limitarsi a una prospettiva settoriale di educazione, né è sufficiente riflettere sulle metodologie pedagogiche, ma è necessaria una visione antropologica ed essenziale del fatto educativo come tale». In altre parole l’educazione è un’opera che investe tutti gli ambiti e gli interessi della vita di una persona: la famiglia, la scuola, la comunità cristiana, il lavoro, l’impresa, il consumo, i mass media, lo spettacolo, lo sport… Nulla dell’uomo resta fuori da quest’opera, perché essa riguarda radicalmente l’esperienza umana elementare che è fatta di lavoro, affetti e riposo.
Si è giunti a parlare di emergenza educativa perché si è inceppato qualcosa, in particolare nell’Europa “impagliata”. Si è in un certo senso interrotta la cura tra generazioni, si è spezzata la catena della trasmissione di uno stile di vita buona capace di rispondere a quel desiderio di felicità e libertà che morde il cuore degli uomini e delle donne di oggi.
E questo dato ci provoca ad un cambiamento. Il primo passo è semplice, anche se indubbiamente arduo: è il porsi della persona dell’educatore. È l’adulto colui che deve dare testimonianza alla verità che propone. Sull’adulto cade la responsabilità educativa.
Ma posto il soggetto, a cosa educare? Ai valori, si risponde abitualmente.
Forse non c’è mai stata un’epoca in cui si sia parlato tanto di valori come quella attuale. Ma il punto è che non si educa ai valori parlando di valori, ma facendone fare esperienza. Non educo all’amicizia spiegando ostinatamente il concetto di amicizia, ma facendo fare concretamente l’esperienza di amicizia.
A molti pensatori post-moderni la categoria di valore appare compromessa. Non solo mettono in dubbio i valori propri della modernità, ma negano anche validità al concetto di valore e contestano la stessa idea di soggetto personale. Per questo non sarebbe più possibile una vera e propria impresa educativa (paideia), ma solo un’istruzione. L’equivoco circa la natura dei valori può essere risolto chiarendo che essi non sono una “carta di concetti astratti” da applicare poi alla vita, ma fanno parte dell’indistruttibile esperienza elementare dell’uomo, del suo rapporto costitutivo con le persone, le cose e le circostanze. Se valore è ciò che permette di dare un significato all’esistenza umana, i valori non esistono al di fuori dell’uomo.
L’educazione è quindi impossibile se si prescinde dal rapporto tra la persona e la comunità – e quello di entrambe con il «reale inafferrabile», come diceva Buber – all’interno del quale si fa esperienza, perché solo in quanto effettivamente comunicato un valore può dare all’esistenza una direzione, un significato.
Si capisce allora perché il proprium di ogni esperienza educativa risieda, come sopra indicato, nella “cura delle generazioni”, da assicurare in nome di «un’eredità da trasmettere per nuovi arricchimenti in virtù di un’appartenenza a una comune origine (genealogia)», come scrive il Rapporto-proposta. La catena delle generazioni (oggi sempre più dai bisnonni ai pronipoti) è il luogo in cui la persona fa esperienza del bene primario della relazione. La promessa di bene con cui il bambino si imbatte fin dalla nascita e nei rapporti iniziali con i suoi cari – «esperienza relazionale basilare che è affettiva e morale allo stesso tempo» – sarà poi chiamata ad attuarsi mediante il compito della trasmissione e dell’assunzione del senso pieno della vita. I nostri bimbi non diventano uomini se non sono aiutati a scoprire questa origine. I ragazzi e i giovani ai quali, quando il loro disagio esplode in forme irrazionali e violente, si dedicano fiumi di parole tanto scandalizzate quanto impotenti, hanno bisogno di vivere relazioni buone per imparare a fare il bene. In famiglia come a scuola o negli spazi della convivenza sociale devono poter contare su adulti impegnati in prima persona con il vero, il bello e il bene, che propongono.
Porre l’esperienza come fattore essenziale per un’autentica educazione implica inevitabilmente accettare e rilanciare le categorie di rischio e di testimonianza.
L’educazione riesce non quando si applicano correttamente determinati modelli, ma quando l’educatore e l’educando si giocano in un libero coinvolgimento personale. Nell’incontro con la realtà l’educando sperimenta il rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’aderirvi fino ad abbandonarsi allo scetticismo. Ma il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando è chiamato ad auto-esporsi, a testimoniare nella sua persona la bellezza dei valori che propone. Educa chi – come diceva Sant’Agostino – sa risvegliare «il maestro interiore». Ma per farlo occorre riconoscersi a propria volta figli di un maestro e di un padre, come rilevava Gilles Deleuze: «Maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me”, in un rapporto anzitutto di testimonianza, e poi di fiducia, di libertà tra libertà e disciplina».
E di nuovo la luce cade sugli adulti: sono genitori ed educatori che, nel loro modo concreto di amare e di lavorare, testimoniano ai figli la verità della vita.