Pubblichiamo una riflessione dell’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, Presidente del Centro Oasis (www.oasiscenter.eu.it), apparsa sul quotidiano nazionale Corriere della Sera nell’edizione di sabato 26 marzo 2016.

 

Il recente Rapporto sul genocidio dei cristiani in Medio Oriente, preparato dai Cavalieri di Colombo – un’associazione di circa 1.800.000 fedeli nata negli Stati Uniti ma ormai diffusa in vari Paesi del mondo –, reso pubblico lo scorso 9 marzo, ha la forma secca di un documento ufficiale: quasi 280 pagine di testimonianze sulla persecuzione che ISIS ha scatenato in Medio Oriente ai danni dei cristiani e delle altre minoranze religiose, con tanto di lista delle vittime e delle chiese distrutte e dati sul vergognoso mercato delle schiave, tuttora in corso. Ma dietro il tono asciutto, che non vuole concedere nulla ai sentimenti, s’indovina il dramma di intere comunità, sradicate dalle loro terre.

Solo pochi giorni dopo la pubblicazione di questo rapporto, il Segretario di Stato Kerry, a cui era indirizzato, ha qualificato i crimini di ISIS come genocidio, sulla scia di un’analoga risoluzione del Parlamento europeo. L’effetto politico che questa Dichiarazione potrà avere è tutto da vedere, ma certamente in una regione – il Medio Oriente – in cui a volte i fatti sembrano dissolversi nel prisma delle opposte interpretazioni, quella nuda lista di 1131 cristiani iracheni uccisi dal 2003 al 9 giugno 2014 (cioè prima della conquista di Mosul da parte di ISIS) adempie già una funzione essenziale, la memoria, «senza la quale – ha ricordato Papa Francesco parlando alla nazione armena – il male tiene ancora aperta la ferita».

A noi occidentali quella lista dice anche che gli attentati e le violenze che sconvolgono oggi alcune metropoli europee sono l’appendice di quell’amaro pane quotidiano di cui intere popolazioni, dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanistan alla Somalia, per non parlare della Nigeria, si nutrono ormai da anni. Prenderne coscienza produce un moto di com-passione che non sostituisce ma allarga la riflessione sulla sicurezza.

E tuttavia memoria e compassione, per quanto importanti, non sono sufficienti a cancellare il male: e allora, come non restare impotenti scorrendo gli elenchi di quelle vittime, e ora anche quelli di Bruxelles e di Parigi? Chi ridarà loro la vita?

La Pasqua che ci apprestiamo a vivere avanza da duemila anni una tenace risposta: l’uomo della Croce, risorgendo, «calpesta la morte di ogni comune mortale con la sua singolare morte». Come dice San Paolo scrivendo ai Corinzi: «la ingoia dal di sotto». È inutile nascondersi l’astrattezza con cui spesso, anche noi, cristiani almeno per cultura, circondiamo queste parole, riducendole a formule vuote («abbruttiti, anchilosati da intere generazioni di catechismo», scriveva provocatoriamente Charles Péguy in Getsemani). Più forte della nostra astrattezza però si staglia la pro-vocazione dei martiri a noi contemporanei che, seguendo la logica di Cristo e unendosi al suo sacrificio, ce lo rendono presente con un’immediatezza a cui – grazie a Dio – è difficile sottrarsi. È il caso appunto dei cristiani d’Iraq o delle quattro suore Missionarie della Carità (la congregazione fondata da Madre Teresa) uccise in Yemen il 4 marzo scorso. Quale speranza ha potuto spingerle ad andare là dove tutti fuggivano?

I nuovi martiri ci invitano a guardare al Crocifisso per trovare rinnovata speranza a livello personale, ecclesiale e sociale. La loro vicenda infatti, come ogni testimonianza autentica, possiede un’imponente dimensione pubblica, culturale e sociale, che attende ancora di essere raccolta e adeguatamente valorizzata. Con la sua stessa esistenza il martire denuncia il culto della violenza che si è diffuso in ampie parti del Medio Oriente e di cui oggi si raccolgono i tragici frutti. Ma soprattutto smaschera la contro-testimonianza dell’uomo bomba.

Il jihadista che pensa di poter imporre la “sua verità” attraverso la sofferenza delle sue vittime è l’opposto del martire, è l’anti-martire.

I martiri non sono andati a cercarsi la loro fine, ma nel momento della scelta non hanno avuto esitazioni: hanno creduto che il male non ha l’ultima parola. Ed è a questa certezza che noi ora abbiamo così bisogno d’attingere. Nel frastuono di commenti sui dolorosi fatti di Bruxelles, sono ancora queste umili voci a dirci la parola più vera.