VENEZIA – In data 1 aprile, il giovedì santo, è iniziato con la solenne celebrazione della S. Messa “Chrismatis” presieduta dal Patrarca nella Basilica di San Marco a Venezia. La Santa Messa del Crisma ha visto la partecipazione dei sacerdoti della diocesi (i quali hanno rinnovato pubblicamente le promesse fatte nel giorno della loro ordinazione) e di numerosi fedeli. Durante la celebrazione gli olii santi (l’Olio dei Catecumeni, degli Infermi e del Sacro Crisma) sono stati benedetti.
Viene pubblicata, qui di seguito, l’omelia del Patriarca:
1. «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Seconda Lettura). Il versetto dell’Apocalisse ci aiuta a comprendere che l’azione eucaristica è un’eco fedele della liturgia celeste, in cui ogni istante è denso di adorazione e di lode alla Trinità. Una lode che nasce dalla gratitudine, piena di stupore, di fronte all’amore di Dio, il cui nome nella storia è Gesù Cristo. Questa, infatti, è l’origine permanente della nostra vita: il primato dell’amore. L’amore di Colui che ci ha liberati dai nostri peccati con il Suo sangue sempre ci precede: Deus prior dilexit nos. L’icastica formula di San Giovanni dice l’essenza stessa del cristianesimo. Tutto il resto consegue da qui.
Far memoria di questo dato originario è decisivo per cogliere la natura profonda di quest’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando, e che il Santo Padre ha proposto a tutti noi come un’occasione privilegiata per riconoscere la santità come orizzonte proprio del nostro sacerdozio.
Il regno di sacerdoti per Dio Padre è il popolo santo di Dio preso nel suo insieme. Santo perché Suo, fatto di uomini che appartengono a Colui che è l’unico Santo. Santo perché redento e santificato. Così l’offerta quotidiana delle nostre persone, la vita vissuta come sacrificio gradito a Dio, il nostro essere membri di un popolo sacerdotale, nasce in ogni istante dal nostro essere santificati, cioè, dall’amore del Redentore che previene ed accompagna ogni nostra azione.
Perché non mancasse mai questa potenza santificatrice e potesse raggiungere, lungo la storia, gli uomini di ogni tempo e ogni luogo, lo Spirito del Risorto dona permanentemente alla Chiesa il ministero apostolico come sicura garanzia. A questo proposito il Concilio Vaticano II insegna: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa» (LG 10).
In tal modo il ministero sacerdotale è al servizio della santità del popolo di Dio e può essere compreso solo in questo orizzonte.
2. Proprio perché riferito all’opera di santificazione, il sacerdozio ministeriale, questo munus – termine che dice contemporaneamente dono e compito – richiede da coloro che sono stati chiamati a svolgerlo la santità di vita.
Sono scolpite indelebilmente nella mente e nel cuore di tutti noi le parole che abbiamo ascoltato il giorno della nostra ordinazione: «Renditi conto di ciò che fai, imita ciò che celebri, e conforma la tua vita al mistero della croce del Signore». La santità, come strada della vita, ha sempre il suo inizio nel dono ricevuto. Eppure la tentazione di ridurre la santità cristiana all’esito di quanto noi uomini dobbiamo e possiamo fare ad un puro codice di condotta è sempre in agguato. Ne risulta una visione della vita cristiana, e a fortiori della vita sacerdotale, ridotta alla sola etica, pur necessaria: come se tutto il cristianesimo fosse riconducibile ad una serie di comportamenti. zione riduttiva, enfatizzata dall’Illuminismo europeo, si ripropone in forme semplificate ed ingenue ai giorni nostri; come se non avesse mostrato, in questi trecento anni, tutta la sua impotenza a cambiare il cuore degli uomini.
Esiste un test inequivocabile che questa decurtazione del Vangelo è penetrata anche nel modo di pensare dei cristiani: il mancato riconoscimento del potere distruttivo del peccato e l’assenza del dolore per il proprio peccato. Così, non di rado, nella mentalità oggi dominante convivono rigorismo ed intransigenza moralistica, che derivano dal mancato riconoscimento del peccato e dall’assenza di dolore per averlo compiuto. Invece, il dolore per il male proprio e altrui è da sempre uno dei caratteri più eloquenti di una autentica coscienza cristiana. Un dolore che rende vigilanti di fronte alle debolezze e che insegna l’umiltà. Un dolore che chiede perdono è capace di riparare e, a queste condizioni, diventa fonte di correzione e di cambiamento. Un dolore che passa attraverso la preghiera, la penitenza e l’espiazione.
Ma quando questo dolore non c’è – e manca quando non si percepisce nel quotidiano il Deus prior dilexit nos – si verifica un fenomeno strano e contraddittorio: l’alleanza tra lo scandalo e il rilassamento morale. Mi riferisco a quello sconcerto davanti al proprio peccato che, trasformatosi in scandalo soprattutto nei confronti del peccato altrui, finisce per condurre al lassismo morale. L’uomo, infatti, in assenza dell’esperienza della misericordia, non può restare a lungo davanti al proprio peccato: presto o tardi arriverà ad affermare che non si tratta di peccato.
Agli antipodi di questa concezione in forza della quale, per dirla con Péguy, «i nostri peccati non sono più cristiani», si trova l’esperienza cristiana della santità che poggia sulla gratuita iniziativa della Pasqua di Cristo. Il Santo Curato d’Ars, confessore infaticabile, senza tregua né misura, non si stancava di ripetere che «il buon Dio, al momento dell’assoluzione, si getta i nostri peccati dietro le spalle, vale a dire le dimentica, li cancella: non riappariranno mai più! (…) Non si parlerà più di peccati perdonati. Sono stati cancellati, non esistono più!». Ma questo, certamente, non può essere opera degli uomini: è il segno evidente dell’azione di Dio nella nostra vita.
Recuperare la coscienza integrale della nostra vocazione alla santità e la certezza che la sua origine non può che essere la grazia redentrice di Cristo permette che la forza rigeneratrice dell’amore di Dio inondi ogni particolare della nostra giornata, lo trasformi e cresca in noi e con noi lungo il pellegrinaggio della vita verso la patria definitiva. Riforma e crescita sono due dimensioni normali della Ecclesia Immaculata, e riguardano tutti noi che siamo ancora in cammino.
Nella consapevolezza che siamo tenuti in ogni istante per mano dal Padre misericordioso che ci ama per primo acquistano ogni giorno la loro decisiva forza quelle pratiche virtuose che abbiamo imparato fin dai tempi del seminario. Ringraziare il Signore fin dal primo mattino per averci creato, offrirGli le azioni della giornata. Recitare il breviario con cura, celebrare la Messa quotidiana, visitare Gesù sacramentato, pregare Maria, confessarsi assiduamente, non abbandonare lo studio necessario per il nostro ministero. Soprattutto non isolarsi mai dalla comunione presbiterale e vivere ogni rapporto ed ogni circostanza come vocazione. In una parola chiedere con umiltà ogni giorno il dono di diventare santi.
L’approfondirsi della coscienza integrale della nostra vocazione alla santità aiuterà a dissipare le tenebre del dubbio e della confusione che così spesso sembrano invadere il cuore dei nostri fratelli uomini: “C’è il bene e il male? È possibile distinguerli? Posso evitare il male? Sono responsabile di fronte a tutti anche del male che sembra riguardare soltanto me?” Diventeremo così con i nostri fedeli compagni di strada di tutti gli uomini che cercano di rispondere a questi interrogativi, testimoniando la bellezza, tanto da noi irraggiungibile quanto irrinunciabile, del perdono. Nella nostra vita è possibile, infatti, riconoscere come il Signore ci offre «una corona invece della cenere, l’olio di letizia invece dell’abito da lutto, un canto di lode invece di un cuore mesto» (Prima Lettura), come abbiamo ascoltato nella profezia di Isaia.
3. La santità sacerdotale, che come ogni santità nasce dal dono che ci precede, cresce in noi secondo una doppia dinamica. La rinnovazione delle promesse sacerdotali, che tra poco faremo, lo ricorda con chiarezza.
In primo luogo sta la dinamica dell’impegno assunto spinti dall’amore di Cristo”. Ciascuno di noi è stato veramente mosso e commosso dall’amore di Cristo e vi ha corrisposto per gratitudine e per desiderio. Gratitudine nei confronti dell’amore sovrabbondante del Redentore. Desiderio di amarLo, di corrisponderGli con il dono della nostra vita. E questo desiderio grato per l’amore di Cristo fa nascere in noi – ecco la seconda dinamica – «l’amore per i nostri fratelli».
La vita sacerdotale in modo particolare poggia sull’intreccio fecondo di questo doppio amore. Quello originario di Gesù che ci riempie di gratitudine e quello nostro per gli uomini, come riverbero dell’amore di Gesù per tutti.
4. Segno pubblico, eloquente e significativo di vero amore è, nella vita dei sacerdoti, la grazia del celibato.
La Chiesa latina sceglie da tempo immemorabile i suoi presbiteri tra coloro che, per grazia, hanno ricevuto il dono del celibato. In questo modo i presbiteri rivivono, nella loro carne, la stessa forma di vita che fu di Gesù e con lo stesso scopo: il bene del popolo di Dio. La grazia del celibato, assunta liberamente e responsabilmente custodita e fatta crescere, costituisce per coloro che sono chiamati la modalità concreta per fare esperienza dell’amore senza mutilazioni psichiche e spirituali. Un amore che nasce dall’essere amati: è l’imponenza del Tu del Signore ad invadere la vita del sacerdote. Come si può parlare del sacerdote come dell’emblema della solitudine? Chi parla così non riconosce che nessuno può dire “io” senza dire “tu”. E non comprende la straordinaria legge della vita cristiana: io, ma non più io. Il “Tu” di Cristo mi ama e sempre mi accompagna.
Il “cuore indiviso” di colui che è chiamato al celibato è, come afferma il Vaticano II, «segno e stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale nel mondo» (LG 42). È decisiva questa sottolineatura del testo conciliare: “nel mondo”. È un tema che la stessa Lumen gentium riprende ancora quando, parlando dei religiosi, avverte: «Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città terrestre» (LG 46). La Chiesa, infatti, ha avuto sempre la coscienza che la verginità ed il celibato sono fecondi per il mondo. Aiutano il cammino di tutti gli uomini. Se vissuti autenticamente sono una peculiare documentazione della legge della gratuità. Infatti, come afferma San Paolo a Mileto nel suo discorso ai presbiteri di Efeso citando parole del Signore, «si è più felici nel dare che nel ricevere» (Att 20, 35). Il dono di sé che i presbiteri sono chiamati a compiere nei confronti del popolo cristiano, non è forse segno privilegiato per tutti della natura gratuita dell’amore?
5. In questa solenne Messa del Crisma rinnoviamo tutti la nostra gratitudine per il dono della vocazione cristiana e della vocazione sacerdotale. E chiediamo, per intercessione di Maria Santissima, corona sacerdotum – come recitano le antiche litanie veneziane – la grazia della fedeltà fino al giorno del nostro passaggio al Padre. Amen