In occasione della festa del Santissimo Redentore il Patriarca di Venezia, S.Em. Rev.Ma punta la sua attenzione sul ruolo delle famiglia italiana. Il vero progresso, sostiene il Patriarca, sta nell’innestare il nuovo sull’antico.
1. Colui che si prende cura
«Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34, 11, Prima Lettura). La promessa che il Signore, per bocca del profeta Ezechiele, fa al suo popolo, risuona ancora una volta in questa splendida basilica del Palladio e riempie il nostro cuore di speranza.
Anche quest’anno, con un gesto che si ripropone da secoli, il popolo veneziano, guidato dalle sue autorità e accompagnato da numerosi visitatori, confluisce ai piedi del Santissimo Redentore per ringraziarLo del dono della guarigione e della salvezza. Per tutti noi il ponte votivo rappresenta un po’ la strada che porta a casa, da Colui che si prende cura fino in fondo delle nostre persone.
Il profeta Ezechiele ci parla del Pastore che passa in rassegna il suo gregge, lo raccoglie, lo fa pascolare con giustizia sui monti della terra promessa, lo fa riposare in un buon ovile, fascia le sue ferite e ha cura di ogni singola pecora .
2. La strada del Padre
Il Beato Giovanni XXIII, che fu nostro amato Patriarca e di cui quest’anno abbiamo celebrato il 50° di elezione al papato, nelle preziose Agende veneziane, ritorna continuamente sulla figura del Buon Pastore evangelico (cfr Gv 10). Tutti noi conosciamo bene il tratto pastorale che Egli, sulla scorta della sua esperienza, impresse al Concilio Vaticano II.
Il patriarca Roncalli, riflettendo sull’insuperabile profondità della cura di cui siamo oggetto da parte di Dio, associò alla figura del Pastore quella del Padre ricco e misericordioso. Non a caso il Vangelo di questa Festa afferma: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17).
Il Padre non solo ha cura del Suo gregge, ma vuole renderlo partecipe della Sua stessa vita donandogli il Figlio. Una partecipazione che si configura come filiazione. Dio ci vuole Suoi figli in Gesù Buon Pastore.
Questo dono, assolutamente gratuito e misericordioso, in nessun modo immaginabile o esigibile da parte degli uomini, ci viene offerto attraverso la misteriosa strada del sacrificio del Figlio.
La cura che Dio si prende di noi facendoci figli nel Figlio, tiene conto fino in fondo della situazione storica in cui versa l’uomo, segnato dal peccato e dalla morte provocati dalla disobbedienza. L’enorme peso del male nel mondo – ne siamo così spesso testimoni anche oggi – non di rado insinua il dubbio nei nostri cuori: davvero il male e l’ingiustizia non prevarranno?
Le piaghe del Crocifisso Risorto ci dicono che la salvezza di Cristo non cancella il male con un beffardo colpo di spugna, non nega la sua laida presenza nella vita degli uomini. Il Redentore lo prende su di Sé, lo delimita col bene, lo abbraccia e lo vince trasformandolo in un’occasione di sovrabbondante grazia.
Noi siamo figli di un Padre misericordioso che «dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8): come possiamo cercare di comprenderlo?
3. Una risorsa decisiva
Io credo che una via privilegiata per penetrare il senso profondo della paternità cui Gesù Buon Pastore ci introduce sia l’esperienza, comune ad ogni uomo, della famiglia. Per questo, oggi, sulla scorta della Dottrina Sociale della Chiesa, vorrei dedicare qualche riflessione alla realtà della famiglia nel nostro Paese.
Tanto più che in occasione della Festa del Redentore, secondo tradizione, il Patriarca è solito rivolgersi ai fedeli cristiani e a tutti i membri della società civile della nostra Venezia per riflettere insieme su qualche importante aspetto della vita del nostro popolo.
In un contesto sociale in rapida e spesso caotica trasformazione, divenuto più “liquido” come dicono gli studiosi, bisogna porre un fondamento solido, come i pali su cui da secoli si reggono gli edifici della nostra mirabile Venezia.
Se guardiamo i recenti dati ISTAT e CENSIS scopriamo che in Italia la famiglia, così come la definisce la Costituzione (cfr. articoli 29-31; 37), rappresenta nei fatti una risorsa decisiva per il progresso dell’intera società.
Quando si parla di progresso bisogna evitare un grave equivoco. Quello di identificarlo con l’inedito, bollando come immobile conservatorismo tutto ciò che rinnova la tradizione. Il vero progresso invece sa innestare il nuovo sull’antico.
Analogamente le analisi sulla secolarizzazione devono tenersi alla larga da generalizzazioni e luoghi comuni. La situazione dell’Italia non è la stessa, per esempio, di quella della Francia, della Germania o della Spagna.
E la famiglia è proprio uno dei fattori che fanno la differenza.
È vero che sono sempre più numerose le coppie che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Tuttavia in Italia tale fenomeno non solo è ancora abbastanza esiguo ma rappresenta assai spesso un passaggio verso il matrimonio, più che un’alternativa allo stesso. Da noi il tasso di divorzio è tra i più bassi d’Europa. Pur mutando il proprio ruolo sociale, la donna italiana di oggi, che lavora di più fuori casa, dichiara che matrimonio e maternità sono al primo posto tra le sue aspirazioni. Infine, nonostante i cambiamenti demografici, i legami intergenerazionali sono molto intensi e le reti di solidarietà familiare si rafforzano: più della metà degli italiani che hanno i genitori viventi abita con entrambi o almeno con uno dei due. Non solo: allontanarsi dai genitori in generale non significa allentare i contatti, anzi. La famiglia d’origine ha un ruolo di supporto molto importante e fondamentale, in un contesto caratterizzato da una carenza nei servizi e da misure politiche ed economiche per molti aspetti ancora deficitarie.
Non possiamo, tuttavia, ignorare che i rapidi e profondi cambiamenti della mentalità e dei comportamenti e la presenza di diversi stili e modalità di convivenza, sollecitino con forza una domanda radicale: è ancora possibile parlare di famiglia in modo univoco? Di una sua inalienabile identità basata su alcuni caratteri fondanti, rintracciabili in ogni cultura e società?
Esiste un proprium della famiglia? Promuovere la famiglia così intesa è un modo efficace per affrontare le questioni antropologiche scottanti?
4. Il proprium della famiglia
Il celebre antropologo Lévi-Strauss parlava dell’unione socialmente approvata di un uomo e una donna e i loro figli come di «un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società». Identificava in tal modo il proprium della famiglia. Reputo che questo dato sia ancora attuale e non possa essere ragionevolmente smentito.
L’affermazione di Lévi-Strauss è chiara nel contenuto di fondo, anche se va interpretata in modo adeguato. Riconosce il fatto che esiste una sorta di “società naturale”, fondata su un doppio legame: quello tra l’uomo e la donna e quello tra genitori e figli. Il che non significa far riferimento ad un modello storico particolare di famiglia, tantomeno sostenere che la realtà della famiglia coincide con la famiglia nucleare così come noi oggi in Italia generalmente la conosciamo. Questo importante rilievo si limita a registrare l’esistenza di una sorta di “universale sociale e culturale”, che però è ben riscontrabile empiricamente, e lo è, praticamente, in ogni società.
Il dato costitutivo del proprium della famiglia è la sua natura intrinsecamente relazionale.
La famiglia infatti non si definisce soltanto in riferimento ai soggetti che la compongono (l’uomo, la donna e i loro figli), ma mette contemporaneamente in campo il legame di appartenenza che si instaura tra di loro. È quella specifica forma di “società primaria” che tiene insieme e di fatto permette un armonico sviluppo delle differenze costitutive dell’umano – quella sessuale tra l’uomo e la donna e quella tra le generazioni (nonni, padri, figli). La famiglia è istituita per dare forma sociale alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita.
Il riconoscimento della famiglia come relazione specifica tra i sessi e le generazioni richiede pertanto una chiara valorizzazione dell’istituto matrimoniale.
Si capisce bene perché il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nella Familiaris consortio (n. 43) affermi che la famiglia è il luogo insostituibile di «esperienza di comunione e di partecipazione».
5. Al servizio dell’identità dell’io
Il quotidiano e stabile rapporto “io-tu” che passa attraverso le relazioni primarie vissute in famiglia favorisce normalmente la equilibrata crescita della persona.
L’identità della persona è strettamente connessa sia alla presenza della coppia generativa, sia alla storia delle generazioni di cui è espressione. È questo un dato costante, comune ad ogni esperienza familiare. Né si tratta di un dato puramente biologico. Infatti «con la famiglia si collega la genealogia di ogni uomo: “la genealogia della persona”» (Giovanni Paolo II).
In questo sta la forza drammatica della famiglia. Essa, infatti, costituisce per ogni uomo, tanto nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi, la via privilegiata per cogliere e sviluppare la propria identità personale. Quello che siamo e pensiamo di noi, la fiducia che nutriamo in noi stessi, in una parola il valore della nostra singolare persona sono in larga misura fondati sulla possibilità di sperimentare un senso di appartenenza al corpo familiare nel succedersi delle generazioni. La fiducia di base di un bambino nei confronti della vita, la sua consapevolezza di essere un soggetto degno di essere amato e capace di amare nella sua irripetibile unicità di persona, nasce e si sviluppa all’interno del contesto familiare.
Come spesso accade, la verità di queste affermazioni diventa più evidente in presenza di situazioni limite che ripropongono la domanda sulla propria origine: «Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro» (Hölderlin).
Pensiamo, ad esempio, ai dubbi che accompagnano la vita dei bambini adottati. L’interrogarsi sulla loro provenienza è esperienza comune, spesso anche dolorosa e travagliata, per questi ragazzi. È difficile vivere pensando che i tuoi genitori non siano stati in grado di volerti e di starti accanto, qualunque sia stata la motivazione della loro scelta. L’interrogativo profondo che agita questi figli ripropone una domanda che vale per ciascuno di noi perché riguarda l’essenza originaria della nostra consistenza antropologica. Noi riusciamo a riconoscerci pienamente, quando sentiamo che qualcuno ci ha precedentemente riconosciuti e voluti, cioè quando la nostra autocoscienza, anche irriflessa, poggia su un legame e un’appartenenza originaria nella quale ci possiamo in ogni momento ritrovare. La mancanza di questa certezza non impedisce di crescere, ma rende la crescita più difficile e incerta.
Pensiamo ad un’altra situazione critica, che coinvolge un numero sempre crescente di figli: la separazione o il divorzio dei genitori. Molto è stato detto e scritto sugli effetti a breve e a lungo termine che la dissoluzione del legame coniugale provoca sulla vita dei figli. Al di là delle difficoltà di adattamento personale e sociale alla nuova situazione, quello che è più duro da accettare per loro è proprio la perdita di senso del legame di coppia da cui hanno avuto origine. Le letture più serie ed approfondite di questo fenomeno ci dicono che l’ostacolo più forte per l’identità dei figli non sta nel tasso di conflittualità a cui possono essere stati esposti nel processo di separazione dei genitori, quanto nel venire meno della certezza fondamentale legata all’unione originaria dei genitori. Un figlio sa che esiste in virtù dell’unione dei suoi genitori, e di conseguenza non può facilmente adattarsi all’idea che quest’unione possa venir meno.
6. Un insostituibile luogo educativo
Un’altra caratteristica dell’ “universale sociale” che è la famiglia è il suo essere luogo educativo fondamentale. «La famiglia costituisce “una comunità di amore e di solidarietà che è in modo unico adatta ad insegnare e a trasmettere valori culturali, etici, sociali, spirituali e religiosi, essenziali per lo sviluppo e il benessere dei propri membri e della società”» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 238).
La famiglia infatti trasmette, quasi per osmosi, l’esperienza morale elementare (ethos). È la società elementare in cui ognuno, attraverso il bene primario degli affetti, è “riconosciuto” come persona – il sorriso della madre al bambino gli dice: “è bene che tu sia” – e fiduciosamente spalancato al futuro da una “promessa” di felicità da cui scaturisce un “compito” che deve essere assunto nel rapporto tra le persone e nello scambio tra le generazioni.
La famiglia è per eccellenza il luogo di un’educazione basata sulla scansione “riconoscimento-promessa-compito”. Questi tre fattori costitutivi dell’esperienza morale elementare comune ad ogni uomo non si possono mai separare.
Il benessere di una famiglia coincide anzitutto con la sua capacità di rispettare e promuovere questo ethos sostanziale che educa alla fiducia, alla speranza, alla giustizia e alla lealtà.
7. La famiglia alla prova
Non si deve però credere che questo ethos familiare sia di per sé garantito dai rischi di un suo impoverimento. In ogni relazione familiare, la fiducia e la giustizia convivono con il loro opposto. Nessuna famiglia ne è immune: in ognuna vive una certa quota di mancanza di fiducia, di ingiustizia e di prevaricazione.
In particolare nell’odierna cultura la famiglia è messa alla prova dalla riduzione degli affetti a pure emozioni, per loro natura transitorie e instabili. Le emozioni però non generano quella duratura promessa che rende ragionevole la vita come compito.
Dare consistenza alla famiglia come luogo di educazione morale elementare e contrastarne i processi degenerativi domanda una forte ripresa educativa dei parentes. Non solo dei genitori, ma anche dei nonni.
A tal fine però la società civile e chi la governa non deve trattare la famiglia come una privata joint-venture, ma vedere in essa la cellula elementare della società stessa, come del resto fa la nostra Costituzione. Anzi la famiglia è in se stessa la prima forma di società.
8. Una risorsa per tutta la società
Nella società italiana, pur tra molteplici e crescenti difficoltà, si registra ancora una fitta rete di scambi, di prestazioni di cure, di solidarietà che legano i vari membri della famiglia e delle generazioni, anche se ciò raramente viene messo in evidenza con la dovuta consapevolezza.
In questo possiamo vedere all’opera l’ethos tipico dei legami familiari e la loro fecondità sia sul piano personale, sia su quello sociale.
C’è una stretta relazione tra appartenenza alla società e appartenenza ad una famiglia: la famiglia è matrice dell’appartenenza sociale, in essa nasce la fiducia, si sviluppa la capacità di cooperare responsabilmente al bene comune in un incessante scambio reciproco. Per queste sue prerogative la famiglia viene considerata un capitale sociale primario che, se consolidato e incrementato genererà benessere per l’intera comunità sociale, se consumato o indebolito porterà inesorabilmente allo sfaldamento del tessuto societario.
Fino ad oggi la forza della famiglia ha compensato, fungendo da volano, la spinta destabilizzante di scelte compiute a livello politico sociale in un’ottica prettamente individualistica. Penso alla mancata equità generazionale e alla notevole penalizzazione delle generazioni più giovani. Il rapporto tra generazioni diverse all’interno di una stessa famiglia ha fatto sì che laddove la circolazione equa di risorse veniva interrotta a livello sociale, essa si riattivasse attraverso il codice della reciprocità e della solidarietà nelle reti familiari. La famiglia sostiene i costi prevalenti del ricambio generazionale: in questo suo essenziale ruolo sociale dovrebbe essere favorita.
9. La famiglia come attore economico
La famiglia non è semplicemente un attore importante sul “mercato”. Essa, infatti, è il luogo normale della soddisfazione dei bisogni elementari dei suoi membri, anche attraverso il godimento dei beni e dei servizi che vi vengono autoprodotti. Spesso è il lavoro femminile che sostiene direttamente o indirettamente la produzione di beni veri e propri che, pur non transitando per il mercato, sono consumati e contribuiscono al ben-essere. Le misure economiche standard del ben-essere sono però costruite in modo da ignorare sistematicamente il contributo delle famiglie – e segnatamente delle donne: il lavoro non pagato non entra nel calcolo del reddito nazionale, pur contribuendo al benessere.
Ci sono alcuni aspetti della “produzione” della famiglia che non sono facilmente rimpiazzabili dal “mercato” (a differenza di una torta casalinga o della stiratura delle camicie) e che meritano particolare attenzione.
Ci riferiamo ancora una volta alla famiglia come luogo della produzione di “cura”: dei piccoli, degli anziani… Il ruolo economico della famiglia, dunque, deve essere adeguatamente compreso e valorizzato in qualunque riflessione sulla sostenibilità dei sistemi di welfare. Infatti la lettura che ipotizzava un venir meno degli aiuti familiari dovuto all’intervento statale, viene smentita.
Innumerevoli studi, relativi ai più diversi contesti mondiali, indicano che l’appartenenza alla rete familiare rappresenta un fattore cruciale di sviluppo economico e imprenditoriale, di elevata performance nel sistema educativo, di riduzione della partecipazione a reti criminali e così via.
La famiglia inoltre è un ambito di “assicurazione” reciproca: è importante poter contare su una struttura intergenerazionale sia nelle economie ad alto reddito, in cui si osservano cambiamenti economici repentini, sia nei contesti di povertà.
Questi dati indicano con chiarezza che nessuna politica per il rilancio dello sviluppo economico può essere ragionevolmente pensata senza attenzione al ruolo economico della famiglia.
10. Urgenza di politiche sociali per la famiglia
L’indebolimento della famiglia trascina con sé quello della intera comunità e rende vano ogni tentativo di rafforzare la coesione sociale. Ecco perché è urgente che lo Stato e le istituzioni pubbliche (sia centrali sia locali) comprendano quali sono le strategie più opportune per tutelare e promuovere la famiglia.
Chi proclama di avere il massimo interesse per il benessere della società, ma non propone interventi autenticamente tesi a rafforzare la famiglia, si illude di compiere scelte ‘neutrali’ nei confronti della famiglia. In realtà ogni azione che non passi attraverso di essa, la indebolisce ed erode il benessere sociale alle fondamenta.
Una autentica politica familiare non va confusa con una generica politica di lotta alla povertà, o tesa a contrastare il calo demografico, o finalizzata ai minori o al lavoro. Deve essere un insieme interconnesso d’interventi, in cui la coerenza è garantita dal fatto che l’obiettivo finale è il potenziamento delle relazioni familiari tra i sessi e le generazioni.
È opportuno fermare l’attenzione su due aspetti che oggi costituiscono un nodo cruciale delle politiche familiari. La possibilità che le famiglie si organizzino autonomamente per rispondere ai propri bisogni, nell’ottica di una piena sussidiarietà, dipende sostanzialmente dal fatto che dispongano in misura adeguata sia di risorse economiche che di tempo.
Dal punto di vista delle politiche sociali, questo significa occuparsi di due temi cruciali: l’ “equità fiscale” e la conciliazione tra “famiglia e lavoro”.
11. Un fisco a misura di famiglia
Il nucleo centrale di tali interventi, in assenza del quale l’intero castello non può sostenersi, è l’attuazione di “un fisco a misura di famiglia” – già attuato in buona parte dei paesi europei -, unico in grado di garantire un’autentica equità fiscale, riconoscendo il ruolo insostituibile della famiglia quale luogo in cui avviene il ricambio generazionale.
È noto che, fino ad oggi, le politiche fiscali del nostro Paese (al di fuori dei nostri confini la situazione è sensibilmente diversa) non solo non riconoscono, ma penalizzano in modo notevole le famiglie con figli (“più figli hai peggio stai”).
Chi si oppone all’attuazione di un fisco a misura di famiglia, spesso considera tali interventi antitetici alle politiche di contrasto alla povertà. A questo proposito occorre rimuovere alla radice il pregiudizio secondo il quale politiche fiscali chiaramente orientate alla famiglia penalizzerebbero le classi povere a vantaggio di quelle medie. In realtà, una buona politica familiare costituisce una misura estremamente efficace nella prevenzione della povertà, facendo contribuire ciascuno secondo le reali disponibilità economiche, ma lasciando alle persone e alle famiglie risorse sufficienti per rispondere in modo libero e responsabile ai propri bisogni.
Come distinguere tra misure fiscali che aiutano realmente la famiglia e misure che, dietro questa apparente intenzione, nascondono l’effetto di penalizzarla? Il criterio discriminante è la considerazione di chi sia il contribuente e quindi il beneficiario dell’eventuale agevolazione: se è l’individuo, qualsiasi provvedimento non avrà un carattere familiare.
Ovviamente non è mio compito declinare tecnicamente questo importante criterio di valore.
12. Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro
Su un fronte diverso da quello prettamente fiscale, si collocano poi le politiche di conciliazione famiglia-lavoro.
Relativamente ad esse, occorre in prima battuta evidenziare come l’attuale assetto dei sistemi di welfare europei da una parte si sia consolidato attraverso l’introduzione, per via legislativa, di norme vincolanti i contesti lavorativi al rispetto dei diritti del dipendente a un sufficiente tempo per sé e per le proprie relazioni personali (ad esempio: normative che stabiliscono l’orario massimo di lavoro settimanale o leggi sui congedi); dall’altra incentivando agevolazioni, solitamente di tipo fiscale, per chi organizza il sistema lavoro in maniera sensibile alle esigenze personali dei dipendenti.
A noi pare che sia urgente un ampio ripensamento culturale a partire dal riconoscimento delle reciproche implicazioni delle due sfere di vita: famiglia e lavoro. E questo col coinvolgimento di tutte le componenti (mercato, mondo del lavoro, lavoratori, famiglie, Stato, enti locali, terzo settore e privato sociale).
Le genti venete che hanno saputo coniugare in modo efficace famiglia e lavoro, sono chiamate oggi a creare strumenti adeguati per conciliare queste due essenziali dimensioni proprie dell’esperienza umana elementare. Anche rinnovando le forme del riposo, il cui compito è dettare il giusto ritmo al rapporto affetti/lavoro.
13. Politiche familiari per “quale” famiglia?
Da ultimo, non va taciuta un’altra fondamentale questione rispetto alla quale soluzioni diverse possono avere effetti diametralmente opposti.
Si tratta della scelta di porre come criterio distintivo della famiglia il vincolo matrimoniale.
Quando si parla di politiche familiari, a quale “famiglia” si fa riferimento? Quando, ad esempio, si discute di assegni familiari, l’aggettivo “familiare” deve essere sempre riferito ad un nucleo di coniugi (anche separati) con i propri figli. Solo così appare chiaro il duplice intreccio tra sessi e generazioni che costituisce l’autentica famiglia. Così si lega il bambino alla coppia che l’ha generato e si promuove la conservazione della relazione genitoriale anche dopo la separazione della coppia. Quindi una valorizzazione dell’istituto matrimoniale è imprescindibile se si vuol perseguire il bene della famiglia quale cellula costitutiva della società.
Spesso però le politiche sociali considerano con un’ottica individualistica relazioni autenticamente familiari e, in modo paradossale, sembrano orientarsi ad assumere un’ottica familiare per le convivenze di soli adulti non basate sul matrimonio. Invece in queste situazioni, proprio per distinguere con chiarezza il valore dei legami familiari, le relazioni possono essere regolate con il regime dei diritti delle persone senza che esse debbano essere considerate “famiglia”.
Lo ripetiamo: la relazione familiare resta un unicum insostituibile, perché tiene insieme le differenze originarie e fondamentali dell’umano, quella sessuale tra l’uomo e la donna che ha come obiettivo e intrinseco orizzonte la fecondità, e quella tra le generazioni.
Certo, concepire così la famiglia contrasta l’opinione di quanti oggi spingono verso una società fatta di “relazioni impersonali e anonime”, tenute a mantenersi “immuni” dal vincolo troppo coinvolgente e impegnativo della relazione familiare, per poter essere massimamente egualitarie e competitive.
Ed è per questo motivo che nell’ambito di alcune politiche sociali il legame coniugale, in quanto vincolo responsabilizzante, perde il ruolo di punto di riferimento, mentre si afferma un uso assolutamente generico (e improprio) dell’aggettivo “familiare”, assegnato anche a legami a basso investimento affettivo ed etico, che possono essere sciolti e ricomposti con facilità e rapidità.
Tuttavia gli insuccessi sempre più palesi della cultura individualista, che non riesce a svolgere un ruolo veramente educativo nei confronti delle giovani generazioni (sempre più protagoniste di comportamenti antisociali), conducono anche i più scettici a richiamare la necessità di rigenerare il legame sociale, di rafforzarlo, di fondarlo sulle solide basi della fiducia, della reciprocità, della cooperatività. Questi sono appunto i caratteri specifici della relazione familiare intesa in senso proprio. È la ragione per cui si deve investire sul “capitale familiare” per incrementare quello sociale.
14. L’apporto della Chiesa
Grazie al legame di amore tra i genitori e alla cura che offrono ai propri figli in questi cresce in modo naturale la speranza. Quella speranza che permette di affrontare la vita positivamente, che ci rende uomini e donne spalancati e non difesi davanti alla realtà.
Eppure, lo abbiamo già detto, l’esperienza storica di ogni uomo e di ogni donna è attraversata dal dramma del male. Il male è il nemico più potente della speranza. Infatti la speranza nasce da certezze presenti che la violenza del male sembra infrangere.
Anche la famiglia, lo sappiamo bene, è bisognosa di redenzione. Essa non può pretendere di essere la risposta esauriente e definitiva alla domanda di salvezza che abita il cuore degli uomini.
Il potenziale di bene che vive nella famiglia, e che deve essere strenuamente promosso, è sempre alla ricerca della redenzione definitiva.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi carne, non è il Redentore di individui separati dalla comunità. Egli è il Redentore di ciascuno e di tutta l’umanità. Lo è anche della famiglia. Egli ha voluto farne esperienza diretta, è cresciuto nella Santa Famiglia di Nazaret in cui affetti, promessa e compito vivevano in perfetta armonia.
In questo vespero del Santissimo Redentore Gesù viene incontro alle nostre famiglie per compiere la promessa di felicità insita in questa insostituibile istituzione sociale.
La Chiesa santa di Dio – il cui unico compito è lasciar trasparire sul proprio volto quello di Cristo, luce delle genti – promuovendo la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra l’uomo e la donna e aperta alla vita, umilmente continua a perseguire il mandato del Suo fondatore.
Il Vangelo della famiglia e della vita è infatti al cuore del Vangelo del Dio incarnato.
Tutti, cristiani e uomini di buona volontà, vorranno riconoscere in questo decisivo aspetto della missione ecclesiale un prezioso contributo all’autentico progresso del nostro Paese.