La sofferenza, il dolore dell’uomo e l’opera del Redentore: in merito ai temi affrontati dal Patriarca Scola nel discorso del Redentore, riportiamo qui il pensiero di Giuliano ferrara, direttore de Il Foglio.
(testo non rivisto dall’autore)
“Il tema del dolore, della sofferenza, non sono nuovi; tutto il Novecento è stato caratterizzato dalla riflessione su questi temi. Penso alla “Montagna incantata”, di Thomas Mann, pubblicato nel 1924: si svolge in un sanatorio, un luogo di sofferenza. Qui si comprende cosa sia la concezione integrale della persona umana, grazie allo scontro tra il giovane Hans Castorp, il protagonista che in questo sanatorio cerca il significato della propria vita e Lodovico Settembrini, un vecchio massone italiano pieno di ideali repubblicani e laici, che è intento a scrivere una sorta di enciclopedia della sofferenza per giungere alla sua eliminazione.
La reazione del giovane Castorp al tentativo di indottrinamento di Settembrini, secondo il quale la sofferenza è solo retaggio di un’epoca in cui l’uomo non sapeva padroneggiare la vita e la morte, mentre adesso con la scienza saranno tutte eliminate, va nella direzione opposta: qui, in questo sanatorio dove la morte e la sofferenza venivano nascoste – i funerali non si facevano, i malati di tubercolosi venivano accompagnati fuori nella clandestinità – comincia a mandare dei fiori agli ammalati, a visitarli, a parlare con loro. Cominciadi fatto la cura. La cura è una dimensione preziosa del senso dell’umanità ed è una dimensione decisiva e realista.
Dal momento che è ineliminabile, la sofferenza deve avere un senso e un significato e noi dobbiamo essere capaci di darglielo, il che non significa essere cinicamente sordi al grido di disperazione che sale. Noi dobbiamo capire il grumo di disperazione, l’incapacità di leggere la creaturalità dell’uomo che sta dietro questa disperazione, ma possiamo per questo rassegnarci? Può la Chiesa Cattolica, può la cultura cristiana, possono i portatori di idee millenarie che vanno nella direzione della cura rassegnarsi? Io penso di no, per questo, al di là del fatto che si rispettano le scelte di tutti, nel caso di Eluana io ho pensato che la cosa più giusta fosse parteggiare, senza animosità, non per la squadra di volontari della morte che l’hanno spenta in una clinica simile al sanatorio di Thomas Mann, ma parteggiare per le suore della clinica di Lecco che la curavano. La cura è quello: è dedizione di sé, assistenza, puntualità e capacità di conservazione di ciò che è umano.
Il discorso del Patriarca ha una venatura teologica e civile. Ma a proposito della legge sul fine vita voglio sottolineare che la norma pubblica scatena un problema drammatico: come si fa ad autorizzare una volontà all’insegna dell’autodeterminazione, anche di morire (con la cosiddetta dichiarazione anticipata di trattamento), ma negarla quando la persona è incapace di agire in proprio? E’ vero che idratazione e alimentazione non sono terapie nel senso sofisticato del termine, però dal punto di vista della volontà del soggetto sono cose che si possono avere o non avere e si possono anche rifiutare attraverso un testamento.
Fare un testamento che esclude quella possibilità di rifiuto significa mettere per iscritto in una legge che l’uomo non è libero di fare ciò che vuole della propria vita. Io sono convinto che l’uomo non è libero di fare ciò che vuole della propria vita e questa per me è una certezza laica che mi riempie di speranza e mi da di mistero. Però temo che escludere idratazione e nutrizione dal cosiddetto testamento biologico ci porterà molti guai.