Proponiamo un’intervista al cardinale Scola effettuata da Matteo Matzuzzi, originariamente pubblicata il 31 ottobre 2020 dal quotidiano Il Foglio a questo link.


Banchi con le rotelle, collegamenti su Zoom, didattica a distanza alternata: trenta per cento in presenza, poi cinquanta, poi settantacinque, in qualche caso cento per cento. Il dibattito sulla scuola, in Italia, negli ultimi mesi è tutto qui: come conciliare le lezioni con l’andamento delle curve pandemiche. Il resto, si è perso. Eppure, mai come ora, soprattutto dopo i mesi di chiusura forzata, discutere di responsabilità educativa è fondamentale. Qual è la posta in gioco? A rispondere, in questa conversazione con il Foglio, è il cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano: “La posta in gioco la vedono bene i papà, le mamme, i nonni dei nostri ragazzi. Magari confusamente, percepiscono che il loro sforzo educativo deve trovare continuità in altre agenzie tra le quali le principali, in Italia, sono sicuramente la scuola e la chiesa. Il problema è intendersi su cosa sia educazione, su quale tipo di relazioni comporti, su quale sia il nesso fra la trasmissione dei saperi e l’inevitabile necessità di uno sguardo unitario, di un principio sintetico per affrontare la realtà tutta intera. Inoltre – aggiunge Scola – quale libertà? Quale autorità? Certo è un discorso complesso, però inevitabile. La dolorosa vicenda del lockdown ha messo in luce le crepe del nostro sistema scolastico generate dalla tendenza a ridurre l’insegnamento a pura istruzione. Si danno accuratamente le nozioni necessarie in vista del lavoro futuro, ma la dimensione educativa è spesso inesistente. Ho sentito da non pochi docenti e genitori che in alcune scuole si sta pensando di rendere permanente l’insegnamento a distanza perché sarebbe più efficace, eliminando alla radice problemi di sovraffollamento delle classi e di disciplina. Ma senza la dimensione delle relazioni quotidiane tra alunni e tra alunni e docenti non c’è più comunicazione di esperienza”.

Si sono lette in questi mesi storie belle, di adolescenti che sono rimasti incollati alle lezioni via computer quasi – ed è un paradosso – la scuola rappresentasse davvero l’evasione dal confinamento domiciliare imposto dal virus. Ma non sono poche neppure le vicende opposte, di percorsi interrotti e di relazioni sempre più complesse. Umberto Galimberti, un anno fa, scrisse sul Corriere della Sera che “i ragazzi non stanno bene ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo”. La scuola ha qualche responsabilità? “Succede sovente ai ragazzi di non stare bene senza capire il perché. Forse il limite di questa generazione giovanile non è anzitutto un limite dei giovani, ma degli adulti che camminano per lo più solo sulla base di frammenti di senso e di scopo. Per esempio: il serio impegno con il lavoro si accompagna sovente con il disordine affettivo, che produce crisi di coppia e infragilisce sempre più la famiglia. In tal modo sono gli adulti per primi che non sanno bene dove andare. Questo smarrimento, comunque venga vissuto, ha un riflesso imponente sui giovani”, dice il cardinale Scola, che aggiunge: “Perché la vita abbia un senso bisogna incontrare qualcuno che mi voglia veramente bene, cioè che ami il mio cammino e abbia a cuore il mio destino. Insomma, se non si propone ai ragazzi uno sguardo intero su tutta la realtà, li si lascia esposti a una frammentazione dell’io che è assai deleteria, come si vede dal doloroso incremento di suicidi di adolescenti. Indotti magari dai cosiddetti ‘giochi di ruolo’, pensiamo al terrificante ‘Blue Whale’. Mi ha colpito di recente un lungo colloquio avuto con un giovane di quarta liceo a proposito del suicidio di due suoi compagni di scuola. Il ragazzo la presentava come una scelta coraggiosa ed eroica. ‘Veramente eroica – ribattei io – è la passione con cui i tuoi genitori giorno dopo giorno ti accompagneranno testimoniandoti una vita intessuta di amore, di lavoro, di modalità di riposo. La pazienza che questo stile di vita implica ti farà scoprire ogni giorno di più la risposta alla ineludibile domanda di Leopardi, ‘E io, che sono?’”.

E la scuola può accompagnare questa domanda di senso? “Affinché la scuola assuma la fisionomia positiva descritta le condizioni sono due: libertà e autorità. L’educazione è impossibile senza libertà perché la libertà è la condizione necessaria per raggiungere il compimento del desiderio costitutivo del cuore. ‘La cosa più importante nell’educazione non è un affare di educazione, e ancora meno di insegnamento’, diceva Maritain. ‘L’esperienza […] non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso’. E l’esperienza deriva da una libertà che si gioca. Il ragazzo nel rapporto con l’adulto non deve sentirsi dominato dalla costrizione. Per questo è molto importante che, soprattutto gli insegnanti, riescano ad affascinare nel compito di trasmettere i saperi. E’ vero che due più due fa sempre quattro. Ma il modo con cui un insegnante di matematica trasmette la materia dipende dalla sua capacità di comunicarne la bellezza oltre che dal suo entusiasmo per il proprio lavoro. Cosa impossibile se l’insegnamento non comunica un senso. Evidentemente – prosegue il cardinale – ciò non implica che gli insegnanti, e ancora prima i genitori, non debbano costituire anche un argine naturale alla libertà insicura o per eccessiva timidezza e involuzione o per eccessiva trasgressione e sbandamento dei ragazzi. Quindi libertà e autorità mi sembrano fattori oltremodo decisivi, da perseguire instancabilmente. Gli educatori non devono mai considerare l’alunno come irrecuperabile a quella seria responsabilità richiesta dalla scuola che è l’anticipo del lavoro. Spesso, sia come insegnante sia come prete, ho visto ragazzi cambiare radicalmente la posizione di fronte agli adulti e anche di fronte alle materie quando si sono sentiti offrire un sentiero che ha messo in gioco direttamente la loro libertà, rendendoli migliori di quanto essi stessi pensassero”.

È possibile un’educazione per così dire “asettica”? Oggi quando si discute di scuola, sembra che la neutralità sia una medaglia da appuntare al petto, determinante. “Si sostiene che la scuola può essere laica solo se neutra, cioè indifferente a tutte le ‘diversità’, ivi comprese quelle etniche, culturali e religiose, destinate a crescere esponenzialmente con la massiccia presenza di studenti di origine straniera”, risponde l’arcivescovo emerito di Milano. “Anzitutto, per quanto abbiamo già detto della scuola come trasmissione di saperi a partire da un’esperienza, è impossibile che un insegnante non giochi la sua visione dell’istruzione stessa e della vita spiegando qualsivoglia materia. Quindi a mio parere la scuola neutra è pura utopia. Quanto poi all’affermazione che solo una scuola neutra può essere laica, essa comporta il mancato riconoscimento dell’evoluzione del concetto di laicità verificatosi nel nostro paese in questi ultimi cinquant’anni. A parte il termine stesso ‘laicità’ che rinvia al concetto di popolo (in greco laos) e quindi mette in campo l’intera società civile, purtroppo ancora oggi questa parola, soprattutto nel nostro paese, continua a essere condizionata dai problemi relativi al rapporto stato-Chiesa di origine risorgimentale. Una nuova laicità è necessaria considerando la ricchezza, la vivacità, la pluralità di espressioni sociali, culturali e politiche proprie di tutti i soggetti che abitano la polis. Il problema è coinvolgere tutti questi soggetti in un confronto reciproco costante, in vista di un riconoscimento che consenta il massimo di vita buona. Soprattutto per questo parlare di neutralità è pura utopia”.

“Libero” è un aggettivo che comunque crea qualche problema interpretativo: quando si parla di libertà della scuola, il discorso è ridotto a scuola di stato o non di stato. Ma è tutta qui la libertà della scuola, in una di queste due alternative? “No. Partendo dalla nuova concezione di laicità indicata, si vede che i soggetti costitutivi della società civile – anzitutto i cittadini con i loro diritti e i loro doveri, poi i corpi intermedi e infine gli organismi istituzionali preposti al governo della società – non hanno spesso sufficiente chiarezza su cosa s’intenda per scuola libera. Quando si parla di scuola, anche in questo doloroso frangente del coronavirus, la stragrande maggioranza usa l’espressione ‘scuola pubblica di stato’. Di fatto si continuano a considerare ‘private’ le scuole create e gestite da soggetti diversi dallo stato. Come se una scuola non fosse di per se stessa un fatto pubblico. Si rivela qui un’oggettiva carenza di libertà realizzata”. Prosegue Scola sostenendo che “non è difficile riconoscere che le esigenze, nate con l’Unità d’Italia, di promuovere la lingua nazionale e il senso d’appartenenza al nuovo stato, abbiano portato a concepire la scuola come un luogo di formazione del patrimonio di valori elementari comuni propri del nuovo cittadino. A tale modello si sono però intrecciate prospettive ‘ideologiche’. Non senza accenti anticattolici sia da parte della destra sia della sinistra storiche i diversi progetti – che ebbero poi nella celebre riforma Gentile, sostanzialmente confermata nei princìpi dalla Costituzione del 1947, lo sbocco più duraturo ancora oggi dominante – hanno sempre optato per il modello della scuola unica statale, ritenuta la più idonea a garantire libertà e uguaglianza. Pretendere oggi, dopo centosessant’anni dall’Unità d’Italia, di mantenere quest’unico modello misconoscendo ogni iniziativa di famiglie, corpi intermedi, Chiesa e altri soggetti significa lasciare incompiuto il diritto all’educazione come diritto primario, soprattutto delle famiglie. Da questo punto di vista, a mio giudizio, anche la riforma Berlinguer (2000), che ha introdotto la categoria di scuola paritaria, non è adeguata. Per tutto ciò – afferma l’arcivescovo emerito di Milano – senza qui esaminare gli inconvenienti specifici legati all’organizzazione scolastica di fronte alla morsa del coronavirus, credo che la pandemia, quando ne uscriremo, dovrà costringere i cittadini seri, i corpi intermedi e le istituzioni statali a rivedere la concezione della scuola – ormai diventata mito – come scuola unica di stato”.

Insomma, par di capire che non abbia senso discutere, nel 2020, di divisione tra scuola statale e scuola paritaria. “No. Ha senso parlare di un sistema scolastico pubblico e plurale. Di fatto in Italia, al di là delle proporzioni, esistono già almeno due modelli di scuola: quella statale e quella creata da liberi soggetti. Tuttavia, mentre la prima è economicamente in tutto sostenuta dallo stato, alla seconda è negata la necessaria parità economica. La parità giuridica senza la parità economica produce una grave discriminazione. Ogni volta che le paritarie sottolineano il servizio che rendono alla società italiana e fanno presenti le loro esigenze, si alza un coro di indignazione che fa leva su un’interpretazione restrittiva e scorretta, secondo molti studiosi, del famoso passaggio costituzionale ‘senza oneri per lo stato’”. E allora quale dovrebbe essere il vero ruolo dello stato? “La legge Berlinguer, istituendo il sistema scolastico nazionale come composto di scuole statali autonome e di scuole paritarie apre, almeno sulla carta, al riconoscimento del ruolo pubblico della scuola non statale. A ben vedere tuttavia, con l’introduzione del concetto di ‘autonomia’ non avrebbe più alcun senso operare distinzioni legate al tipo di gestione. La natura pubblica di una scuola non dipende dall’essere statale o paritaria, ma dal suo progetto educativo. Nel nostro paese però decentramento e autonomia scolastici sono lontani dall’essere compiuti. Permane una forte riluttanza a riconoscere che la diversità non è solo un rischio, ma anche un’opportunità di arricchimento. Di fronte ai comprensibili ostacoli rispunta la tentazione di affidarsi alle decisioni di un centralismo che liberi dalle responsabilità inevitabilmente legate all’esercizio affascinante della libertà. Tutto questo – conclude Scola – domanda di chiarire bene il compito dello stato compiendo il concetto di autonomia, cioè riconoscendo pienamente, anche a livello economico, ai soggetti della società civile il diritto di diventare attori propositivi di una scuola. Questo però implica che lo stato faccia un passo indietro impegnandosi a garantire, attraverso opportune forme di accreditamento, le condizioni oggettive di rispetto della Costituzione, soprattutto l’equità nel diritto all’accesso e alla riuscita oltre alla qualità delle proposte formulate. Come ho avuto altre volte occasione di dire, lo stato deve passare dalla gestione al puro governo del sistema scolastico”.