“Non vorrei fare invasioni di campo, ma in questi giorni mi sono posto, da cittadino, due domande. La prima è se lo slogan “meno Stato più società”, a cui io tengo molto, sia sempre attuale. La seconda è se l’ipotizzato intervento dello Stato nel mercato, come risposta alla crisi economica in atto, rappresenti un’inversione di rotta e possa bloccare il federalismo, soprattutto quello fiscale”.
Il cardinale Angelo Scola è reduce dal Sinodo dei vescovi: un momento di confronto e di riflessione importante per la Chiesa. Come sua abitudine il Patriarca misura con attenzione le parole. Ma non nasconde preoccupazioni e perplessità. E non rinuncia a dire la sua su molte questioni. A partire dalla crisi economica e dai suoi effetti.

Patriarca, teme che sulla scia delle difficoltà dell’economia, si rafforzi il centralismo statale?

“Credo anche in questa nuova situazione sia necessario approfondire il senso del principio “meno Stato, più società” e rispettare l’obiettivo di un sano federalismo. Non si tratta di negare l’importanza dell’intervento dello Stato nell’attuale crisi finanziaria: esso è semplicemente necessario. Si tratta, però, di riconoscere che tale intervento ha come scopo quello di garantire e fortificare la società civile perché possa più adeguatamente assolvere il proprio compito. Il crinale per distinguere quella che sarebbe un’invadenza dello Stato si gioca su alcuni beni fondamentali e su come questi possano essere creativamente assicurati. Penso all’educazione, per esempio. Io resto del parere che debba essere libera. E libera vuol dire il più possibile gestita dalla società civile. Non voglio liquidare il ruolo dello Stato in questo campo, ma non posso immaginare uno Stato che definisca centralmente programmi, contenuti e metodi di insegnamento per le scuole di Mazara del Vallo e per quelli di Bressanone. Compito dello Stato è governare la scuola, attivando un processo virtuoso che consenta alla società civile di costruire un sistema educativo il più possibile aderente alle diverse situazioni e tradizioni del paese nel quadro dell’unica costituzione. Non penso che nel terzo millennio si possa concepire un’educazione gestita da una centrale statale”.

Che idea si è fatto della crisi che stiamo vivendo?

“Non ho la capacità e gli strumenti per fare previsioni, ma spero che questa crisi possa mettere in moto un ripensamento dei nostri stili di vita. Che non significa rinunciare agli standard che abbiamo raggiunto, ma praticarli in modo sobrio consapevoli che non siamo da soli nel mondo. E la strada che conduce a questo è la solidarietà. So bene che per affrontare la questione della fame nel mondo servono riforme strutturali e di sistema, ma c’è anche un’energia che ciascuno di noi deve mettere in campo. Non credo, per esempio, che sia un gesto sentimentale, quando ci si siede a tavola, dire una preghiera per i bambini che non hanno da mangiare e rinunciare a qualcosa per loro. Perché questo umile esercizio ti costringe ogni giorno a fare i conti con la realtà. Non dovremmo mai dimenticarci che tutto ciò che abbiamo ci è dato in uso: il denaro è uno strumento, non un fine”.

Torniamo al tema dell’educazione. Come interpreta le tensioni che attraversano la scuola italiana in questo momento?

“Non voglio parlare della riforma e delle proteste che la stanno accompagnando. Ma chiunque di noi abbia un po’ di esperienza internazionale sa che la qualità del nostro sistema scolastico ed universitario è, in molti settori, largamente inferiore a quella di altri Paesi. Per questo dobbiamo investire risorse, con intelligenza e con larghezza, a tutti i livelli del processo scolastico. Sapendo che senza educazione non c’è innovazione. Un nesso che richiede cultura. Parlo di cultura come esperienza, come visione della realtà, non come fatto libresco. La scuola e l’università devono essere luoghi in cui si educa innestando il nuovo sull’antico, il nuovo in una tradizione viva. Ciò è possibile solo a due condizioni: educatori che si prendano cura della catena delle generazioni , capaci di comunicare in modo vivo la tradizione, superando una volta per tutte il dualismo tra cultura umanistica e cultura scientifica. Entra in campo di nuovo il protagonismo della società civile”.

Cosa pensa della proposta di creare classi per bambini immigrati?

“Penso che i processi fanno la storia, non il contrario. L’immigrazione è un fenomeno ineludibile, che va accettato con realismo, non per subirlo, ma per orientarlo. E credo che la scuola sia uno dei primi luoghi in cui si può lavorare per orientare questo processo”.

Resta il problema di ragazzi e bambini che arrivano da noi e non conoscono neppure la lingua italiana.

“Infatti il problema è individuare gli strumenti e le forme più efficaci per inserire nel contesto culturale e linguistico del nostro paese questi ragazzi, senza però depotenziare la qualità dell’insegnamento delle nostre scuole. Torna il problema della società civile e di una nuova laicità. Certe formule sono avvertite come pugni nello stomaco perché figlie di una cultura centralistica perché sono pensate come valide universalmente. Invece occorre tracciare degli indirizzi generali a livello nazionale e regionale, per poi consentire alla società civile di attuarli a livello locale, situazione per situazione, in modo creativo. Con realismo e pazienza. Pensi alla storia del maestro unico…”.

Non è d’accordo?

“Un rapporto personalizzato è importantissimo per la crescita. Quelli della mia generazione lo sanno bene. Ma oggi che i bambini sin dall’infanzia devono studiare inglese non si può pretendere che un maestro lo sappia insegnare in maniera adeguata. Talvolta creiamo problemi che se fossimo capaci di maggiore realismo non avrebbero ragione d’essere. E’, in fondo, il tema di una buona convivenza, il nostro bene più importante che però troppo spesso sottostimiamo”.

In che senso?

“Noi dobbiamo sempre considerare il grande valore pratico che è il vivere insieme. Che facciamo parte di un’unica grande famiglia umana. Certo abbiamo spesso visioni molto diverse. Da qui la necessità del racconto e del confronto reciproco. Io non posso non avere interesse a sapere cosa pensa quella realtà, quel corpo intermedio, quel sindacato, quel partito sui grandi temi: la vita, la famiglia, il giusto salario, la sicurezza, l’educazione… Su queste cose io domando un confronto appassionato, con tutti, anche con chi chiede di sbattezzarsi. Dobbiamo capire che la convivenza è un bene, un valore, non un limite. Anche la politica italiana dovrebbe assumere questo valore instancabilmente perseguendo il compromesso nobile”.

La politica italiana mi sembra abbastanza lontana da questo obiettivo…

“Spesso pare anche a me e questo amareggia perché non è rispettoso della vitalità del nostro popolo. Non voglio apparire semplicistico, so che ci sono molte contraddizioni e molti problemi, ma spero che chi ha l’autorità di governo e di opposizione cerchi instancabilmente una strada costruttiva. Penso anche che si debba avere più considerazione fattiva per ciò che la Chiesa compie nel nostro Paese in favore di tutti. Se qualche volta sbagliamo, in maniera rispettosa ce lo facciano sapere. Ma non si può negare almeno l’enorme contributo che ogni giorno migliaia di sacerdoti e laici danno alla vita sociale. Se penso a Venezia, se guardo a realtà come Marghera, mi chiedo cosa sarebbero diventati certi quartieri se dal principio non si fosse radicata in essi una comunità cristiana”.

A proposito del ruolo dei cristiani. Ernesto Galli della Loggia ha rilevato come l’opinione pubblica occidentale sia quasi indifferente nei confronti degli stermini di cui sono vittima cristiani e cattolici in alcune parte del mondo. E’ d’accordo?

“Citerò un fatto. Al termine dell’incontro del comitato internazionale di Oasis ad Amman nel giugno scorso, fu avanzata la proposta di mandare una delegazione a Bagdad come gesto di solidarietà nei confronti dei cristiani perseguitati in Iraq. Al Sinodo ne ho parlato con il Patriarca di Bagdad, il card. Delly, proprio il giorno in cui lui e due suoi confratelli vescovi erano stati minacciati di morte in Iraq da estremisti islamici, che avevano intimato loro di lasciare il patriarcato. La sua risposta è stata molto chiara: “Un gesto simile è del tutto inopportuno – ha osservato il cardinale iracheno -. Imparate piuttosto a pregare più intensamente per noi e soprattutto a parlare di più in Occidente di ciò che accade nei nostri Paesi. Siete assolutamente troppo timidi”. Ed è proprio così. L’Occidente è inerme rispetto alla grande questione della libertà religiosa. E’ un segno della debolezza dell’uomo europeo. Io cito sempre il poeta Eliot che, per noi europei, non risparmiava parole sferzanti e ci definiva “uomini impagliati”. L’Europa non può rinunciare al suo ruolo di co-leadership del mondo, ma è in uno stato di debolezza così profonda che non sembra in grado di sostenere questo ruolo. La grande questione della libertà religiosa lo dimostra”.

Un’ultima domanda. Durante il Sinodo, nella relazione introduttiva, il card. Ouellet ha criticato il modo in cui oggi si fanno le omelie. Cosa succede: i sacerdoti non sanno più predicare?

“Questo è stato uno dei temi più dibattuti nell’aula sinodale. Per due ragioni, credo. Perché noi preti alla fine siamo tutti poveri uomini, inadeguati a comunicare settimanalmente la forza dell’annuncio evangelico. E questo richiamo è stato per tutti un salutare bagno di umiltà. Inoltre in una società segnata da una profonda frattura fra fede e vita, l’omelia assume un peso quasi esorbitante per sanare questo dualismo. Non c’è di fatto momento educativo più importante e più diffuso. Anche il colloquio personale, che pure ha un grande valore, non arriva a questo livello. Nell’omelia la proposta di vita nuova che è lo stesso Gesù viene fatta a tutti senza distinzione alcuna e fa emergere ciò che ciascuno di noi è, nel bene e nel male”.