E’ qui disponibile l’intervista di Aldo Cazzullo al cardinale Scola in occasione della festa di Cristo Redentore, pubblicata dal Corriere della Sera domenica 19 luglio.
Fa sempre una certa impressione entrare nell’arcivescovado di Venezia, percorrere il corridoio con i ritratti dei patriarchi – Sarto, poi Pio X, Roncalli, divenuto Giovanni XIII, Luciani: Giovanni Paolo I -, ed entrare nello studio dove il patriarca Angelo Scola sta rileggendo il discorso che terrà oggi alla festa del Redentore.
Di cosa si occuperà quest’anno?
“Di un tema di attualità antropologica. Perché l’attualità non sono soltanto le cose accadute oggi, o le cose di cui parlano i politici. E sono partito da un’esperienza personale”.
Quale esperienza?
“Ogni settimana visito una parrocchia diversa: i sacerdoti mi accompagnano nelle case di taluni ammalati, soprattutto i più gravi. Quest’anno ho sperimentato, in termini che non avevo mai provato, come la gente porta il dolore fisico, la malattia, anche terminale, e di come la portano i loro parenti. Ecco uno dei fondamentali della nostra vita, di cui si parla troppo poco. Magari se ne fa oggetto di cronaca, soprattutto quando il dolore e la sofferenza si legano al male morale, al delitto, all’incidente grave; ma la tentazione della rimozione, da parte di noi che stiamo bene, è molto forte. Sono partito da lì. Ognuno di noi è colpito da fenomeni clamorosi: il terremoto dell’Abruzzo, la strage di Viareggio, le sofferenze provocate dalla crisi economica, ora la morte del caporalmaggiore Alessandro Di Lisio in Afghanistan. Episodi in cui i mali – in italiano non abbiamo un termine efficace come il francese malheurs – che causano dolore e sofferenza si impongono, in quanto anticipo di morte, come la provocazione più potente alla nostra libertà. Agostino diceva che l’uomo è, in quanto tale, una “magna quaestio”. Io penso che, al cuore di questa “grande domanda”, l’interrogativo sulla sofferenza e sul dolore porti il peso decisivo. E il mio intento è di richiamare tutti noi a guardare in faccia a questo fondamentale della nostra esistenza per imparare, come ho visto che imparano gli ammalati e i loro familiari”.
C’è un caso che l’ha colpita in particolare?
“Sì. Ho visitato una serie di ammalati gravi, tra cui almeno tre ammalati di Sla. E ho visto che cosa significa l’accompagnamento amoroso dei familiari e degli amici e anche della comunità cristiana nei confronti di chi deve portare una prova di questo genere. In particolare mi ha colpito un padre di 48 anni, totalmente immobilizzato, che comunica solo con le palpebre superiori, attorniato dai tre figli che gli indicavano delle lettere su una tavoletta, in modo da aiutarlo a esprimersi. Tre bambini di 8, 10 e 12 anni, tutti gioiosi intorno al suo letto”.
Quel padre è riuscito a dirle qualcosa?
“Sì. Mi ha detto: “Patriarca, guardi che io sono contento di vivere””.
E lei?
“In quelle situazioni lì fai un’esperienza salutare. Ti senti un verme. Non ci sono parole che tengano. Ti misuri con il grado di superficialità in cui normalmente ti mantieni nel tuo vivere. Non penso alla superficialità nel senso estetico della parola; tendenzialmente sono una persona impegnata; ma mi sono reso conto che in me il rischio di non andare alla radice è molto forte. Questo non significa in nessun modo che noi dobbiamo masochisticamente salutare i mali, il dolore, la sofferenza che ne deriva come in sé e per sé un positivo. Dico solo che noi ci troviamo di fronte a questa condizione, con la quale dobbiamo misurarci. Del resto, l’umanità da sempre si è lasciata interrogare e cerca risposte”.
Molti di noi – sentendoci anche peggio – a una condizione del genere preferirebbero la morte.
“Il suo è un interrogativo di cui si è discusso molto nei giorni del caso Englaro, e anche ora che in Parlamento si sta legiferando sul fine vita. Io mi sono sentito venire addosso piuttosto un interrogativo di altra natura. La cosiddetta “morte degna” è una domanda di noi sani. Io ho trovato solo ammalati che in questi anni, anziché chiedere una “morte degna”, chiedevano una “vita degna” fino agli ultimi istanti. L’amore è una grande illusione se non c’è la speranza di andare oltre la morte. Amore è amore solo nella misura in cui è per sempre; e nessuno può promettere niente per sempre, se il per sempre non è fino alla morte e oltre. L’accompagnamento è una cura integrale che ci fa capire che inguaribile non è sinonimo di incurabile. La cura in senso lato non è soltanto terapia; è anche compagnia amorosa e amorevole. Penso che la sfida si giochi qui. La questione del fine vita è una provocazione che gli ammalati gravi, quando sono ancora coscienti – penso agli ammalati terminali -, fanno a noi circa la dignità della nostra vita. Occorre stare attenti a non proiettare sugli ammalati la nostra paura di sani di fronte a quel rumore sordo che non viene mai meno e ci accompagna sempre che è la morte. Gli ammalati danno amore e chiedono amore. Chiedono compagnia. Un anno e mezzo fa ho visto morire un mio amico, Mons. Gianni Danzi, l’arcivescovo di Loreto. Ho celebrato con la lui la santa messa: pareva incosciente, ma al momento dell’elevazione ha tentato disperatamente di alzarsi in piedi. Una sua nipote gli teneva la mano. Due ore dopo è morto. Quel tenergli la mano era il modo per aiutarlo a passare dalla mano dell’uomo alla mano di Dio”.
Sì, ma i malati che sono invece incoscienti?
“Ci provocano ancor di più. Sul cosiddetto stato vegetativo bisogna distinguere molto. Di recente sono stato invitato a un convegno di neuroscienziati, dove la professoressa Roskies, la madre della neuroetica, ha tenuto una relazione: le nuove tecniche mostrano che la coscienza di un malato nel cosiddetto stato vegetativo non è spenta. Quando si parla di leggi sul fine vita, ci sono punti irrinunciabili, già sottolineati dalla Cei. Il favor vitae è un elemento fondamentale nella nostra civiltà. Stiamo vivendo una fase di transizione tumultuosa nelle democrazie euroatlantiche, anche in Italia c’è un cambiamento radicale del costume. Ecco perché, come mi disse alla fine del ’68 il grande gesuita De Certaux, molto prima che Bauman teorizzasse la società liquida: si deve porre qualcosa di solido, di duro. I fondamentali sono qualcosa di solido, di duro: amare, soffrire, lavorare, stare in rapporto, costruire una vita buona. Tutti lavoriamo a segni di speranza efficaci. Il favor vitae è un fondamentale decisivo per la società”.
La nuova legge secondo lei dovrebbe vietare di sospendere l’idratazione e l’alimentazione, com’è accaduto a Eluana Englaro?
“Senza dubbio. Questi malati non hanno bisogno di cure tecnologicamente ipersofisticate. Hanno bisogno di accompagnamento paziente: acqua, cibo, mobilizzazione, igiene, e un ambiente disposto a sostenere la loro fragilità. Se neghiamo loro questo, cadiamo in una logica che finisce per trascinare con sé lo spegnimento dei fattori che rendono la vita godibile per tutti. E’ l'”odore di morte” di cui scrive san Paolo ai Corinti, che finisce per ammorbare tutto ciò che di bello abbiamo: lo sguardo sulla natura, il rapporto tra uomo e donna, la bellezza di mettere al mondo i figli e di educarli, il paragonarsi con il diverso, il godere dei risultati della scienza. Dobbiamo stare attenti a non cadere in una tentazione prometeica. Non intendo sottovalutare la straordinarietà e la bontà delle scoperte scientifiche. Intendo solo dire che l’uomo non può essere ridotto al suo proprio esperimento. Non è l’esperimento di se stesso; prius, prima, è persona; e l’amore è la forma più potente di autotrascendimento, cioé della capacità che ognuno ha di uscire da sé. Le scienze e le tecniche ragionano sempre sull'”ex post”, su quel che viene dopo: prima mettono lì l’esperimento, poi ne cavano le conseguenze. Ma io ho dentro una forza vitale originaria, la mia libertà, la capacità di proiettarmi fuori di me, sull’altro”. Questo fattore viene prima di ogni analisi scientifica.
Sul caso Englaro, la Chiesa ha trovato consensi ma è stata anche accusata di durezza, e pure di spietatezza.
“Qui c’è un fraintendimento di fondo. Come ci ha mostrato il Crocifisso è proprio nel dolore che si purifica la nostra capacità di amore. L’amore non è riducibile all’affezione. Non si limita alla nostra dimensione soggettiva, non è solo ciò che succede nel soggetto che ama. L’amore ha un valore oggettivo, che consente di misurare la realtà com’essa è. C’è un bellissimo verso di un sonetto di Shakespeare: “Amore non è amore se viene meno quando l’altro si allontana”. La fedeltà e la fecondità, costitutive dell’amore, non sono proprietà che si aggiungono a posteriori. Noi trattiamo l’amore come pura passione, come un moto puramente soggettivo. Ma l’amore, mettendo in campo l’altro, mette in campo l’oggetto di una relazione privilegiata, della condivisione del destino dell’altro, di cui nessuno può disporre. Neanche un padre”.
Il padre di Eluana ora è impegnato in politica.
“Noi rispettiamo le scelte di tutti, e ci guardiamo dal giudicare la singola persona. Però i dati che ci siamo richiamati mi sembrano, nella loro semplicità, limpidi”.
Quindi la legge sul fine vita va fatta presto?
“Come Gesù ci ha insegnato, la legge da sola non basta mai. Noi vescovi italiani in principio non avevamo nessuna propensione per la legge; ma siccome la magistratura continua a intervenire su casi singoli, la scelta ora opportuna è fare una legge giusta e affrontare altri problemi, come le cure palliative, la terapia del dolore”.
La Chiesa sollecita un intervento finanziario del governo?
“Certo. Si potrà dire di tutto della posizione cristiana tranne che imputarle il benché minimo disimpegno nell’alleviare il dolore e la sofferenza con tutti i mezzi che la scienza moderna ci mette a disposizione”.
Don Verzé, fondatore del San Raffaele, va oltre, e sostiene che la scienza ci libererà dal dolore, dalla sofferenza, financo dalla morte.
“La medicina moderna sta mettendo in campo strumenti e tecniche dalle possibilità straordinarie, che vanno valorizzate fino in fondo. Questo tentativo fu fatto prima con i mezzi della riflessione: penso a Marx e alla sua idea di riconciliare l’uomo con la natura, e a Nieztsche, per cui il dolore esalta la “natura bellicosa dell’uomo” e prepara il superuomo. Tentativi che alla fine risultarono ideologici: come minimo, dovevano lastricare il progresso futuro di una sterminata quantità di sofferenza per i singoli. La tecnoscienza trasferisce sul piano pratico questo tentativo rivolgendolo a tutte le masse. La Chiesa non ha nulla di antiscientifico, pratica il massimo del realismo. Se tra mezzo secolo vivremo tutti fino a 120 anni, che problema c’è? Ci porremo la questione di come viverli bene. Il problema, secondo me, è che indipendentemente da cosa ci riserverà il futuro, da quanti anni vivremo o non vivremo, non si può identificare la sete di infinito dell’io con il prolungamento indefinito di questa vita. La cartina di tornasole che ci fa riflettere è l’amore. Ripeto: non c’è amore senza promessa, non c’è promessa senza “per sempre”, e non c’è “per sempre” se non sino alla fine, sino e oltre la morte. In tre figlioletti pieni di gioia attorno al letto del loro papà malato di Sla, in una casa piena di letizia, nell’innocenza di quei bambini ho visto cos’è l’amore”.