Viene qui di seguito pubblicata un’intervista al Patriarca condotta in occasione della sua presentazione del libro “Padre” di Monsignor Camisasca all’Istituto Agostinianum di Roma e apparsa su “Famiglia Cristiana” del 4 aprile:

Monsignor Scola, cosa la colpisce di questo breve ma incisivo programma di riforma della vita sacerdotale?

“Ciò che colpisce e convince di più, man mano che ci si inoltra nella lettura di queste pagine, è la loro natura di testimonianza personale intesa come metodo di conoscenza e di comunicazione. Privilegiando, per parlare del sacerdozio, la strada della testimonianza, don Massimo ha scelto la via più persuasiva, accessibile a tutti, e ha saputo sgombrare fin dall’inizio il terreno da sterili polemiche. Il dono-mistero, per usare un’efficace espressione di Giovanni Paolo II, della vocazione sacerdotale brilla nelle sue pagine come il fattore unificante di una maturità umana immancabilmente feconda. Del resto, se ci pensiamo, tutti noi abbiamo conosciuto il sacerdozio attraverso la strada maestra dei testimoni”.

Nel suo libro Camisasca parla del silenzio, della preghiera e dello studio come dell’Abc del prete, come l’ancora di salvezza della vita sacerdotale. Perchè questi elementi sono così importanti?

“Il silenzio, la preghiera e lo studio affermano la permanente precedenza, nella nostra vita, del mistero di Dio. Non sono altro che lo spazio dell’ascolto di Colui che ci ama per primo: non solo che ci ha amato per primo, ma che ci ama ora e sempre per primo! Un prete che non sia sempre più consapevole e grato di questo, finirà per smarrire la propria identità.

Come può un sacerdote conciliare il tempo per Dio e il tempo per stare in mezzo agli uomini, nelle strade, negli ospedali, nella scuola e nelle carceri? Di quante ore dovrebbe essere fatta la vita di un prete, vista anche la scarsità di vocazioni?

“Siamo sicuri che si tratti di una questione davvero decisiva? Che sia soprattutto un problema di “organizzazione e distribuzione” del tempo per ottenere il “massimo di efficienza”? I problemi organizzativi ci sono sempre e si possono risolvere, non senza contraddizioni, stabilendo le priorità. La vera questione, a mio giudizio, è la “qualità del tempo”. Mi spiego: il tempo del prete è come quello di ogni cristiano – è il tempo che il Signore gli concede per donare la vita. Non c’è un tempo per me e un tempo per gli altri. Se non la doni in ogni istante, la vita te la ruba inesorabilmente proprio il tempo”.

Un ostacolo che oggi sembra gravoso per un giovane che pensi al sacerdozio è il celibato. Forse il problema è mal posto dal pensare comune. Ma che valore ha la verginità e perchè la Chiesa cattolica di rito latino la ripropone per i suoi sacerdoti?

“A ben vedere non è la verginità a essere oggi oggetto di incomprensione: è l’esperienza dell’amore come tale. Si riflette poco sul fatto che l’uomo di oggi fatica non solo sul celibato, ma anche sul matrimonio indissolubile. Come mai? Forse perchè non riesce a concepire la possibilità di un amore gratuito, che sia per sempre e fecondo. Il dono della vocazione verginale è quello di una sequela letterale di Gesù. La verginità dice “possesso nel distacco”, per usare la geniale formula di don Giussani. E per questo è pienezza di amore, perchè è il modo con cui Dio ci ama, che sarà di tutti in Paradiso”.

Nell’ultimo capitolo sulla missione Camisasca scrive: “Non c’è vita più affascinante di quella del sacerdote”: da chi si impara questo fascino?

“Il fascino della vita sacerdotale non si impara: si vede, si impone. Torniamo così all’inizio della nostra conversazione. Tutti noi custodiamo indelebilmente nella mente e nel cuore i volti di persone, preti e laici, che sono state presenze persuasive del disegno di Dio sulla nostra vita. Il loro fascino ci ha, per così dire, contagiato”.