Famiglia, socità italiana e progresso sono i prinicipali argomenti affrontati nell’intervista che Aldo Cazzullo ha realizzato al Patriarca di Venezia in occasione della festa del Santissimo Redentore 2008.
Angelo Scola, patriarca di Venezia, uomo tra i più vicini a Wojtyla e Ratzinger, è al lavoro nella sua stanza in Patriarcato, tra le targhe che ricordano i suoi predecessori Roncalli e Luciani. Oggi, nel discorso del Redentore, il patriarca affronterà il tema della famiglia, anche sotto l’aspetto economico e politico. “Una società che si va facendo sempre più liquida ha bisogno di qualcosa di solido. La famiglia in Italia è un fattore decisivo di solidità. Se poi viene riconosciuta come un capitale sociale, rappresenta un elemento importante su cui far leva per la vita buona; in senso morale ma anche economico. Per questo la politica e il governo devono fare di più, molto di più”.
Patriarca, la famiglia sembra essere anche in Italia vittima della secolarizzazione.
“La secolarizzazione non è la stessa in tutti i paesi. In Italia non è come in Germania, in Francia o in Spagna. Uno dei fattori che fa la differenza è proprio la famiglia. Lo dimostrano i dati ISTAT e l’ultimo rapporto del Censis: l’indice di divorzio in Italia è tra i più bassi d’Europa; le convivenze quasi sempre sfociano nel matrimonio; quando indica le aspettative primarie della vita, la donna, che oggi lavora di più, mette al centro il matrimonio e la maternità. Più della metà delle famiglie ospita in casa un genitore anziano, nel 90% di esse ci si trova a mangiare insieme almeno una volta la settimana. La cura che i nonni hanno dei nipoti integra un welfare che è ancora assai discutibile. Certe cose – penso alla sofferenza e alla morte – si imparano più dai nonni che dai genitori. E l’indice del dono, della gratuità, è in crescita non solo nel passaggio dai genitori ai figli, ma anche dai figli ai genitori”.
I dati che lei cita sono spesso letti come segno di arretratezza, a cominciare dai giovani che restano fino all’età adulta a casa di papà.
“Credo che dobbiamo superare un concetto equivoco di progresso, per cui tutto l’inedito – e in questo clima di fluidità spesso inedito equivale a capriccioso, a non verificato – è progresso, e tutto ciò che rinnova la tradizione è conservazione. L’Italia per fortuna ha un popolo ancora sano, che si ribella a questo dualismo di stampo manicheo. Il vero progresso sa innestare il nuovo sull’antico. Promuovere la famiglia è un modo efficace per affrontare le questioni antropologiche scottanti. Essa è un fattore di progresso, ed è anche un attore economico molto importante, pur se spesso dimenticato. In famiglia si decide dei consumi, del reddito e del risparmio; soprattutto, la famiglia ha un grande valore economico nella formazione del capitale umano e sociale. Lo riconosce persino la Banca Mondiale, che pure è ossessionata dal family planning, dai programmi contraccettivi. In futuro questo suo ruolo sarà ancora più importante, perché un paese come il nostro non può reggere senza un’innovazione fondata su educazione, conoscenza, cultura. Questi sono dati oggettivi che, a mio parere, rendono politicamente intelligente intraprendere azioni a sostegno della famiglia. Penso soprattutto a due elementi: l’equità fiscale ed una effettiva conciliazione tra famiglia e lavoro”.
La sua impressione è che in Italia la politica, al di là delle enunciazioni di principio, trascuri la famiglia?
“Sì, in Italia la politica non ha ancora fatto questo passo, di fatto rimanendo arretrata rispetto ad altri paesi. Il che è paradossale, perché la forza della famiglia è molto più rilevante da noi che altrove. Un progetto globale di sviluppo del paese dovrebbe mettere subito in primo piano un sistema di politiche familiari avveduto. Non ridotto alla mera dimensione para-assistenziale, ma capace di valorizzare la soggettività affettiva, economica, politica ed etica della famiglia”.
In che senso “etica”?
“Esiste un universale sociale e culturale che è il “proprium” della famiglia in ogni civiltà: l’affermazione non è del magistero della Chiesa, ma di uno studioso del calibro di Lévy-Strauss. Molti storcono il naso, ma parlare della famiglia come società naturale non è affatto sbagliato; anche se all’aggettivo “naturale” va data tutta la sua dimensione dinamica, non fredda; sempre la natura interagisce con la cultura e viceversa”.
Al punto che oggi anche coppie omosessuali chiedono di essere riconosciute in qualche forma come famiglia.
“Ma qui occorre essere chiari. Il “proprium” della famiglia è tenere in unità e sviluppare armonicamente le due differenze costitutive dell’umano: la differenza tra i sessi e quella tra le generazioni. La famiglia è istituita per dare forma sociale alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita.
L’unità di queste due differenze infatti è la condizione primaria che permette non solo la nascita, ma anche l’esperienza morale elementare propria di ogni uomo”.
In cosa consiste?
“Poggia su tre pilastri. Incomincia dal riconoscimento che è il frutto dell’amore dei genitori. Il sorriso della madre al bambino gli dice: è bene che tu sia. Ciò fa scattare in lui una capacità di guardare alla vita come a una promessa di bene e di felicità; e proprio in forza del riconoscimento e della promessa il bambino impara che la vita è un compito. Noi oggi mettiamo tantissima attenzione sugli affetti sganciati dalla dimensione di compito, perché degradiamo gli affetti da relazioni a pure emozioni. I fenomeni che vanno sotto l’espressione “emergenza educativa”, usata da Benedetto XVI, derivano anche da questo dato”.
Di solito si parla piuttosto di “familismo amorale”.
“Non nego elementi di male e di violenza all’interno della famiglia. Essendo il luogo in cui uno è spudoratamente se stesso, è il luogo in cui viene fuori anche tutto il male che è in noi. Però senza questa prima comunità vedo molto difficile un’assunzione compiuta del senso della nascita e dell’armonica crescita della personalità. Penso al bellissimo verso di Hölderlin: “Il più lo può la nascita e il raggio di luce che al neonato viene incontro…”. Il modo con cui il mio papà e la mia mamma hanno parlato di me, mi hanno aspettato, ha inciso sulla mia personalità prima ancora che io nascessi”.
Che cosa dovrebbe fare il governo? Lei parla di equità fiscale. In campagna elettorale si è proposto il quoziente familiare. Ma non è stato introdotto né annunciato.
“Se si vede l’importanza educativa, sociale ed economica della famiglia, allora si capisce perché è conveniente fare una politica fiscale che la valorizzi come risorsa. Questo comporta anche un diverso modo di concepire l’economia; il fatto che negli ultimi anni si parli di più di sussidiarietà e solidarietà, e di capitale umano e sociale, è un segno positivo. Da una parte, il mondo cattolico ha trascurato troppo a lungo l’importanza del mercato. Dall’altra, non si può ridurre tutto alla sfera del mercato ma, al contrario, il mercato va inserito in una visione umana e culturale più intera e potente. Vengo dal Kenya e ho visto la tragedia della miseria e della fame nel Sud del Sahara”.
Tremonti parla di crisi del mercatismo.
“Al di là del neologismo, certo il mercato è un fatto culturale, non è un fatto naturale che procede per leggi rigide ed immodificabili. E’ qualcosa su cui possiamo incidere. L’economia ha le sue leggi, ma la scoperta che l’economia sta facendo della famiglia mi sembra significativa. La critica al mercatismo è benvenuta. Purché ne derivi una politica conseguente”.
C’è un ritardo di cultura e anche di norme?
“Certamente. Si tratta di coniugare un progetto a lungo termine con un progetto a medio termine e con uno di intervento immediato. Questo non è più procrastinabile come molte forze sociali hanno chiesto. A me sembra che, per quanto riguarda l’equità fiscale, si debba lavorare con questa tempistica ma cominciando subito. Non mi avventuro nella traduzione tecnica di questa indicazione, mi limito a costatare un dato di fatto: da noi la famiglia più è famiglia più è penalizzata. Prevale una concezione della convivenza sociale in cui i due unici attori sono il singolo individuo, considerato come separato e come portatore di diritti e non di altrettanti doveri, e l’istituzione statuale. Come se non esistessero i corpi intermedi. Come se in mezzo non ci fosse la vita della società”.
C’è qualcosa da cambiare anche in tema di divorzio?
“Innanzitutto, dovremmo avere maggior attenzione per i più deboli. I bambini avvertono moltissimo la perdita del riferimento alla coppia d’origine. Hanno un bisogno assoluto dell’unità dei differenti, del papà e della mamma. Per questo quando si fanno interventi politici o in campo economico, far prevalere la famiglia comporta il tener ferma la famiglia d’origine, anche in caso di divorzio o separazione. Questo per me, uomo di Chiesa, implica dire con chiarezza che il divorzio è e resta una ferita grave per la nostra società”.
Sta dicendo che valeva la pena a suo tempo combattere la battaglia per l’abolizione del divorzio, e che questa è una battaglia che non finisce?
“Sulla questione del matrimonio, della famiglia e della vita non si può stare fermi”.
Va cambiata la legge sull’aborto?
“Anzitutto la legge deve essere applicata in tutta la sua ampiezza. E su certi punti deve essere ripensata; ovviamente in maniera rispettosa della natura procedurale della nostra democrazia. Per questo una società plurale veramente laica esige che ogni soggetto non solo abbia il diritto ma senta anche il dovere di esprimere sino in fondo la propria visione delle cose.
Campagne culturali come quelle di Giuliano Ferrara sono utili o controproducenti?
“Io reputo che su questioni come l’aborto, come la vita – penso al caso Englaro – mettersi in gioco pagando di persona sia di decisiva importanza. Al di là delle scelte tecnico-politiche, Ferrara fa opera di cultura e di civiltà. Nessuno può permettersi il lusso di non lavorare con serietà su questi temi. È bene che siano sollevati con forza”.
La Chiesa è considerata in particolare sintonia con il centrodestra, guidato da leader divorziati. Sono difensori credibili della famiglia?
“In questo campo il nemico numero uno si chiama moralismo, cioè la pretesa di giudicare la verità di una proposta a partire dalla debolezza e dalla fragilità di chi la formula impancandosi a giudici. Noi preti questo lo sappiamo fin troppo bene, perché siamo uomini fragili come tutti gli altri e siamo sempre sotto tiro. Ma avere misericordia verso la fragilità non significa creare una separazione radicale tra vizi privati e pubbliche virtù. Io non credo nella doppia morale. Non penso che la moralità personale sia inincidente sull’azione sociopolitica di un leader. Da questo punto di vista, rimpiango figure di politici e statisti – che tuttavia non mancano del tutto neanche oggi nel nostro paese – che hanno sempre cercato di coniugare dimensione personale e dimensione sociale della morale. Comunque alla fine chi ha una responsabilità legislativa e di governo produce atti che hanno sempre un valore pedagogico oggettivo. Non è indifferente legiferare in un modo piuttosto che nell’altro, difendere la famiglia o non farlo”.
Qual è la reale dimensione della questione pedofilia tra i sacerdoti?
“Ci sono esagerazioni e manipolazioni ideologiche, anche per una certa responsabilità dei media. Detto questo, credo che quanto il Santo Padre, con coraggio estremo, ha fatto negli Stati Uniti vada considerato con attenzione. La ferita inferta ai minori in questo campo è gravissima, e la scelta di quella che è stata chiamata la tolleranza zero da parte della Chiesa è una scelta drastica ma giusta”.
Non le manca mai il fatto di non essersi formato una famiglia?
“Ma la verginità, nel mio caso il celibato, è un altro modo di realizzare sino in fondo la propria affettività, compresa la propria sessualità. Nella misura in cui uno è veramente chiamato e fa l’esperienza di questa forma progressiva di compimento del suo io, non vive con senso di privazione il fatto di non avere una sposa o dei figli. Io non la sento come una mancanza; eppure mi sembra di essere un uomo affettivamente equilibrato”.
Aldo Cazzullo