NATALE 2010 – Viene proposta qui di seguito un’intervista al Patriarca pubblicata da Gente Veneta il 24 Dicembre:

Cardinale 3

Gesù Bambino nasce anche sulle torri di Vinyls. O forse nasce soprattutto lì, a Porto Marghera, dove da giorni alcuni operai stanno “arroccati” a 150 metri di altezza, nonostante il gelo, per difendere il proprio lavoro e ottenere da imprenditori e politici parole chiare sul proprio futuro lavorativo.
Ne è convinto il Patriarca che, alla vigilia del santo Natale, invita a cogliere la ricchezza, alla portata di chiunque, che viene dal rendersi familiare a tutti noi di Dio nella grotta di Betlemme.

Cosa c’entra il Bambino che nasce a Betlemme con la vita degli operai della Vinyls che dicono: «Per noi il Natale non esiste se non esiste un futuro di lavoro»?

Mi pare che in questa loro affermazione sia implicitamente contenuto il senso del Natale. Dio si fa bambino per darci un futuro, perché la nostra vita possa guardare davanti a sé piena di una speranza che Benedetto XVI ha definito affidabile. È evidente che il lavoro, essendo una delle dimensioni essenziali e decisive della vita dell’uomo, è condizione fondamentale perché la dignità di ciascuno sia rispettata. Quindi il Natale, che nell’incarnazione del Figlio ci dice che Dio si fa a noi familiare, ci sostiene nella dignità dei nostri affetti, del nostro lavoro e del nostro riposo. Per questa ragione gli operai della Vinyls esprimono un desiderio profondo di verità della loro persona. Per loro, senza una prospettiva chiara di lavoro,  la grande promessa del Natale non viene meno ma è come se perdesse drammaticamente di concretezza.

Il Natale è ponte fra Cielo e terra, quindi un’alleanza, una garanzia di pace. Cos’ha proficuamente da dire il Natale alla politica e ai politici italiani?

La modalità con cui il Figlio di Dio viene a salvarci non è un meccanismo esteriore alla nostra persona, non è una magia: è qualcosa che mette in moto la nostra libertà di uomini e quindi la nostra responsabilità. Pertanto la memoria del Figlio di Dio che viene sulla Terra coincide con uno scatto di libertà e di responsabilità da parte di tutti noi, ed in particolare di chi ha il compito del buon governo.

Cosa intende per scatto di libertà e di responsabilità?

Intendo anzitutto sottolineare l’urgenza di cambiare e, se possibile, di farlo quanto prima. E questo non riguarda solo i politici, ma ciascuno di noi. Bisogna infatti che tutti ci decidiamo a nuovi stili di rapporto, a relazioni buone, dalle quali soltanto possono nascere pratiche virtuose. È fuor di dubbio che la grave crisi che stiamo attraversando – e che non è solo economica – mette in evidenza la necessità di un risveglio, di un recupero di densità umana, che ha nella relazione buona la sua formula più espressiva. Partendo dalle relazioni elementari, bisogna che i papà e le mamme offrano ai figli un senso chiaro della vita, una direzione di cammino. La scuola deve fare altrettanto. Nel mondo del lavoro e dell’economia il primato dell’uomo e della sua dignità sia riaffermato con vigore e con equilibrio. Serve oggi un cambiamento per cui l’altro non sia vissuto come uno da cui difendersi e isolarsi o come un potenziale nemico; ma, al contrario, come una grande “chance”, una grande occasione di maturazione e crescita. Tutto ciò implica un soprassalto di densità umana nel modo di vivere le relazioni affettive, nel modo di concepire il lavoro in vista del benessere di tutti, nel modo di praticare la giustizia, o nell’avere il coraggio di partire dagli ultimi e dal primato della condivisione del bisogno, specie quando questo si fa più estremo. Ognuno di noi è chiamato, a partire dalla propria vocazione, a prendere sul serio questa costruzione di micro-socialità come condizione per edificare una macro-socialità. Nel caso dei politici bisognerà che essi lo facciano partendo dalla loro specifica vocazione. La quale consiste nel creare le condizioni, obiettivamente sancite attraverso la legge, perché una vita buona sia possibile nel nostro Paese.

Vita buona è anche tutela e sostegno ai più deboli – disabili, minori in difficoltà, anziani malati…. – in relazione ai quali si parla di tagli, in Veneto e a Venezia, dei servizi di assistenza. Sia pure in tempi difficili per i bilanci pubblici, è una prospettiva accettabile?

No. Credo si debba tentare ogni azione possibile perché le ipotizzate riduzioni non si traducano in realtà. Condividere i bisogni, le fatiche e le solitudini è realmente uno dei messaggi centrali del Natale. E questo deve spingerci tutti – in particolare le pubbliche istituzioni – ad un sovrappiù di impegno e di creatività per non lasciare solo chi è più debole.

Il soprassalto di densità umana che lei auspica si traduce in un augurio, nella logica del Natale, anche per un clima politico diverso?

In Italia abbiamo bisogno di un clima che – non acriticamente, non risparmiando un giudizio chiaro ed oggettivo su ciò che va e che non va, e non rinunciando ad una sana dialogicità e talora anche ad una dialettica tra opinioni diverse – ponga innanzi a tutto un pre-giudizio positivo: quello per cui l’altro da me è una risorsa. Solo così si potranno affrontare le contraddizioni e le diversità di punti di vista in modo costruttivo. Credo che la nostra società e soprattutto certi mondi – la politica, l’economia, i mass media… – abbiano bisogno di questo giudizio previo positivo. 

Natale esprime anche la semplicità: come la si può concretare in questo tempo di crisi e di complessità crescente della nostra società?

Il Natale può essere vissuto come una pausa, una sorta di parentesi, per uomini sopraffatti da un ritmo di vita troppo frenetico e per giunta provati, toccati nei propri beni materiali da questa situazione di crisi. Oppure può essere vissuto per quello che il Natale è, cioè il fare spazio a Dio nella nostra vita, riconoscendo il dono straordinario che Dio si è reso a noi familiare in Gesù. In fondo l’invito del santo Natale è quello di smettere di vivere come se Dio non ci fosse, come se Dio non entrasse nella nostra esistenza. In questo tempo di pesante prova la grande risorsa è che l’uomo lasci emergere la domanda sulla propria identità: “chi sono io?” Una domanda che in questo millennio si pone nella forma “che tipo di uomo voglio essere io?”.

E alla quale si risponde?

Si risponde osservando che Gesù ci ha mostrato nella sua vita, nelle relazioni buone e nelle pratiche virtuose instaurate con i suoi amici, qual è il tipo di uomo che lui ha proposto. Un uomo capace di dono di sé, di amore gratuito, che ama per primo senza pretendere nulla in cambio, che si commuove profondamente davanti al bisogno altrui – pensiamo alle guarigioni da lui operate –, di un uomo che alla fine dà la sua vita per noi. Sì, perché il Natale va vissuto in connessione con la Pasqua: l’esperienza di comunione di Gesù con il Padre è qualcosa di più forte perfino della morte. Perciò potremmo dire che Gesù è la silhouette dell’uomo che vogliamo essere. Dobbiamo semmai stare attenti a non lasciarci ingannare dalla comoda obiezione: “Sì, ma Gesù era Gesù e noi siamo dei poveretti, incapaci di avvicinarci a lui”. Ma dice Agostino a proposito del Natale: «Perché la debolezza divenisse forte la fortezza si è fatta debole». È vero, noi inciamperemo mille volte, ma se ci appoggeremo al dono della sua compagnia, come vedo in molti nel corso della Visita pastorale, il cammino di una vita si disegnerà come positivo. Laddove ho visto in opera relazioni buone e pratiche virtuose – e ce ne sono molte nel nostro Patriarcato – questo stile di vita si mostra praticabile anche oggi. Con realismo, certo, per cui va accettata una buona dose di sacrificio e di fatica, come in ogni esperienza umana. Del resto lo diceva già il poeta Paul Claudel, che la vita dell’uomo in parti uguali di gioie e di dolori è fatta.

Ma che cosa ci frena di più rispetto all’obiettivo della semplicità natalizia: la paura della fatica e del sacrificio oppure il brillare delle vetrine e delle scansie dei supermarket?

Pur senza fare retorica anticonsumista, è indubbio che la prova che a livello mondiale stiamo attraversando ci induce ad un recupero di sobrietà nello stile di vita. Il che si traduce in maggiore distacco dai beni. Distacco come condizione per un possesso autentico negli affetti, come gusto della fecondità del proprio lavoro, come spazio per nutrire le nostre relazioni anche utilizzando tutti i nuovi media, ma solo come strumento e non come obiettivo e fine. Quindi, certamente, è come se ci fosse domandato un cambiamento radicale di stile di vita. Voglio però anche dire che non mancano segni di speranza in tal senso. Ci sono isole di pratiche virtuose in cui questi nuovi stili di vita si stanno esplicitando; e questo è bene purché non si riducano soltanto a strategie, che pure sono importanti (per esempio per ridurre i consumi), ma partano dal profondo dell’io. Il grande cambiamento è il cambiamento del cuore. Lo si vede in Maria e in Giuseppe. Mi colpisce molto, in questo Natale, il senso della vita e dell’amore che ha San Giuseppe. In lui si vede che cos’è un uomo che vive di Dio, un uomo che aspetta Dio. Messo di fronte al fatto misterioso del concepimento di un figlio da parte di colei che sarà la sua sposa, tocca con mano, si tocca con mano che la gerarchia dell’esistenza quotidiana di Giuseppe è a tal punto dominata dall’attesa del Messia da fargli accettare e vivere quella prova nella fiducia e nella speranza. Quell’evento misterioso non diventa, per Giuseppe, un’obiezione ad amare, ma piuttosto un’occasione per amare. Lì, nella Sacra Famiglia, troviamo quelle relazioni buone, quello stile di vita sobrio che oggi, aldilà delle mutate condizioni di civiltà e di vita, tuttavia si sta imponendo ai nostri occhi come necessario.

(Giorgio Malavasi)