L’attualità del nostro Paese continuamente ripone al centro le problematiche brucianti connesse a quel processo storico di mescolamento inedito tra popoli e culture differenti che il card. Scola definisce con l’espressione di “meticciato di civiltà e culture”.

In occasione della Giornata Mondiale delle Migrazioni che si celebra domenica 17 gennaio si ripropone qui un’intervista rilasciata dal Patriarca all’Agenzia Fides e, a seguire, un breve video sullo stesso tema tratto dall’intervista che Richard Owen, inviato del Times, ha realizzato al card. Scola.

Quando per la prima volta usò questa espressione “meticciato di civiltà e culture”?

Alcuni anni fa, durante un’intervista sui temi dell’immigrazione, rispondendo a una domanda mi venne in mente questa espressione decisamente forte del “meticciato di civiltà e culture”. Avevo presente l’esperienza di un viaggio in Messico, dove si percepisce chiaramente come questo Paese sia nato dalla fusione di etnie diverse, seppure attraverso non poca violenza, e come lo stesso Dna del popolo messicano sia, appunto, meticcio. La stessa Madonna di Gudalupe ne è un esempio chiaro. Parlai dunque di meticciato di culture, ma in maniera intuitiva: non avevo letto gli studi e gli articoli sul tema, ma mi venne in mente a partire dallo sguardo sulla realtà e sulla sollecitazione di un intervistatore.

E più tardi questa idea e intuizione è divenuta una delle parole chiave per la fondazione del Centro Oasis…

Oasis nacque come il tentativo di una risposta concreta a una domanda di aiuto che fu posta sul tavolo da alcuni vescovi dei Paesi del Medio Oriente durante un incontro a Damasco nel 2000. A noi europei “impagliati” questi amici vescovi chiedevano degli strumenti che potessero accompagnare la vita delle loro comunità cristiane, minoranze radicate e immerse in Paesi a maggioranza musulmana, bisognose di strumenti nuovi. Così, grazie a una rete internazionale di rapporti, nacque il Centro Oasis, oggi divenuto una Fondazione, con un duplice intento originario: da un lato offrire ai cristiani dei Paesi a maggioranza musulmana i testi del Magistero della Chiesa e dei classici del pensiero cristiano nella loro lingua (l’arabo spesso), e dall’altro favorire in Occidente la conoscenza degli Islam attraverso la testimonianza degli stessi cristiani d’Oriente.

Quindi andando al cuore del meticciato, come definire oggi il suo contenuto?

In primo luogo va evidenziato che non si tratta di una categoria prescrittiva, ma piuttosto descrittiva-esplicativa. Il meticciato, cioè, descrive-spiega il processo storico in atto oggi. Se inteso adeguatamente, il meticciato ci aiuta infatti a capire le dimensioni di tale processo, a riconoscerne gli attori che sono in gioco, cioè persone in carne ed ossa e non delle idee; ci accompagna a individuarne i rischi connessi, come la violenza, ma anche le prospettive di speranza. Il “meticciato di civiltà” dunque non definisce come dovrebbe essere la nostra società, né si limita a descriverla: di per sé in quanto processo storico ti coinvolge e, come categoria esplicativa, apre degli ambiti di esperienza e di riflessione.

Rispetto all’uso “intuitivo” dei primi anni, oggi come si è arricchita questa espressione anche grazie alla ricerca compiuta da Oasis?

L’aspetto sorprendente emerso dallo studio recente di Paolo Gomarasca, che ha appena pubblicato per la collana di Oasis un libro sul meticciato (“Meticciato: convivenza o confusione?”) è che – dopo aver esaminato criticamente il nucleo della visione multiculturalista o del pensiero meticcio – conduce a cogliere l’importanza decisiva della categoria della “filiazione”. Questo sviluppo è davvero impressionante: parlare di meticciato, cioè, significa riconoscere l’importanza del posto del terzo, del figlio; significa riconoscere il peso dell’altro come decisivo per la costruzione del tu. Come diceva bene Levinas, il rapporto con l’altro ti può anche distruggere, se viene meno la giustizia garantita dal terzo. Allora certo si rischia: occorre esporsi e testimoniare come si vive il grande valore pratico dell’essere insieme. Ma compiere questo passo, cioè ammettere l’inevitabilità dell’auto-esposizione come testimonianza, vuol dire entrare nel campo di quel nuovo processo che io chiamo “nuova laicità”: un processo di racconto reciproco in vista del riconoscimento di cui abbiamo bisogno nei nostri dibattiti italiani. La concezione rigida, essenzialistica ed aprioristica dell’identità deve lasciare il posto alla concezione dell’identità come un fattore dinamico.Paradossalmente questo è necessario per affrontare il fenomeno del meticciato, per costruire una nuova laicità e quindi una democrazia sostanziale.Mi ha colpito rilevare come uno studio sul meticciato conduca di fatto al cuore del problema della convivenza democratica nella nostra realtà europea: l’unico modo per condividere i beni spirituali e materiali è raccontarci come li viviamo. Ma per raccontarci davvero, dobbiamo lasciare emerge il logos che sta dentro questa esperienza.

Intervista a cura di Michele Trabucco.

httpvh://www.youtube.com/watch?v=tTisEsxx5O0