CRISTIANI IN EUROPA – Viene pubblicato qui di seguito il testo integrale dell’intervento del Patriarca alla Conferenza internazionale sul tema “Il contributo dei cristiani nel processo di integrazione europea” che si è tenuta il 10 e 11 settembre a Cracovia. (per ulteriori info sulla conferenza si rimanda al post precedente).
1. Identità europea e integrazione
Per tentare in poco tempo una risposta al tema propostomi – il contributo dei cristiani al processo di integrazione europea – evitando astrazione e retorica bisogna guardare in faccia ai repentini e spesso violenti cambiamenti che si sono mostrati in tutta la loro ampiezza negli appena trascorsi anni zero del XXI secolo: il processo (sottolineo processo e non programma prescrittivo) di “meticciato di civiltà”, i problemi del terrorismo, la crisi energetica e climatica, la crisi economica. Per non parlare del cambiamento del panorama religioso europeo. Come ha notato Jenkins[1] chi avrebbe potuto prevedere il forte declino della pratica cristiana in Europa[2]? Chi avrebbe immaginato una presenza islamica così rilevante a Roma e a Madrid, oltre che a Parigi e a Londra? Per non parlare delle urgenti questioni più strettamente connesse con l’attuale configurazione politica e istituzionale dell’Unione Europea, dalla crisi finanziaria con le sue preoccupanti ricadute sulla moneta unica europea, al riassetto degli equilibri fra gli organi delle istituzioni europee, al crescente euroscetticismo recentemente sviluppatosi in molti paesi dell’area, fino alla problematicità in cui sembra versare l’intero processo di unificazione. Tra l’altro esso fatica a guardar “fuori casa”, in modo particolare alla cosiddetta area del MENA (Medio Oriente e Nord Africa) che nel 2030 avrà 600 milioni di abitanti.
A queste questioni si aggiunge un clima generale che vede il rapido venir meno della convinzione che per secoli ha sostenuto la civiltà occidentale, quella ultimamente fondata nella visione dell’uomo come persona, soggetto integrale di diritti e doveri armoniosamente tradotti in un sistema di leggi. Sullo sfondo di una sostanziale in-differenza nei riguardi delle diverse credenze religiose che abitano le nostre società, tipica di quella che Taylor ha individuato come fase tre della secolarizzazione[3], si profila infine un fenomeno che più direttamente coinvolge i cristiani nella loro vita pubblica. Mi riferisco a una ostilità verso la fede cristiana e in particolare verso gli insegnamenti della Chiesa Cattolica che inizia a tradursi in alcuni ordinamenti giuridici e in concrete formulazioni normative[4].
Benché il quadro possa apparire per certi versi scoraggiante, occorre guardarsi bene dal leggere il travaglio odierno lasciandosi trascinare da un senso di malanimo. La storia è fatta di processi, e i cristiani vi sono immersi come tutti. La grande risorsa delle fede in Dio Padre che guida la famiglia umana e la storia in Gesù Cristo, vincitore del peccato e della morte, non risparmia alla nostra libertà la dimensione drammatica della vita in comune con i nostri fratelli uomini. La verità cristiana, vivente e personale, si gioca nella storia e la storia non è deducibile a priori. I cristiani come tutti fanno i conti con questo dato. Semmai sono chiamati, in forza della virtù della speranza, a scrutare i segni dei tempi a favore di tutti.
Certo l’identità europea ha sempre presentato tratti paradossali. La storia del nostro continente mostra, da una parte, una comune appartenenza, dall’altra è altrettanto evidente come il patrimonio condiviso molti secoli si sia sempre declinato in una tale pluralità di forme, di culture, di lingue da far apparire, ad uno sguardo superficiale, quasi ingiustificato il riferimento a una qualche unità originaria. Interrogarsi oggi sull’identità europea dopo i 60 anni di cammino che, come aveva previsto Schuman «non si farà d’un tratto», significa da una parte riconoscere che, stante la complessità dei processi in atto, nessun Stato nazionale può affrontarli da solo e quindi l’Europa non è un’opzione ma una vera necessità; dall’altra non rinunciare ad un ideale identitario che, in qualche modo, funga da principio unificatore. In questo senso credo che la lettura offerta a suo tempo dal Cardinal Lustiger sull’origine della CECA indichi il metodo con cui, anche nel radicalmente mutato scenario odierno, si debba perseguire l’unità europea. Partire dalla realtà nelle sue urgenze concrete per lasciar emergere l’ideale. L’ideale, non l’utopia. L’ideale infatti è la verità insita nel reale, mentre l’utopia è, come dice l’etimo, l’irreale. Come allora sembrava esserci sproporzione tra gli strumenti (produzione comune del carbone e dell’acciaio) e gli ideali di pace e di prosperità dell’intero continente (carbone ed acciaio come la materia prima dell’industria bellica) così anche oggi servono grande realismo e perciò grandi ideali[5].
In quest’ottica non basta, anche se è necessario, guardare alle radici dell’Europa che conosciamo bene. Al di là dei tanti innegabili apporti che nel corso dei secoli hanno contribuito a modellarne il volto – penso a Gerusalemme, Atene e Roma, fino alle istanze moderne circa il peso del soggetto e quelle illuministiche di uguaglianza – mi sembra che elementi decisivi di queste radici possano essere oggettivamente reperite nel nucleo del cristianesimo inteso secondo il criterio della secondarietà che, secondo Rémi Brague rappresenta la forma realistica con cui perseguire l’unità europea. Secondario fu l’atteggiamento romano che recepì, custodì e trasmise come patrimonio proprio la sintesi ellenistica di Atene e Gerusalemme. Secondario è il cristianesimo che si sa secondo rispetto alla Prima Allenza. Da qui la singolare capacità critica dell’Europa nei confronti di ogni civiltà e cultura perché eviti di concepirsi come fondamento di se stessa[6].
Senza tener conto delle implicazioni antropologiche, sociali e culturali implicate nella rivelazione trinitaria – dalla singolare visione della dignità della persona, alla concezione della libertà e del suo rapporto con la verità, fino alla salutare distinzione tra società civile e dimensione religiosa e al riconoscimento del valore della sussidiarietà e della solidarietà – è difficile rendere conto di cosa diciamo quando pronunciamo la parola Europa.
Tutte le differenze etniche, nazionali, linguistiche e religiose finiscono per consolidare, non per corrodere, un patrimonio comune nel senso etimologico del termine. E tuttavia non è sufficiente considerare le radici per raccogliere la sfida della realtà storica odierna.
Per contribuire ad una Europa plurale i cristiani dovrebbero mostrare la rilevanza della relazione filiale con Dio Padre, inconcepibile prima della rivelazione cristiana. Sul quaerere Deum ha insistito lo stesso Benedetto XVI nella sua lectio magistralis al Collège des Bernardins. Né la polis greca, né la civitas romana – con il sensazionale sviluppo del diritto da essa realizzata – avevano mai inteso la società come famiglia e come casa. In entrambe la dignità dell’uomo e la sua libertà erano subordinate al riconoscimento del suo status di cittadino. Mancava il riferimento a quell’origine trascendente e personale che genera continuamente un’unità tra i figli e rigenera continuamente la loro libertà. È col cristianesimo che la nozione di cittadino viene integrata da quella di persona, spalancando all’uomo la sua piena identità. Certo in alcuni periodi della storia l’idea che l’unità dell’Europa si radicasse in Dio è stata più naturalmente vissuta (pensiamo al ruolo delle prime università nella formazione di una comune coscienza europea). Nel corso dei secoli tale certezza sembra essersi progressivamente indebolita. Eppure gli uomini che negli anni ’50 sono stati in grado di reintrecciare i fili spezzati del continente devastato da due tremende guerre lo hanno fatto nel realismo carico di ideale dei loro progetti, proprio partendo dalla loro comune origine, l’origine con la “O” maiuscola. La loro azione ha dimostrato che il cristianesimo è credibile in se stesso e nella sua rilevanza pubblica e sociale.
Muovendo da questa chiave interpretativa, è evidente che il processo di integrazione europea non si colloca come una possibilità tra le altre, ma possiede in un certo senso la forza di un destino che gli uomini europei hanno la missione di compiere. Tradirlo significherebbe per il nostro continente la rinuncia alla sua propria traditio, oltre a rappresentare probabilmente, nel mondo globalizzato di oggi, un suicidio politico dalle conseguenze inimmaginabili.
2. Il compito dei cristiani
In questo quadro quale contributo possono offrire i cristiani al processo di integrazione europea? Cosa possono fare i cristiani di oggi, non solo in nome dell’affermazione delle loro radici, ma in virtù della loro presenza nel qui e ora della storia, per approfondire il processo iniziato 60 anni or sono mostrandosi allo stesso tempo fedeli ai principi delle origini e all’altezza delle nuove sfide della nostra epoca? Che cosa ha a che fare con l’Europa, non solo l’eredità cristiana, ma il cristianesimo come oggi vissuto?
Per rispondere a queste domande rileviamo un dato significativo, che sintetizza i fenomeni velocemente richiamati poc’anzi: viviamo in una società sempre più plurale. La presenza di una varietà sempre maggiore di espressioni religiose e di mondovisioni sembra escludere la possibilità di individuare una Weltanschauung condivisa su cui far fiorire la vita comune. Se tale è la situazione, sebbene con accenti diversi, all’interno di ognuna delle nostre società occidentali, il quadro è ulteriormente complicato a livello europeo dalla pluralità di culture, tradizioni giuridiche e politiche che caratterizza il nostro continente.
Tuttavia i cristiani sono sicuramente ben attrezzati per far fronte a quell’inevitabile tensione tra identità e differenza, tra unità e pluralità, che è in realtà propria di ogni epoca storica. È infatti nel mistero della Trinità che risiede per eccellenza il principio della differenza nell’unità. E tale principio, in forza dell’incarnazione di Gesù Cristo, diventa criterio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza, da quelle costitutive di anima-corpo, di uomo-donna, di persona-comunità e di individuo società, a tutte le diversità etniche, culturali e religiose. Le vicende storiche europee lo mostrano in modo evidente. Ovviamente da ciò non deriva meccanicamente che l’Europa possa quasi in modo indolore raggiungere facili accomodamenti tra i tanti attori, statali e non statali, personali e comunitari in campo. I cristiani dispongono però sicuramente degli strumenti che permettono di raccogliere la sfida della pluralità.
In concreto, l’impegno che essi dovranno assumersi sarà quello di ripensare gli assiomi su cui poggiano le nostre democrazie procedurali e il principio di laicità sul quale intendono reggersi. In una società plurale, per sua natura tendenzialmente molto conflittuale, la laicità è tale solo se crea condizioni che garantiscano la narrazione ed il contenuto di tutti i soggetti personali e sociali che la abitano in vista del reciproco riconoscimento (Ricoeur[7]).
Per esempio se io credo nel valore della famiglia fondata sul matrimonio pubblico, fedele e aperto alla vita, ma non lo propongo nel pubblico dibattito presumendo che solo tacendo rispetterò le idee e i valori altrui, di fatto tolgo qualcosa alla vita comune, censuro a priori il racconto di un’esperienza che può arricchire il confronto e lo scambio comune.
Questo tentativo di proporre (non imporre) la mia esperienza alla narrazione reciproca comune e il desiderio di convincere della bontà della mia proposta sono il contrario del relativismo.
L’Europa esige oggi una nuova laicità che valorizzi tutti i soggetti che agiscono nella società plurale garantendo l’espressione pubblica delle loro convinzioni più profonde.
Solo così sarà possibile una convivenza tendenzialmente armonica che generi vita buona. Per perseguire tale complessa armonia è necessario il riconoscimento pratico – sottolineo riconoscimento pratico – dei beni materiali e spirituali da condividere: come già sosteneva Maritain nel 1947 all’UNESCO non si tratta di formulare in astratto un accordo teoretico tra diverse mondovisioni. È necessario, attraverso procedure pattuite, conferire valore politico al bene sociale primario di carattere pratico: il fatto di vivere insieme. Questo dato sociale deve essere elevato al rango di bene politico da tutti e promosso dalle istituzioni. Ciò non richiede nessun accordo preventivo circa la sua fondazione. All’interno di questo spazio, garantito a tutti, potrà attuarsi il dinamismo del riconoscimento dialogico tra i soggetti sui singoli contenuti di valore, in un confronto serrato ma sempre aperto tra mondovisioni diverse. In tale ottica, il bene pratico politico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione ha smarrito lungo la modernità[8].
In questo modo la differenza, talora acuta, tra l’azione politica comune e le varie identità culturali cessa, almeno in linea di principio, di essere conflittuale. I vari soggetti identitari dovranno ovviamente convivere sotto la guida dell’istituzione pubblica, mentre quest’ultima, per svolgere il suo delicato compito regolatore, dovrà essere aconfessionale ed imparziale nei confronti di tutti, senza però assumere posizioni neutraliste. Lo potrà fare garantendo i due livelli costitutivi del politico: il riconoscimento del valore del bene comune pratico-sociale dell’essere insieme e quello di quei valori specifici che la continua negoziazione riconoscerà man mano come tali, secondo il criterio, formulato da Rawls, del consenso per intersezione (overlapping consensus)[9], nella continua ricerca, di volta in volta, di un com-promesso nobile su beni specifici di carattere etico, sociale, culturale, economico e politico con tutti gli altri “abitanti” la società plurale.
L’orizzonte che spiega ulteriormente questo è definito dal principio dell’inevitabilità dell’interpretazione culturale della fede: ogni fede va sempre soggetta ad un’interpretazione culturale pubblica. Come scrisse Giovanni Paolo II, «una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Infatti essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell’amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell’azione civica. Se la fede diventa cultura allora è inevitabile che il suo determinarsi storico generi un’interpretazione della fede stessa. Il rapporto fede-cultura è circolare.
In questa fase di post-modernità nelle nostre società plurali tendono a confrontarsi, in particolare, due interpretazioni culturali del Cristianesimo.
La prima è quella che tratta il Cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per le nostre democrazie. Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza.
L’altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il Cristianesimo all’annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di “ogni altro”. Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall’autentico messaggio di misericordia di Cristo. Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
Un simile atteggiamento produce una dispersione dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale.
Nessuna di queste due interpretazioni culturali riesce tuttavia ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del Cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell’incontro con l’avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.
Io credo che sia più rispettosa della natura dell’uomo e del suo essere in relazione un’altra interpretazione culturale. Quella che corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla cripto-diaspora e propone l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza, annunciando tutti i misteri della fede e tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano.
In questa interpretazione della fede ruolo centrale è giocato dallo stile della testimonianza, che si contrappone a quello della militanza o dell’egemonia. La testimonianza intesa come metodo di conoscenza e di comunicazione. Da questo sguardo, da questa curiosità e passione, niente di ciò che fa parte della vita quotidiana degli uomini e donne di oggi, come anche la politica e l’economia, può restare fuori.
3. Libertà religiosa
In merito poi ai contenuti più specifici dell’azione dei cristiani in tema di integrazione europea vorrei soffermarmi solo su un punto decisivo: la libertà religiosa.
Più che una previsione, il fatto che le religioni siano chiamate a giocare un ruolo nel futuro dell’Europa è la conclusione che ognuno può trarre dalla semplice osservazione delle circostanze attuali. La presenza di diverse realtà religiose, penso in primo luogo all’Islam, ha inoltre contribuito in maniera sostanziale a sfatare le previsioni formulate solo qualche decennio fa sull’avvento di “un mondo mondano”. Certo, il moltiplicarsi di soggetti e visioni religiose a volte radicalmente diverse fra loro e l’affacciarsi sulla scena di nuovi attori hanno suscitato la diffidenza di molti. Ma non possiamo dimenticare il fatto che nella storia europea le vicende religiose, le vicende culturali e socio-politiche si siano mostrate, al di là delle necessarie distinzioni, così intrecciate da essere di fatto inscindibili. A tal riguardo si registra oggi una non trascurabile differenza tra le due sponde dell’Atlantico. A partire dagli Stati Uniti per giungere a varie aree dell’Africa, dell’America Latina, del Medio del più lontano Oriente la presenza di cristiani metodisti, battisti, pentecostali è in forte crescita. Al di là del giudizio che si può dare su queste nuove realtà interessa qui rilevare che esse, con forte spinta “missionaria”, coniugano la fede con una partecipazione attiva alla vita pubblica. In Europa, al contrario, prevale un atteggiamento teso ad affermare che il confronto pubblico debba necessariamente prescindere dalla radice religiosa delle convinzioni personali. Ma questo significa alla fine obbligare i credenti a comportarsi come se fossero atei. E ciò finisce per privare la società di importanti risorse. Tuttavia alcuni pensatori di rilievo, penso per esempio ad Habermas[10], a Böckenförde[11] e a Rawls[12], hanno cominciato a riconoscere nelle tradizioni religiose, a partire dal cristianesimo, l’espressione di un potenziale cognitivo e il riferimento di un impegno civile di cui è impossibile non tenere conto.
Effettivamente le religioni possiedono la capacità di proporre l’universale in modo concreto. Contrariamente a quanto ha finito per postulare la cultura europea nel corso della modernità, i valori non si danno mai in astratto (la stessa Carta dei diritti fondamentali rischia di essere un semplice elenco di proposizioni formali), ma soltanto all’interno di tradizioni vissute. Allora alcuni assiomi che stanno alla base delle nostra società, penso ad esempio all’idea di libertà o a quella di uguaglianza, possono ricevere nuovo slancio dalla testimonianza di fedeli che li vivono già all’interno della loro stessa esperienza comunitaria. Tale presa d’atto dovrebbe comportare da parte del potere politico il riconoscimento della soggettività pubblica delle religioni[13]. Da qui la necessità che le istituzioni pubbliche non solo riconoscano ma attivamente promuovano un’effettiva libertà religiosa. Nel corso di alcune mie visite in paesi del Medio Oriente mi è capitato di incontrare realtà in cui cristiani e musulmani, sulla base di alcune visioni condivise, per esempio la dignità dell’essere umano, mettono insieme le loro forze in opere culturali e sociali dai risultati sorprendenti. Penso alla capillare azione nei confronti della grande quantità di persone diversamente abili (handicappate) attuata dall’Associazione Our Lady of Peace Centre for individuals with special needs (fatta da musulmani e cristiani) in Giordania. E tutto questo in contesti in cui la libertà religiosa non è certo incoraggiata. Mi immagino cosa potrebbe succedere in Europa, quale potenziale potrebbe essere espresso se crescesse un clima più favorevole al confronto reciproco. Ovviamente ciò è possibile a condizione che le religioni abbandonino le autointerpretazioni di tipo privatistico da una parte o fondamentalistico dall’altra per creare uno spazio di confronto reciproco tra di esse e con tutte le altre culture.
L’idea di possedere una missione universale è sempre stata cara agli europei, ma tale compito è stato complicato e in parte oscurato dalla vicenda coloniale dell’Europa, che ha spesso trasformato la missione in un’impresa di conquista e sopraffazione.
Fin dall’inizio del suo Pontificato Giovanni Paolo II, ha impresso una svolta alla concezione dell’Europa formulando, con coraggio inaudito per quei tempi, la proposta di un continente capace di respirare a due polmoni, unito dall’Atlantico agli Urali[14].
Come riproporre allora una visione universale in grado di rendere l’Europa significativo attore della globalizzazione e nel contempo di preservarla dalla tentazione di fagocitare con la sua cultura altre realtà del pianeta?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferimento al singolare rapporto con quei beni antropologici, sociali ed ecologici implicati nella rivelazione cristiana ma che possiedono valore universale. Ho avuto di recente occasione di rileggere un brevissimo saggio di Romano Guardini dal significativo titolo Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica della comunità[15], dove il grande pensatore tedesco mostra una decisiva implicazione sociale del mistero trinitario. Proprio perché l’Europa ha ricevuto questi beni gratuitamente non può considerarsene padrona. Essi sono offerti dal disegno di un Padre che guida la storia di tutta la famiglia umana. Nessuna realtà, per quanto raffinata e sviluppata, potrà mai pretendere di esaurire la totalità del reale. A questo proposito è decisivo quanto Etienne Gilson scriveva proprio nel 1952 proprio a proposito dell’Europa: «Elle sera savante, mais elle ne sera pas la Science. Elle saura enfanter dans la beauté, mais elle ne sera pas l’Art. Elle sera juste, mais elle ne sera pas le Droit. Et nous espérons qu’elle sera chrétienne, mais elle ne sera pas la Chretienté»[16] (Sarà dotta, ma non sarà la Scienza. Saprà generare la bellezza, ma non sarà l’Arte. Sarà giusta, ma non sarà il Diritto. E speriamo che sarà cristiana, ma che non sarà la Cristianità). Il suo compito resta quello di offrire al mondo ciò che essa ha ricevuto, di mostrargli, per usare ancora un’espressione del Cardinal Lustiger, «un nouvel art de vivre» (Una nuova arte di vivere). Volendo fare ricorso a una categoria cristiana potremmo dire che la missione propria degli europei è, nel dialogo e nel confronto costante con le altre culture, testimoniare il perseguimento, personale e comunitario, di quella vita buona, fatta come diceva Aristotile di philìa, che non può non stare a fondamento dell’edificazione della polis.
Se mantenuto all’interno di queste caratteristiche, l’apporto europeo alla costituzione di un nuovo ordine mondiale, da tempo auspicato dal Magistero sociale della Chiesa, potrà essere rilevante come è già avvenuto nei momenti più alti della sua storia. L’Europa potrà offrire e coinvolgere tutti i continenti nella pratica di una libera convivenza di cittadini, di corpi intermedi e di nazioni che diano vita ad una società civile capace di non sacrificare le differenze ma di esaltarle senza che esse lacerino la sempre più urgente unità tra i popoli del pianeta.
NOTE: [1] P. Jenkins, Il Dio dell’Europa. Cristianesimo ed Islam in un continente che cambia, EMI Bologna 2009. [2] Cfr. Ifop pour la Croix, Les Français, la laïcité et le rôle des religions, mars 2008. [3] Secondo Taylor si è passati da un’epoca in cui era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre» (L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, 14). [4] Oltre alle legislazione in materia di aborto e divorzio vigenti in molti paesi europei, si possono citare la recente sentenza della corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che definisce l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane una «violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione» (Sentenza 2009, Lautsi c. Italia, sul crocifisso nelle scuole pubbliche: ricorso n. 30814/06); l’introduzione, in alcuni stati, del matrimonio omosessuale (Olanda, 1/4/2001, Belgio, 1/6/2003 e Spagna, 30/6/2005); o ancora la Risoluzione 14/1/09 del Parlamento europeo, che invita gli Stati dell’Unione a riconoscere i legami omosessuali formalizzati in altri Stati e auspica la previsione del testamento biologico per realizzare il «diritto alla dignità della fine della vita». [5] Cfr. J.M. Lustiger, L’Europe à venir, Parole et Silence, Paris 2010. [6] Cfr. R. Brague, Il futuro dell’occidente, Rusconi, Milano 1998, 118-119. [7] P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005. [8] Cfr. F. Botturi, Secolarizzazione e laicità, in P. Donati (ed.), Laicità: la ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 295-337. [9] J. Rawls, Liberalismo politico, Ed. Comunità, Milano 1994, 123-154. A proposito della ragione pubblica scrive Rawls: «caratteristica della ragione pubblica è che i suoi limiti non valgono per le nostre deliberazioni e riflessioni che fanno su di essi i membri di associazioni come le chiesa e le università, cioè per cose che sono tutte componenti vitali della nostra cultura di fondo. È chiaro che qui svolgono un ruolo – e ciò è ineccepibile – anche vari tipi di considerazioni religiose, filosofiche e morali» (185). [10] Cfr. J. Habermas, La religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’«uso pubblico della ragione» da parte dei cittadini credenti e laicizzati, in J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari, 2008, 19-49. [11] Cfr. E. W. Böckenförde, Cristianesimo, libertà, democrazia, Morcelliana, Brescia 2008. [12] Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit. [13] P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. Vigna, S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 51-106. [14] Giovanni Paolo II, Profezia per l’Europa. A cura di M. Spezzibottiani, Piemme, Casale Monferrato, 19992. [15] R. Guardini, Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica della comunità, in Scritti politici, Opera Omnia VI, Morcelliana, Brescia, 2005, 97. [16] E. Gilson, Les métamormophoses de la Cité de Dieu, Vrin, Paris, 2005 (1952), 219.