Riportiamo l’intervista che il settimanale Gente Veneta ha realizzato al Patriarca Scola in vista dell’Assemblea Ecclesiale.

Nessun obiettivo particolare: solo un’occasione per incontrare altri “parenti” in Cristo. Come se un capofamiglia invitasse i suoi cari a trascorrere del tempo insieme. Per raccontarsi, in questo caso, come alcune esperienze vissute hanno toccato singole persone e comunità, a partire dal loro rapporto con Cristo. Ecco cosa vuole essere la seconda Assemblea ecclesiale, che verrà vissuta nel pomeriggio di domenica 11 ottobre nella Cattedrale di S. Marco: lo spiega il Patriarca, che indossando le vesti del “capofamiglia”, appunto, ha voluto riunire attorno a sé i 1200 rappresentanti di parrocchie, associazioni, gruppi ecclesiali e comunità religiose che parteciperanno all’evento.

Eminenza, ha chiesto alle comunità veneziane di produrre una testimonianza su “qualche particolare dono ricevuto”, nel corso della Visita in atto, che “possa dare gloria al Signore” e “infondere energia di fede e sostanza di comunione”. E se dovesse lei dare una testimonianza di come la Visita l’ha cambiata in questi cinque anni?

Mi ha cambiato e mi cambia in ogni singolo incontro, soprattutto perché mi educa continuamente ad avere uno sguardo semplice su me stesso, sugli altri, sulla realtà. E’ il contatto ravvicinato con la fede del nostro popolo che fa scaturire questo sguardo, quello spirito di fanciullo di cui parla il Vangelo. Questo è forse il dono più prezioso perché non rimuove la complessità e la fatica della vita di tutti giorni, ma le investe di una luce nuova e le rende lievi.

Spesso ha avuto modo di raccontare che le visite agli ammalati l’hanno colpita…

Sì, decisamente, mi hanno colpito a tal punto che ho scelto di dedicare il discorso del Redentore al tema della sofferenza e del dolore dell’uomo e del suo significato alla luce del Crocifisso. Le molte persone che ho visitato, colpite dalla malattia, anche in situazioni estreme mi hanno documentato, in modo spesso inatteso, come si possa stare nella prova e nell’ombra della morte con un atteggiamento di abbandono totale al Signore e con un’energia positiva di vita.

Come mai ha voluto questa volta che le testimonianze fossero comunitarie?

Direi che, se sono veramente tali, le testimonianze sono sempre personali e comunitarie ad un tempo. La testimonianza, cioè, non è un puro narrare qualcosa che è capitato a me, ma è mostrare come una determinata esperienza che ho vissuto – un incontro con una persona, una malattia, la gioia di una nascita, una difficoltà al lavoro, la Sosta della Visita pastorale per esempio – ha toccato tutta la mia vita e la illumina a partire dal mio rapporto con Cristo, Verità vivente e personale. Gesù dice a Pilato: «Sono venuto a rendere testimonianza alla Verità». Noi dobbiamo rendere testimonianza a Gesù: se intendo così la testimonianza, allora questa diventa comunicabile, cioè apre un terreno di incontro tra me e gli altri, che si sentono chiamati in causa, coinvolti con tutta la loro storia e persona. Altrimenti io posso raccontare a te una bella cosa che mi è successa, tu magari ti commuovi, ma poi l’emozione passa e si porta via tutto. Se invece mostro come quella stessa esperienza mi ha cambiato nel mio rapporto con la Verità che è Gesù, questo diventa il terreno comune su cui anche tu sei chiamato a interrogarti su di te. E non ti puoi voltare dall’altra parte come se niente fosse. In una parola una testimonianza è compiuta se urge chi ascolta a prendere posizione su Gesù perché la sua vita cambi. Allora attraverso la testimonianza così intesa, l’esperienza personale diventa comunitaria. Per questo, per preparare la seconda assemblea, abbiamo chiesto che le testimonianze fossero valutate insieme dallo sguardo dell’assemblea parrocchiale e del consiglio pastorale o dei membri di un’aggregazione ecclesiale, per lasciar emergere questa dimensione di testimonianza alla verità che è contenuta in ogni autentica esperienza personale.

Questo è avvenuto? C’è stato questo risvolto comunitario?

Il fatto che il 95% delle circa 150 testimonianze pervenute sia il frutto di un’assemblea comune è un bel passo in questa direzione. Certo abbiamo ancora un bel cammino da compiere, ma proprio questo rende affascinante il nostro futuro.

Cosa emerge dalle circa 150 testimonianze arrivate? Cosa l’ha colpita di più?

Una maggior consapevolezza che dobbiamo spostare il baricentro della nostra vita ecclesiale dalle iniziative, dall’organizzazione, dalle strategie e dai progetti al soggetto personale e comunitario che li attua operando nella storia. Il baricentro va posto sul soggetto che noi siamo, sul nostro riferimento a Cristo, sulla necessità di un rapporto personale e comunitario con Lui, che si può vivere solo dentro a una autentica vita di comunità. Il fare, il servizio sono importanti, ma ancor più importante è chiedersi sempre “per Chi?” agiamo.

Un simile soggetto si manifesta inevitabilmente, non può restare nascosto: è lievito, sale, luce allo stesso tempo sia negli ambienti della parrocchia e delle associazioni, sia soprattutto in tutti gli ambienti in cui spendiamo la nostra esistenza.

Molte sono state le testimonianze inviate da realtà parrocchiali, in misura minore quelle scritte da gruppi ecclesiali e associazioni, mentre sono pressoché assenti le testimonianze da parte di persone e realtà esterne all’ambito strettamente ecclesiale: l’Innominato non ha risposto… E’ stata, da questo punto di vista, un’occasione non pienamente sfruttata di edificazione per tutti?

Posso testimoniare che i segni dell’attenzione e della curiosità da parte di non praticanti e non credenti verso la Visita pastorale sono stati molteplici e sorprendenti. Il fatto che non siano sfociati in testimonianze da rendere pubbliche durante l’Assemblea può essere dovuto a tanti fattori, compresa una qualche timidezza da parte nostra nel chiederle e forse anche una certa fatica delle nostre comunità a mantenersi sempre aperte a tutto campo. Ora però si tratta di valorizzare il gesto assembleare dell’11 ottobre come occasione per una ripresa di energia missionaria.

C’è qualcosa che ancora non è accaduto durante le Soste e le piacerebbe si verificasse nei prossimi appuntamenti?

Questo bisogna lasciarlo alla Provvidenza. Ovviamente ci sono talune forme della Sosta pastorale che necessariamente devono essere comuni (liturgia, assemblea), ma la sostanza è molto diversa nelle varie realtà. Basti pensare a come la Riviera sta affrontando il suo bisogno di trovare maggior unità e fisionomia. E’ cosa ben diversa dal compito della città lagunare e della sua sfida speciale, legata al travaglio che io chiamo antropologico. Ma le energie e la passione con cui tutti, sacerdoti e laici, da anni si preparano, e che hanno portato già frutti imponenti, mi lascia sperare molto bene.

Si può andare verso quell’accelerazione che può portare frutti ulteriori?

Sì, se viviamo in uno stile di azione ecclesiale rinnovato: intensificando la comunione tra tutti gli organismi sinodali della diocesi, come il consiglio episcopale, il consiglio di curia, l’incontro dei vicari foranei, l’azione dei vicariati, il consiglio presbiterale, il consiglio pastorale diocesano, la scuola di metodo, le nascenti comunità pastorali, le comunità educanti, ecc… , in modo che da essa possa scaturire uno stile missionario più pronunciato. Perché se ci si aiuta a crescere nella comunione con Cristo, inevitabilmente ci si apre a tutta la realtà a 360°. E’ ciò che domanda la Visita pastorale.

A questo proposito, c’è secondo lei una sufficiente attenzione, da parte del mondo civile, a questo evento che sta segnando la nostra Chiesa?

Sì. Secondo me nelle persone e nelle istituzioni più sensibili c’è questa attenzione e curiosità. Ripenso a vari esponenti del mondo dell’impresa, della scuola, dei sindacati, delle diverse categorie di lavoratori, dal Petrolchimico, al porto e all’aeroporto, al mondo della politica, dei massmedia,… Ma dato che noi non abbiamo mire egemoniche, non misuriamo la verità della Visita pastorale in base all’eco dell’opinione pubblica. A noi interessa il cuore delle persone e la vita buona del nostro popolo.

Qual è il suo ricordo di precedenti Visite pastorali da lei vissute (da ragazzo, da giovane prete…) o effettuate (da vescovo di Grosseto)?

Da Grosseto sono stato chiamato a Roma proprio quando avevo messo in programma la Visita pastorale, che quindi non sono riuscito a iniziare. Ma mi resta ancora impresso un ricordo particolare della mia infanzia, legato alla Visita pastorale del card. Alfredo Schuster che si fermò due giorni nella mia piccola parrocchia. Avevo 8 anni e, per il mio servizio di chierichetto, mi recai in chiesa con gli altri miei amici per assistere all’adorazione privata del cardinale di fronte al Santissimo. Quest’uomo esile, ieratico, iperasciutto, in piena notte stette immobile in preghiera, in ginocchio, dalle 3 alle 4 e mezza, mentre noi restavamo a fatica svegli in ginocchio vicino a lui sull’altare.

Cosa si aspetta da questa assemblea? Verso quale nuovo obiettivo ci condurrà?

Il mio desiderio è che si mettano da parte pretese di discorsi inediti o altri obiettivi particolari e ci si accosti a questo appuntamento come a un incontro libero e gratuito di amici, di familiari, di nuovi parenti in Cristo. Che si entri a San Marco per un momento di edificazione comune da vivere attraverso la bellezza dell’azione eucaristica, del gesto “drammatico” che il gruppo de l’Avogaria produrrà, nell’ascolto delle testimonianze, come avviene quando il capofamiglia invita tutti i suoi cari a passare mezza giornata insieme per rinnovare lo sguardo uno sull’altro. Vorrei uno scatto di fraternità, di comunione e di intensità di affetto. Il resto verrà dalla potenza dello Spirito Santo, che opera attraverso la libertà di tutti noi e delle nostre comunità.

Paolo Fusco