I DIALOGHI DI SAN GIORGIO – E’ stato il Patriarca ad aprire in data 13 settembre la sesta edizione de I Dialoghi di San Giorgio, tradizionale appuntamento autunnale organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini che dal 14 al 16 settembre 2010 inviterà presso l’Isola di San Giorgio Maggiore studiosi, artisti ed esperti di fama internazionale a riflettere e confrontarsi su una tematica di grande attualità come il rapporto tra ecologia e teologia. Oltre all’intervento del Patriarca, l’evento inaugurale ha visto l’introduzione del Segretario Generale della Fondazione Cini Pasquale Gagliardi e l’esecuzione per pianoforte e orchestra d’archi de La creazione del mondo di Darius Milhaud, suonata da Aldo Orvieto e dall’Accademia Musicale di San Giorgio, e da alcuni brani di Gustav Mahler tratti da Il canto della terra e cantati da Christa Mayer.
“Protecting nature or saving creation? Ecological conflicts and religious passions”. E’ questo il titolo del Dialogo 2010 che prenderà in esame il rapporto tra ecologia e teologia attraverso gli interventi di: Matthew Engelke, Eric Geoffroy, Izabela Jurasz, Bruno Latour, Ignazio Musu, Ted Nordhaus, Anne-Marie Reijnen, Simon Schaffer, Michael Shellenberger, Elizabeth Theokritoff, George Theokritoff, Andrea Vicini, Eduardo Viveiros de Castro.
Viene pubblicato qui di seguito il testo integrale dell’intervento del Patriarca:
1. Uno spunto mahleriano
«O Schönheit! O ewigen Liebens, Lebens trunk’ne Welt!»: «O bellezza! O mondo ebbro di amore eterno, di vita eterna!». In queste poche parole, aggiunte proprio da Mahler al testo dell’ultimo movimento di Das Lied von der Erde (1907-1909), forse si trova concentrato tutto lo spirito espressivo di quest’opera. È in esse, infatti, che possiamo rinvenire i concetti fondamentali che la articolano.
Innanzitutto la bellezza che, secondo la celebre affermazione del principe de L’Idiota di Dostoevskij, «salverà il mondo»[1]. Una bellezza che, se sciolta dal bene e dalla verità, sarebbe, per usare ancora parole di Dostoevskij, questa volta prese a prestito da Dimitri Karamazov, «tremenda, perché impossibile a definirsi: e definire non si può, perché Iddio non ci ha proposto che enigmi […] Il terribile è che la bellezza non è solo una cosa tremenda, ma anche misteriosa. Qui il diavolo lotta con Dio, e il campo di battaglia sono i cuori degli uomini»[2]. E, tuttavia, come ci insegna il grande Sant’Agostino, non a caso, nel De musica: «Dimmi, ti prego, che altro si può amare se non le cose belle?»[3].
Il secondo riferimento fondamentale è al mondo inteso come l’insieme della realtà. Particolare attenzione merita poi il riferimento all’ebbrezza, non nel senso di un rinvio a quel “terzo occhio del poeta” in grado di aprire l’accesso ad altre realtà, che i cosiddetti maledetti – il gruppo di letterati parigini della seconda metà dell’Ottocento (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé…) cercavano tramite l’assunzione dell’assenzio – bensì come apertura verso la pienezza, la sovrabbondanza e, persino, l’anelito per. Poi l’amore, quella forza che «move il sole e le altre stelle»[4], e che spesso diventa conforto nella vita. E, infine, la vita e l’eternità. Sia perché la vita è sete inesauribile di eternità, sia perché in ogni vita si trova qualcosa di eterno.
2. Ospitare il reale
Il genio di Mahler, come ogni genio musicale, ci rimanda ad un dato irriducibile. Il reale parla all’uomo e l’uomo è in grado di ospitarlo, tanto che fra i due può verificarsi un’intima corrispondenza.
Ma da dove deriva tale possibilità di rapporto tra l’uomo e la realtà? Si tratta, per venire, ex abrupto, al tema di questo incontro, della partecipazione, sia pur a livelli qualitativamente diversi, di tutti gli esseri ad un’unica natura, o della relazione che entrambi intrattengono con un Creatore? Nel tentare una risposta dobbiamo innanzitutto registrare un dato. Se la domanda sul rapporto tra l’uomo e il mondo è antica quanto l’umanità, essa assume oggi un’inedita centralità. A differenza di quanto è avvenuto fino a Kant, le domande antropologiche ed etiche provenienti dalla cosmologia sembrano oggi del tutto impensabili. La considerazione della Terra non offre più un quadro entro cui l’uomo debba collocarsi (antropologia); né tanto meno costituisce un esempio da seguire (etica). Non vi sarebbe alcuna saggezza del mondo[5] cui l’uomo debba o possa fare un qualche riferimento. L’uomo sarebbe in senso letterale im-mondo. In quest’ottica la Terra appare solo come una sorta di ornamento indifferente. L’uomo vi svolge certo la sua attività, ma questa non sarebbe debitrice alla Terra in niente. Gli è estranea: «Ciò che noi non sappiamo più, è in che cosa sia moralmente bene che ci siano uomini al mondo; e, ad esempio perché sia bene che vi continuino ad essere: la loro esistenza vale i sacrifici che costa? Alla biosfera, ai loro genitori, a loro stessi?»[6].
Proprio per questo decidere del proprio rapporto con la terra è per l’uomo di oggi una questione improrogabile.
3. L’uomo e la Terra
Un primo suggerimento circa la nostra collocazione nell’ambiente circostante ci giunge da un’osservazione del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. «È un fatto – afferma Bartolomeo – che il termine “ambiente” (environment) presuppone qualcuno che vi si trovi inserito. Le due realtà implicate includono da una parte gli esseri umani come coloro che si trovano circondati da qualcosa e d’altra parte la creazione come ciò che circonda qualcuno. […] Dobbiamo mantenere con chiarezza tale distinzione tra la natura come ciò che costituisce l’ambiente e l’umanità come ciò che dall’ambiente è circondata»[7]. Oltre a fornire una prima essenziale indicazione su un adeguato rapporto tra l’uomo e l’ambiente, l’affermazione di Bartolomeo documenta che tale rapporto appartiene alla comune esperienza umana. L’uomo vive con il creato uno scambio vitale, e allo stesso tempo non può non interrogarsi sul significato di trovarvisi immerso. Dove si radica tale esperienza?
Nella Sacra Scrittura l’ambiente in cui l’uomo viene creato è rappresentato nella figura di un giardino (greco parádeisos), un luogo di bellezza in cui i suoi rapporti costitutivi – con se stesso, con Dio e con tutti gli altri esseri – sono armoniosi. Non solo, ma lo stesso “ambiente” è creato per l’uomo che, chiamato a custodirlo e coltivarlo (Gn 2,15), è anche investito del compito di assegnare un nome agli esseri viventi (Gn 2,19).
A partire dalla riflessione teologica sulla creazione, si capisce dunque come l’iniziativa creatrice di Dio si esplichi non solo nel far esistere il mondo, ma anche nel far esistere soggetti liberi, e perciò responsabili di tutta la creazione. Lo stesso racconto della caduta dell’uomo e della donna vuole significare che fin dal primo istante della creazione è in gioco la libertà dell’uomo. Non si può pensare l’uomo separato dalla sua libertà. E la Terra esiste per l’uomo al punto tale che proprio nel peccato d’origine la Chiesa individua la radice della problematicità della questione ambientale. Non a caso Giovanni Paolo II la poneva in termini squisitamente antropologici: «L’uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui»[8]. Ecco perché, ci insegna la ancora la Rivelazione, la relazione uomo-ambiente chiede di essere assunta nella prospettiva della Redenzione.
La Pasqua di Gesù inaugura un nuovo stadio in cui il rapporto tra l’uomo ed il creato è posto sotto il segno del “travaglio”, doloroso ma positivo perché destinato al bene della vita. È innanzitutto un travaglio antropologico che investe però, come ci ricorda Paolo, tutta la creazione: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8, 19-24). In questo modo, travaglio antropologico e travaglio cosmologico si intrecciano nell’ineludibile prospettiva escatologica. Allora, nella parusia – già aperta sul cammino della famiglia umana- ciò che è già compiuto in Cristo si compirà in noi e nel mondo con la risurrezione del nostro corpo mortale nel nostro vero corpo, nei cieli nuovi e nella terra nuova. In questa luce, secondo l’ottica cristiana, si può guardare alla prima e alla nuova creazione non come a due realtà che si succedono meccanicamente, ma come a due momenti che si includono reciprocamente: la seconda assume la prima e le offre piena ragionevolezza. La prima, in se stessa, non potrebbe che restare incompiuta e non adeguatamente intelligibile. D’altro canto, la traiettoria storico-salvifica si sviluppa secondo un piano concepito «prima della fondazione del mondo» (Ef 1, 4), che si realizza «nella pienezza dei tempi» (Ef 1, 10).
A partire dalla nuova creazione Cristo si rivela come il Capo della creazione stessa[9]: la solidarietà di Cristo con tutti gli uomini fino al suo morire e risorgere per noi, ha il suo fondamento nella creazione di tutti gli uomini in Cristo[10].
Si comprende così quale sia secondo il cristianesimo il significato proprio della creazione, cioè il rapporto primordiale tra Dio e la persona umana nel mondo: “perché Dio che non ne ha bisogno crea l’uomo ed il mondo? La domanda riflette quella della modernità: perché c’è l’essere e non il nulla?”
La creazione è il dono che Dio fa di Sé mediante il quale liberamente pone e mantiene nell’esistenza esseri che, pur restando radicalmente distinti da Lui, recano la Sua impronta indelebile.
4. Due riduzioni del rapporto uomo-natura
Tale visione dell’esistenza permette di evitare due concezioni inadeguate – inadeguate perché in fondo incapaci di rendere conto pienamente dell’esperienza umana – del rapporto uomo-ambiente.
Da una parte un antropocentrismo esasperato secondo il quale l’uomo è padrone assoluto del cosmo. Sappiamo che certo pensiero ecologista riconduce tale orientamento alla precedenza biblica dell’uomo sul creato[11], ricavandolo dalla prima versione del racconto genesiaco della creazione, che ha la forma di un comando dato all’uomo: «siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gn 1,28). Senza poter entrare nel dettaglio esigito dalla risposta a tale critica, richiamiamo solo il già citato “secondo racconto” della creazione (Gn 2,41-3,24), in cui l’insegnamento biblico viene così formulato: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Anche in questo caso i protagonisti del rapporto uomo-creato non sono due – la comunità degli uomini e il creato – ma tre, visto che tale rapporto trova la sua sorgente nel Creatore. Da qui scaturisce un’ulteriore considerazione. Se l’uomo non può ergersi a dominatore onnipotente del cosmo, nemmeno può illudersi di salvarlo dal disastro con le sue sole energie, fosse anche tramite il ricorso alla tecno-scienza con le sue strabilianti scoperte e applicazioni.
Ciò ci impedisce, d’altro canto, di accettare ingenuamente un biocentrismo o ecocentrismo che si proponga di «eliminare la differenza ontologica e assiologia tra l’uomo e gli altri essere viventi, considerando la biosfera come un’unità biotica di valore indifferenziato»[12]. Si verrebbe così «ad eliminare la superiore responsabilità dell’uomo in favore di una considerazione egualitaristica della “dignità” di tutti gli esseri viventi»[13]. È una visione che depotenzia sia il valore dell’uomo, cui viene alla fine negata la caratteristica di soggetto libero che partecipa all’attività del Creatore, sia il valore della Terra, privata di ogni significato che non sia la sua pura conservazione. Scrive infatti Benedetto XVI: «Dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza dell’uomo»[14].
Se il cosmo si riduce a una natura nella quale ci troviamo assorbiti, il nostro rapporto con esso potrà essere tuttalpiù estetico, ma non etico (Kierkegaard). La natura però non è solo «un insieme di “cose”, ma anche di “significati”»[15], attraverso i quali la libertà dell’uomo è chiamata a realizzare la propria vocazione originaria nella ricerca del volto del Creatore.
5. I conflitti ambientali, una questione antropologica
Dopo questo rapido excursus sulla visione cristiana del rapporto tra uomo e creato, possiamo ora chiederci – secondo il proposito degli organizzatori di queste giornate – se e come tale concezione, così come in modo analogo quelle delle altre grandi religioni, possa ancor oggi efficacemente interagire con il modo di percepire e affrontare gli attuali, brucianti conflitti ecologici.
Non è ovviamente mio compito, né peraltro ne avrei competenza, anche solo tentare di rispondere alla questione che sarà sviluppata dagli esperti lungo tutto il colloquio. Essa suona all’incirca in questi termini: sono in grado le religioni, come hanno potuto fare in altri campi in passato, di mobilitare energie che contribuiscano ad una vera e propria conversione ecologica? Questo domanda una sorta di escatologia radicale, come afferma Latour[16], cioè un lungo e lento cambiamento che investe molti ambiti, riferito ad una enorme quantità di dettagli e, soprattutto, dipendente da un’infinità di gesti che, ecco la cosa più ardua, chiedono un rovesciamento di mentalità a miliardi di persone. Le passioni religiose possono venire in soccorso alla deboli energie che oggi sembrano caratterizzare i numerosi conflitti ecologici?
La domanda contiene un invito, neppure troppo implicito, a porre in modo radicalmente nuovo il rapporto eco-logia e teo-logia, per affrontare scopertamente i conflitti interni ai due mondi.
Mi limito ad un suggerimento di carattere generale.
Non voglio entrare nel dibattito sulla nozione di natura, che quasi tutti, sia in campo scientifico che in campo teologico, danno ormai come spacciata e considerano responsabile di quasi tutti i mali che affliggono l’umanità. Personalmente sono invece dell’idea che, dal momento che sempre qualcosa si dà a qualcuno, un quid ultimo sia ineliminabile. E, fin da Aristotele, cos’era la fysis se non questa molteplice, dinamica datità?
Tuttavia è vero, e lo è in modo particolare per il cristianesimo, che in nessun modo si può parlare di natura se non in termini di creatura. Ed è proprio una adeguata riflessione sulla creazione ad aprire la via per ripensare il rapporto tra ecologia e teologia. La creazione infatti mette in campo la relazione. E l’uomo postmoderno si trova posto di fronte ad una bruciante alternativa. Passata l’epoca delle utopie, con il fitto buio che ha gettato sul secolo scorso, l’antropologia postmoderna assume un marcato carattere pascaliano. Ha l’andamento della pregnante scommessa intorno ad un’alternativa radicale: l’uomo del terzo millennio vuole essere solo l’esperimento di se stesso o vuole essere un io-in-relazione?[17] L’antropologia per essere adeguata deve essere drammatica. Deve accettare che l’uno insuperabile in cui l’io consiste si dia sempre in modo duale. Sono uno, per questo posso dire io, ma sono sempre uno di due: uno di anima-corpo; uno di uomo-donna; uno di individuo-comunità, uno di uomo-cosmo. Pertanto l’alterità mi costituisce come dimensione interna all’io, che per questo non può esistere se non in relazione. È lo stesso carattere drammatico o polare dell’io a mostrarlo apertamente. Per questo il modo giusto di nominare l’io è io-in-relazione.
L’intrecciarsi delle polarità costitutive rivela l’autentico rapporto di creazione, come la permanente amorosa relazione di Colui che chiama all’essere tutta la realtà (cfr. Rm 1, 20) e continua ad accompagnarla. Secondo la tradizione giudaica e quella cristiana Dio ha fatto della relazione d’amore la ragione del suo compromettersi con la famiglia umana lungo tutta la storia. Egli, per il popolo ebraico e per i cristiani è il Dio con noi, dove il noi mette in campo tutte le polarità-relazioni costitutive cui abbiamo fatto cenno. La relazione, sempre polare, dell’io con se stesso, con gli altri, con il cosmo, con Dio è la strada inevitabile per poter dire io in maniera umanamente soddisfacente.
Come non vedere in questa prospettiva l’improcrastinabile compito di inscrivere la buona relazione con il creato nei cerchi intersecantesi delle altre relazioni costitutive?
Questo suggerimento, me ne rendo conto, è troppo generale per non rischiare di essere ovvio. Tuttavia mi sembra in grado di mostrare il ponte che esiste tra ecologia e teologia. Ponte che anche le scienze più avvedute oggi stanno costruendo, avendo abbandonato una vulgata ecologista fondata su un mitico ritorno alla natura buona ed innocente. È vano il grido di Baudelaire: Pan è tornato!. Tanto meno si può dar credito ad Assmann quando parla di Mosè come l’egiziano. La via dell’incontro urgente e collaborativo tra ecologia e teologia è quella di continuare, con amore, la logica della creazione. Una logica ad un tempo scientifica, religiosa e politica. Per questo è logica di giustizia e di sviluppo integrale dell’umanità.
Le religioni possono dire la loro in merito alle questioni ambientali quando si esprimono in soggetti, personali e comunitari, disponibili alla narrazione e impegnati a mostrare le ragioni valide di un’adeguata esperienza umana.
Le religioni infatti aprono all’universale concreto perché consentono ad ogni singolo di fare spazio al desiderio infinito che lo abita a cui nessuna natura potrà mai bastare.
Di questo ci rende testimonianza lo stesso Mahler quando afferma: «Un tormento divora eternamente il mio cuore: l’immensa nostalgia di te»[18]. O quando si vede preda delle domande che scaturiscono inesorabili dall’esperienza comune ad ogni uomo: «Da dove veniamo? Verso dove andiamo? È vero, come dice Schopenhauer, che ho desiderato realmente vivere prima di essere concepito? Perché se sono stato creato libero, la mia personalità mi imprigiona come in carcere? A che pro tutte queste sofferenze? Come mai la crudeltà e il male possono essere opera di un Dio misericordioso? Alla fine ci rivelerà la morte il senso della vita?»[19].
Come dirà al fedele discepolo, Bruno Walter, osservando la vita quando già la morte aveva poggiato la mano sulle sue spalle: «Ci sono tante cose, troppe, che potrei dire su di me, che non posso nemmeno cominciare. Ho sofferto così tanto lungo questi ultimi diciotto mesi [dopo la morte della figlia e la sua malattia] che appena posso raccontarlo. Come potrei cercare di descrivere una crisi così sconvolgente? Vedo tutto sotto una luce totalmente nuova; sono preda di una tale trasformazione che non mi sorprenderebbe se mi trovassi in un corpo nuovo (come Faust nella scena finale). Sono più avido che mai di vivere e incontro “l’abitudine di vivere” più dolce che mai». E conclude con una affermazione magnifica e particolarmente significativa: «È strano, quando sento musica, anche se sono io stesso a dirigerla, trovo risposte molto precise a tutte le mie domande, e tutto è per me perfettamente chiaro ed evidente. Oppure, anzi, ciò che mi sembra di percepire con chiarezza è che non si tratta in assoluto di domande»[20].
Insomma, dopo tanti pensieri, desideri, lotte, il vero conforto al proprio dolore lo trovava nella musica, reale apertura al Mistero. Il regno della musica qui si avvicina molto a quello della fede
È un’apertura che invita ad attraversare tutto il creato.
Note: [1]F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota, Feltrinelli, Milano 2005[5], 478. [2]ID., I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, 144. [3]AGOSTINO, De musica VI, 13, 38. [4]Paradiso XXXIII, 143. [5]Cfr. R. BRAGUE, La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. [6]Ibid., 334. [7]BARTOLOMEO I, “A Sea et Risk, A Unity of Purpose”, in N. Ascherson, A. Marshall (eds.), The Adriatic Sea. A Sea at Risk, a Unity of Purpose, Religion, Science and the Environment, Atene 2003. [8]GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus 37. [9]Cfr. H. U. VON BALTHASAR, Teodrammatica 3, Jaca Book, Milano 1983, 33-39; 233-242. [10]Cfr. ID., Epilogo, 151-152. Sull’interpretazione teologica del morire salvifico di Cristo si veda G. MOIOLI, Cristologia. Proposta sistematica, Glossa, Milano 19952, 154-192; G. BIFFI, Soddisfazione vicaria o espiazione solidale?, in ID., Tu solo il Signore. Saggi teologici d’altri tempi, Piemme, Casale Monferrato 1987, 42-67; H. U. VON BALTHASAR, Teodrammatica 4, Jaca Book, Milano 1986, 213-336; A. SCOLA, Questioni di Antropologia Teologica, Pul-Mursia, Roma 19972, 14-19. [11]Cfr. G. MANZONE, Libertà cristiana e istituzioni, Pul-Mursia, Roma 1998, 140-141. [12]GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti ad un Convegno su ambiente e salute, 24 marzo 1997, n. 5. [13]Ibid. Sul dibattito intorno all’antropocentrismo cfr. S. MORANDINI, Nel tempo dell’ecologia, EDB, Bologna 1999, 35-63; A. AUER, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1988, 201-220. [14]BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate 48 [15]G. CREPALDI, Il magistero della Chiesa e l’ecologia, in S. Morandini (a cura di), Per il futuro della nostra terra. Prendersi cura della creazione, Fondazione Lanza-Gregoriana Libreria Editrice 2005. [16]B. LATOUR, « Si tu viens à perdre la Terre, à quoi te sers d’avoir sauvé ton âme ? », in Revue-Théologicum.fr, http://www.catho-theo.net/spip.php?article248# [17]Cfr. A. SCOLA, Buone ragioni per la vita in comune. Religione, politica, economia, Mondadori, Milano 2010. [18]A. LIBERMAN, Gustav Mahler o el corazón abrumado, Altalena Editores, Madrid 1986, 16. [19]B. WALTER, Gustav Mahler, Editori Riuniti, Roma 1981. [20]Ibid.